Che forza i clericali
La vita democratica si fonda sullo scambio pubblico di argomenti e su procedure condivise. Da questo punto di vista la campagna civil-politica che da mesi la Chiesa sta conducendo in Italia è la conferma che la democrazia è l’arena che le consente di realizzare in modo ottimale le sue finalità istituzionali. Paradossalmente proprio il carattere laico della democrazia consente alla Chiesa l’esercizio di un imponente ruolo pubblico informale.
Se è così, perde senso il lamento vittimistico di area sia laica che clericale, secondo cui da un lato assisteremmo a forme di «ingerenza» e di «invasione di campo» oppure, specularmente dall'altro, ad una sacrosanta reazione contro «l’emarginazione» o addirittura «l’ostilità verso i cristiani». Usciamo quindi dall'ottica polemica del «batti e ribatti» quotidiano e chiediamoci se e come sono cambiate le coordinate entro cui si ridefinisce, o meglio si esprime la laicità in un Paese in cui tutti - dal Capo dello Stato al cattolico militante - si dichiarano laici, ma sono i vescovi che pretendono di fissarne i criteri.
Diciamo subito che non si tratta di riaffermare i principi fondanti della laicità stessa - autonomia e libertà della coscienza e della ricerca scientifica, separazione tra Stato e Chiesa e contestualmente rispetto di sentimenti e religioni. Sui grandi principi infatti si è tutti d’accordo, laici e clericali (già, a proposito, siamo costretti a rispolverare il termine di «clericale», che credevamo obsoleto, per qualificare i molti pubblicisti e politici che ritengono inconfutabile quanto dice la gerarchia della Chiesa su tutti i temi dello scibile - dalla biologia umana alla famiglia, alle competenze della scienza).
Lo scontro tra laici e clericali non ha luogo sull'elenco dei valori che in teoria stanno a cuore a tutti, ma negli argomenti di merito sviluppati nel discorso pubblico e nelle procedure attivate per dare a tali argomenti vincoli giuridici validi per tutti i cittadini.
Siamo così al punto cruciale: l’etica pubblica, la sua espressione, i suoi vincoli. L’etica pubblica dovrebbe rispondere alla pluralità delle posizioni etiche (e religiose) di tutti i cittadini (credenti, non credenti e diversamente credenti) e come tale deve godere della garanzie dello Stato che si dice laico, appunto. L’intento della Chiesa invece è quello di determinare a senso unico l'etica pubblica - con la pressione istituzionale e con la sua autorevole presenza nella grande comunicazione.
Ovviamente si comporta così perché è certa che soltanto la sua concezione della natura umana, della famiglia o delle finalità della scienza sia quella vera. Il compito dei laici al contrario è la salvaguardia della pluralità dei convincimenti morali, dando voce a tutti gli argomenti nel confronto pubblico. Ma questo confronto oggi si presenta sempre più difficile sia per la complessità di molte questioni sul tappeto sia per il crescente sbilanciamento della comunicazione pubblica favore della Chiesa.
Non solo non c’è proporzione tra il rilievo mediatico delle posizioni ecclesiastiche e le possibilità di argomentazione pubblica dei laici, ma a questi ultimi viene di fatto disconosciuta la pienezza della propria legittimità etica. Come si constata ogni giorno nella sistematica accusa di relativismo che ostinatamente fraintende il senso del pluralismo laico.
E' frequentissimo che chi afferma che al cuore del dramma dell'aborto debba essere riconosciuta innanzitutto la donna, il suo corpo, la sua libertà, la sua anima - si senta moralmente sospettato di assassinio. E’ diventato quasi normale che chi attribuisce alla scienza decisive acquisizioni conoscitive sui processi vitali, che mutano radicalmente la tradizionale visione della «natura umana», venga sospettato di evocare mostri. Oppure chi contesta ai clericali l'insensatezza di mettere sullo stesso piano - come in un continuum di depravazione morale - l'aborto, i preservativi (magari per le aree africane infestate dall'Aids) e i Pacs, rischia di essere considerato un irresponsabile libertino.
Sin tanto che la gerarchia ecclesiastica e le sue agenzie di informazione non riconoscono la piena legittimità o quanto meno la plausibilità etica di concezioni e argomenti (sulla natura umana, sulla famiglia ecc.) diversi se non alternativi a quelli da essa sostenuti - non è possibile un dialogo autentico. Certo: ci si può, anzi ci si deve intendere sulle procedure decisionali e sui cosiddetti «mali minori» per entrambe le parti. Ma un serio scambio di argomenti, un vero dialogo quale invocato ancora recentemente dal cardinal Ruini non è possibile.
Il tutto riporta all'accorato appello di Benedetto XVI: «Non cacciate Dio dalla sfera pubblica» - dove ancora una volta si confonde l’appello alla trascendenza con l'affermazione di una ben definita dogmatica religiosa, storicamente e culturalmente condizionata. E quando il laico sommessamente avanza il suggerimento di affrontare l’etica pubblica etsi deus non daretur viene regolarmente frainteso e quindi invitato a lasciar perdere.
Lo ha fatto lo stesso cardinal Ruini che evidentemente non ha preso nota delle precisazioni fatte innumerevoli volte (anche su questo giornale) dai laici per evitare il fraintendimento ateistico della formula. Ripetiamole ancora una volta.
Per il religioso-di-chiesa tradizionale il riferimento a Dio entra a costituire strutturalmente il discorso su ciò che è «naturale» e non, sull’uomo e i suoi diritti. Per laico invece il nesso tra Dio e natura è diventato assai problematico. La stessa determinazione dei diritti inalienabili dell'uomo prescinde da ogni riferimento diretto a Dio. Non è la creazione il fondamento dei diritti dell'uomo ma un’evidenza etica.
Non si tratta di disconoscere l’immenso valore culturale e morale che il riferimento a Dio creatore e legislatore ha svolto storicamente nell'umanizzazione e civilizzazione dell'uomo. Né di contestare al credente la sua convinzione che i diritti fondamentali siano radicati nella condizione naturale dell'uomo come creatura.
Ma per il laico oggi la questione della natura, la questione dei diritti e la questione di Dio si sono separate. Sul piano della conoscenza e del comportamento morale l’unico criterio è quello argomentabile in termini razionali, immanenti, nel senso che prescindono da riferimenti trascendenti e mantengono un solido rapporto critico con la scienza. L’etica laica non ha altro punto d'appoggio che l'autonomia della ragionevolezza umana, con tutti i suoi limiti. E chiede - ecco il punto cruciale - che a questo criterio si adegui anche un credente nell’etica pubblica.
Gian Enrico Rusconi La Stampa 5 dicembre 2005