Chi azzoppa i custodi della democrazia
Contrariamente
a quello che si tende a credere, non è il suffragio universale a sparire per
primo, quando la democrazia si spezza. Per primi sono azzoppati i suoi
guardiani, che non mutano col cambio delle maggioranze e che sono le leggi, i
magistrati, le forze dell’ordine, la stampa che tiene sveglio il cittadino tra
un voto e l’altro. Anche le costituzioni esistono per creare attorno
alla democrazia un muro, che la protegge dalla degenerazione, dal discredito,
soprattutto dal dominio assoluto del popolo elettore.
Quando quest’ultimo regna senza contrappesi, infatti, le virtù della democrazia
diventano vizi mortiferi. Nella sua descrizione degli Stati Uniti, Tocqueville
chiama i guardiani i «particolari potenti»: sono la stampa, le associazioni, i
légistes ovvero i giuristi. In loro assenza «non c'è più nulla tra
il sovrano e l’individuo»: sia quando il sovrano è un re, sia quando è il
popolo.
Queste mura sono in via di dissoluzione in Italia, da anni. Ma nelle
ultime settimane l’erosione ha preso la forma di un concitato giro di vite: un
grande allarme s’è creato attorno alla corruzione dilagante, seguito da un
grande tentativo di mettere corruzione e malavita al riparo dai custodi della
democrazia. È un dramma in tre atti, che vorremmo sottoporre all'attenzione del
lettore.
Il primo atto risale al 17 febbraio, quando la Corte dei Conti constata, in
apertura dell’anno giudiziario 2010, l’enorme aumento del malaffare. La denuncia
del presidente della Corte e del procuratore generale, Tullio Lazzaro e Mario
Ristuccia, è grave: «Una sorta di ombra e nebbia sovrasta e avvolge il
tessuto più vitale e operoso del Paese», opponendo una «pervicace
resistenza a qualsiasi intervento volto ad assicurare la trasparenza e
l’integrità» nelle amministrazioni pubbliche. I «necessari anticorpi
interni non vengono attivati», ed è la ragione per cui la cura della
patologia è «lasciata al solo contrasto giudiziale, per sua natura
susseguente e repressivo». Le conseguenze, nefaste, indicate da Lazzaro: «Il
Codice Penale non basta più, la denuncia non basta più. Ci vuole un ritorno
all'etica da parte di tutti. Che io, purtroppo, non vedo».
Qui cominciano gli atti decisivi del dramma. Quel che va in scena è la
controffensiva d’un governo che si sente asserragliato più che
responsabilizzato: che a parole annuncia misure anti-corruzione, e nei fatti
predispone un’autentica tenda protettiva, tale da coprire il crimine,
sottraendolo agli occhi dei cittadini e della legge con tecniche di occultamento
sempre più perverse, garantendo a chi lo commette impunità sempre più vaste. Nel
secondo e terzo atto del dramma il crimine viene avvolto, ancora una volta,
«nella nebbia e nell’ombra».
Il secondo atto fa seguito alla condanna in appello dei capi-poliziotti che la
notte del 21 luglio 2001 assalirono la scuola Diaz a Genova, durante un vertice
G8, massacrando 60 ragazzi inermi. «Nessuno sa che siamo qua, vi ammazziamo
tutti», gridavano i picchiatori, quando invece i superiori sapevano. I fatti
erano raccontati nella sentenza di primo grado, ma le condanne non coinvolsero
gli alti gradi della polizia. In appello sono condannati anch’essi.
Ebbene, cosa fa la politica? Assolve i condannati, li trafuga in una nuvola come
gli dei omerici facevano con i propri eroi, e li lascia indisturbati al loro
posto. Francesco Gratteri, capo della Direzione generale
dell’anticrimine ed ex direttore del Servizio Centrale Operativo, è condannato a
4 anni e resta dov’è in attesa della Cassazione. Lo stesso succede a Giovanni
Luperi, oggi capo del Dipartimento analisi dell’Aisi (ex Sisde), condannato a
quattro anni. Vincenzo Canterini fu promosso questore nel 2005: aveva guidato la
Celere contro la Diaz.
Il terzo e cruciale atto dell’operazione trafugamento del crimine è la legge
sulle intercettazioni. Ancor oggi si spera che essa non passi, grazie alla
resistenza congiunta di editori, stampa, magistrati, deputati finiani,
Quirinale. Grazie anche all’intervento del sottosegretario americano alla
Giustizia Breuer, che evocando la lotta antimafia di Falcone ha indirettamente
smascherato la natura di una legge che sembra patteggiata con la malavita. Fino
all’ultimo tuttavia, e per l’ennesima volta nell’ultimo quindicennio, Berlusconi
tenterà di imbavagliare magistrati, mezzi d’informazione. Se la legge sarà
approvata, i magistrati faticheranno sempre più a snidare reati, a istruire
processi.
Potranno usare le intercettazioni solo in condizioni proibitive, e per una
durata non superiore a 75 giorni (se stanno per accertare un reato al
settantaquattresimo giorno, peggio per loro). Sarà proibito intercettare
politici e preti senza avvisare le loro istituzioni: un privilegio
incostituzionale, davanti alla legge. Non meno gravemente è colpita la stampa
(quando riferisce su inchieste giudiziarie prima dei processi) per la sanzione
che può colpire giornalisti e editori. Questi ultimi, intimiditi da alte multe,
diverranno i veri direttori d’ogni cronista. Il direttore responsabile perderà
prestigio, peso. Bersaglio dell’operazione è non solo la stampa ma il
cittadino. Si dice che il suffragio universale è sacro e al tempo
stesso si toglie, a chi vota, l’arma essenziale: la conoscenza, i Lumi
indispensabili per capire la politica e dunque esercitare la propria vigile
sovranità.
Ci sono eventi storici che solo la letteratura spiega fino in fondo e anche in
Italia è così. Proviamo a leggere Il Rinoceronte di Eugène Ionesco e
vedremo descritto, limpido, lo strano mondo in cui dai primi Anni 90 anni
viviamo: un mondo che tutela il crimine, allontanandolo dalla scena e
rendendolo sia invisibile, sia impunibile. Un mondo dove i custodi della
democrazia sono neutralizzati e il popolo, bendato perché disinformato, vive e
vota dopo esser mutato interiormente. Un regime simile ci trasforma
ineluttabilmente nelle bestie a quattro zampe descritte dal drammaturgo. In
principio passa un rinoceronte: è bizzarro, ma passa. Poi piano piano tutti si
trasformano. Perfino il filosofo diventa prima un po’ verde, poi le mani
raggrinziscono, poi sulla fronte gli cresce il corno.
La mutazione genetica di cui ha parlato Sergio Rizzo sul Corriere del 6 maggio
avviene quando cadono le categorie umane classiche: il confine fra lecito e
illecito, bene e male («il Male! Parola vuota!», dice Dudard a Berenger, nel
Rinoceronte). In questione non resta che lo «stato d’animo». Come per Denis
Verdini: indagato per concorso in corruzione, il coordinatore del Pdl non si
dimette come Scajola perché, assicura, «non ho questa mentalità».
Chi ha desiderio di cedere, nel dramma di Ionesco, lo fa perché il rinoceronte
gli appare più naturale dell’uomo, perché «possiede una specie di candore»,
perché emette un barrito incomprensibile ma sonoro, trascinante. Cedere è
attraente, come spiega Dudard a Berenger. È questione di mentalità, appunto: «Io
mi limito a constatare i fatti e a prenderne atto. E poi, dal momento che la
cosa esiste, ci sarà bene una spiegazione (...) Se ce la prendessimo con tutto
quello che succede, non vivremmo più. Dal momento che è così, non può essere
altrimenti». E conclude, cercando di convincere l’amico ribelle: «Lei vede tutto
nero... Dobbiamo imporci a priori un atteggiamento favorevole o, per lo meno,
l’obiettività, l’ampiezza di vedute proprie di una mente scientifica. Tutto ha
una logica: comprendere vuol dire giustificare». Chi guarda il notiziario del
Tg1 in questi giorni avrà conferma della mutazione genetica. Niente sui
capi-poliziotti della Diaz che mantengono la carica disonorando uno dei più
importanti corpi dello Stato. Quasi niente sulle intercettazioni controverse.
Fortuna che la ribellione non manca. Fortuna che al Tg1 c’è Maria Luisa Busi,
che toglie la firma e non vuol essere rinoceronte.
Berenger è l’unico a resistere, a non avere la tollerante «ampiezza di vedute»
consigliata dai falsi amici. Alla fine è solo, in una città di rinoceronti.
Non ha ceduto alla forza che ti trasforma: la stanchezza infinita che ti può
assalire, il «bisogno di lasciarsi andare», il fatale conformismo. Il
pragmatismo di chi dice: meglio, se si vuol sopravviver quieti, tenere i due
piedi ben piantati in terra. Anzi, i quattro piedi.
Barbara Spinelli La Stampa 30 5 2010