CHE COSA DIRE AL PARTITO DEMOCRATICO
Il Partito Democratico rischia di compiere un errore più grave di tutti quelli
compiuti fin qui, e questo sarebbe definitivamente letale. Esso consiste nel
ritenere che, accantonato Veltroni, si tratterebbe di continuarne la politica,
di perseguirne ancora meglio “il progetto”, di realizzarne “il sogno”; e al
vederne la realizzazione sempre più lontana, l’errore starebbe nello scusarsi
dicendo che per i grandi progetti ci vuole tempo, che bisogna non appiattirsi
sull’oggi, come fanno i politicanti mediocri, anche se è proprio oggi che la
casa brucia.
Credo che a Veltroni non si potrebbe fare offesa maggiore di questa: perché se
il progetto era buono, tanto che proprio ora si potrebbe realizzare senza di
lui, vuol dire che il disastro è avvenuto per colpa sua. La stessa offesa si
fece a Prodi, quando si è pensato che, tolto di mezzo lui, qualcuno sarebbe
riuscito nella sua politica meglio di lui, mandando invece a fondo il Paese.
La verità è che “il progetto” è sbagliato, anche se il valore di
Prodi e la seduzione di Veltroni lo hanno fatto apparire per un certo tempo
attraente, fino all’inevitabile sconfitta; e neanche questa insegna qualcosa, se
non viene imputata al progetto, ma sempre e soltanto a estranei infidi litigiosi
e cattivi, come Bertinotti e Diliberto ieri, e Di Pietro oggi.
Il progetto sbagliato è quello dell’Italia bipolare, con due soli “grandi”
partiti a contendersi il potere; e il sogno è che uno di questi due grandi
partiti, capace di combattere e di vincere da solo, sia il Partito Democratico.
Il progetto è sbagliato perché il suo presupposto è la riduzione della
politica a gestione pragmatica e scorata dell’esistente, e la sua condizione è
il leaderismo su cui convogliare le pulsioni emotive e ideali rimosse dalla
politica. A questa riduzione e a questo cesarismo l’Italia non è pronta
perché è stata patria di molte ideologie e passioni politiche, e perché dal
fascismo è stata vaccinata contro il culto del capo. Neanche Berlusconi gode di
culto, ma solo di piaggeria.
Questa è la vera ragione del tanto lamentato protrarsi della “transizione
italiana”; quando questa dovesse concludersi secondo il suo verso, l’Italia
sarebbe snervata, il fascismo potrebbe giocare di nuovo tutte le sue carte e
Gelli avrebbe definitivamente ragione.
Questo esito non è quello previsto né voluto dai coltivatori del progetto. Essi
hanno sbagliato sogno, hanno abitato il sogno di un altro. L’errore è stato un
errore tipicamente cattolico, del tipo postridentino, in salsa secolare. Nella
filiera di questo errore si trova infatti molto personale cattolico, anche
avanzato, da Segni a Prodi a Parisi, a Tonini, a Ceccanti a Guzzetta.
L’assenza di una sinistra cristiana ha impedito di vederlo.
L’errore è quello di ritenere che se la contraddizione principale è quella tra
bene e male, il mondo si divida in buoni e cattivi, e che a trionfare siano
destinati i buoni. Così, divisa l’Italia in due parti, e costretti i cittadini a
“premiare” una parte contro l’altra, l’idea è che a governare saranno i buoni.
Veltroni ci ha aggiunto di suo che il Partito Democratico ha la
vocazione a riunire e a rappresentare in sé tutti i buoni, i quali lo
voterebbero non per avere un governo secondo i propri gusti, ma per il gusto di
avere in Italia, anche sconfitto, un partito così.
Senonché le cose non vanno affatto in tal modo. Come già aveva spiegato Sant’Agostino,
gli uomini, e perciò i cittadini, non sono né completamente buoni né
completamente cattivi, ragione per cui di lì a poco fu inventato il Purgatorio.
In politica ciò vuol dire che bisogna tirare fuori il meglio degli uni e degli
altri, ciò per cui ci vuole una cultura politica forte, capace di interpretare
gli ideali e le speranze di molti, e un egocentrismo debole, cioè una virtù
aggregativa sensibile al pluralismo e capace di alleanze oneste e ben congegnate
con i diversi da sé. In termini istituzionali ciò vuol dire pluralità dei
partiti come organi della società civile, rappresentanza delle diversità,
proporzionale, centralità del Parlamento.
Per il Partito Democratico è avvenuto il contrario, perché ha avuto una
cultura debole, residuata dall’abbandono della cultura marxista e della cultura
cattolico-democratica delle due componenti che vi si sono dissolte, e ha avuto
un narcisismo forte, presentando all’elettorato come un bene in sé il mandare
via gli altri e il correre da solo.
Ora, per uscire dalla crisi, occorre semplicemente abbandonare il progetto e il
sogno di un Partito Democratico come fine, e accettare l’idea di un
Partito Democratico come strumento. In realtà l’ideale di “un grande
partito riformista come in Italia non c’è mai stato”, non fa sognare nessuno.
Perché la situazione cui è pervenuta l’Italia e l’intera comunità mondiale è
così critica, che non qualche ritocco riformista, ma una vera rivoluzione
sarebbe necessaria, cioè una conversione delle dottrine e dei cuori. E
finché tale rivoluzione non sarà possibile, o non sarà imposta dagli stessi
eventi, la cosa più progressista che si può fare è di conservare e sviluppare le
conquiste già ottenute lottando strenuamente contro il loro rovesciamento e
contro la regressione al passato.
E se nuove culture forti non sono all’orizzonte (né a quello laico né a quello
religioso), una cultura forte di cui può dotarsi il Partito Democratico esiste
già, ed è la cultura dei diritti; non una cultura d’occasione, ma una cultura
sistemica, capace di produrre un nuovo modello di Stato e una nuova democrazia
delle nazioni; e per capire di che cosa si tratta basta leggere i “Principia
iuris” di Luigi Ferrajoli.
Se il Partito Democratico avrà una cultura forte e tornerà in società (nella
società delle altre famiglie politiche, a cominciare da quelle alla sua
sinistra), potrà riprendere vita, e dare vita al Paese. Altrimenti sequestrando
e paralizzando la sinistra dello schieramento bipolare, edificherà con le sue
mani le basi di un lungo potere della destra, come inevitabile destino
dell’Italia. Ma non era proprio questo il vero progetto della “seconda
Repubblica”?
Raniero La Valle Liberazione 24/2/2008