cattolici per l’eutanasia
C’è anche un’altra Chiesa, oltre a quella di Ratzinger. C’è una Chiesa che afferma il diritto all’autodeterminazione degli individui. Una Chiesa che non dimentica che la ‘vita’, se è tortura, non va vissuta a qualunque costo. Una Chiesa laica, consapevole che non si può imporre ad altri la propria fede. Ecco le testimonianze di quattro preti che prendono sul serio il Vangelo e una lettera delle Comunità cristiane di base.
don ANDREA GALLO /
GIOVANNI FRANZONI
don Paolo Farinella / don
aldo antonelli
Comunità cristiane di base
La crociata di una Chiesa materialista
don Andrea Gallo
Non è la tutela dei diritti individuali uno dei cardini del messaggio evangelico?
La nozione di vita deve essere alta, ricca, personale più di quanto non sia una nozione di organismo, oggetto della scienza.
Dov’è l’amore? Dov’è il rispetto del primato della coscienza personale? Dov’è la pietà? C’è un vuoto di amore in questa crociata «cattolica» e avanza un pesante fondamentalismo.
Esistono regole come la libertà di cura e il divieto di accanimento terapeutico anche nel catechismo.
Mi sembra che si voglia respingere un principio sancito dalla legge, come la libertà di non accettare cure.
Welby era come un malato di tumore con metastasi: sa che l’operazione non servirà a nulla e la rifiuta.
Si può accettare un’esistenza dolorosa in un letto immobile; per Welby era un inferno.
Chi ha il diritto di decidere per lui?
Le diffuse incertezze e le numerose discussioni per la morte assistita, chiesta, invocata da una persona lucida, a mio avviso, confermano il nostro confuso concetto di vita e non aiutano la preparazione di una «buona morte».
È possibile distinguere una «vita» esclusiva dell’organismo da quella che vive profondamente un individuo, consapevole di non riconoscersi nelle rimanenti e scarse possibilità biologiche?
Vogliamo ridurre il concetto di «vita» ad uno straziante prolungamento biologico dell’organismo senza nessuna speranza terrena?
Il rispetto dell’individuo, ci chiede di inchinarci amorevolmente alla sua coscienza.
In particolari condizioni, non si mette in discussione il valore della vita, rispettando chi si sente in diritto di decidere di chiudere un’esistenza che va avanti esclusivamente grazie a un processo di assistenza tecnica.
Welby supplicava di essere accompagnato dai suoi cari, dagli amici, dai medici ad una morte «umana». Così è stato.
L’eutanasia nell’Antica Grecia indicava un’accettazione della morte come naturale compimento della vita.
Il cristiano si presenta al Padre misericordioso.
Sarà sempre più complicato, in assenza di una nuova legislazione, distinguere il dovere di cura dall’accanimento terapeutico.
Quando si verificano le condizioni particolari diventate insopportabili per il paziente non è morte anticipata assecondare la libera volontà espressa dal malato di porre «fine» alla sua esistenza dimezzata.
La morte riguarda ciascuno di noi nella sua profondità e spiritualità e non riguarda solamente il nostro organismo.
Non lasciamoci espropriare dal materialismo della materia. Sarebbe troppo generico. Ognuno di noi ha il suo stile, la sua impronta, le sue decisioni.
Riscopriamo il vero significato della nostra vita piena.
La Scrittura pronuncia questa profonda verità: «La morte è innanzitutto cessazione della relazione con gli altri, chi non è in relazione con gli altri è già morto».
Accanto al letto di Welby l’atmosfera non doveva essere quella della paura e dell’angoscia.
Alla sua scelta di morire non possiamo rispondere con inopportune e gelide parole clericali.
Mi sembra di raccogliere più fede nella vita, nella vita che vince la morte, nei messaggi di Welby che non nelle stanche e dogmatiche ed ideologiche negazioni di una supposta fede disabitata dai sentimenti.
Continuo a diffidare dalle precisazioni, dai distinguo senza cuore.
Avrei voluto porre le mie mani sulla testa di Welby per stringerlo dolcemente e teneramente sostenuto nella scelta con un sussurro : «A Dio». Addio, ma nella pace.
E poter vincere la mia paura.
Perché di fronte alla morte anche Gesù ebbe paura e non siamo migliori di Lui.
Scoprire la profondità del vivere e la semplicità del morire: «Vita mutatur non tollitur». La «vita» è trasformata non è tolta, recita il Prefazio della messa dei Defunti.
«Signore fa che quando arriva la morte mi trovi vivo», disse lo psicanalista Winnicott per esprimere la relazione tra la vita e la morte.
Il teologo tedesco Hans Küng afferma: «La vita è per volontà di Dio anche compito dell’Uomo e perciò è rimessa alla nostra decisione responsabile».
Spero che la bioetica cattolica, e la bioetica laica, pur essendo strutturalmente diverse, non cessino di coesistere e di dialogare onestamente per il bene dell’umanità.
Vivere il proprio morire
Giovanni Franzoni
La nobile e ferma richiesta di Welby perché avessero fine le torture sul suo corpo perpetrate in ossequio ad un principio ideologico che privilegia in assoluto la quantità della vita nei confronti della qualità e dell’accettazione del dono della vita da parte del soggetto, ha posto il problema dell’eutanasia ma, in realtà, a questo problema si sfugge, riducendolo alla liceità della cessazione dell’accanimento terapeutico: nozione questa, più accetta dal punto di vista formale, per coloro che si attengono alla linea della Chiesa cattolica ufficiale.
Si sta quindi aprendo una questione infinita su quando e come la terapia per un malato terminale o anche solo gli interventi di mantenimento in vita, si configurino come accanimento terapeutico. Ignorando peraltro l’altra questione fondamentale se il soggetto in causa consideri o no, quel trattamento, come un accanimento terapeutico e una terapia soggettivamente sostenibile e bene accetta.
È quindi importante tornare a chiarire i linguaggi e togliere dalla condizione di demonizzazione la nozione stessa di eutanasia.
Il primo suggerimento viene dalla felice espressione di Epicuro: «Chi esorta il giovane ad una vita bella, il vecchio ad una bella morte, ha poco senno, non solo per il gradevole della vita, ma anche perché una sola è la meditazione e l’arte di ben vivere e di ben morire» (A Meneceo).
La parola morte, anche ai nostri giorni, andrebbe sostituita con l’infinito sostantivato morire.
La morte infatti è una condizione statica e irreversibile. La risurrezione appartiene alla fede e si sottrae alla constatazione. La morte anche se prevedibile e prevista non c’è finché un medico legale non la constata e non la dichiara. E quando è constatata e dichiarata, salvo errore del medico, è irreversibile.
Il morire invece si intesse fin dalla nascita col nostro crescere e col nostro stesso vivere. Non è uno sconosciuto e non giunge come un ladro. Salvo naturalmente il caso di morte violenta e incidentale: l’esplosione di una mina, messa ad arte, sul ciglio di una strada percorsa da veicoli civili è un furto.
Il morire, invece, sotto forma di pigrizia, di rassegnazione, di torpore o di melanconia, si è spesso affacciato fra le pieghe del nostro vivere. È una vecchia conoscenza. Non è un ladro.
Al morire abbiamo opposto resistenza, solitaria o comune, e quando ha superato il limite della sostenibilità cercando di sopraffare il vivere, abbiamo invocato la risurrezione. Talvolta una voce di amico ci ha sottratti al dolciastro sapore del morire e ci ha fatto riprendere la fatica del vivere.
Questa distinzione è fondamentale per affrontare il problema dell’eutanasia.
Quando i medici constatano che, nella cura di un malato, non vi è più nulla da fare per la loro scienza, abbandonano il malato agli infermieri, ai familiari e al prete. La morte non si cura.
Molto spesso abbiamo sentito questo refrain. Ed è per questo che, appellandosi al ben noto giuramento di Ippocrate, la deontologia medica oppone alla pratica dell’eutanasia, un rifiuto etico, apparentemente nobile: «Il medico cura la vita e non può dare la morte». In realtà si tratta di una fuga.
Perché non proporre ai medici la cura del morire, presentando il morire come una fase inevitabile e delicata del vivere? L’attivazione delle risorse, la sedazione del dolore, il conforto della presenza non appartengono forse ad una vicenda che in quella soggettività c’è sempre stata fino a che è giunta ad una fase critica e risolutiva? Non è giunto il momento di incentivare la libertà del soggetto bisognevole di cura favorendo la sua opzione o per il prolungamento quantitativo della vita biologica o per la qualità del suo morire con la coscienza vigile e l’affettività compensata?
Una seconda fondamentale distinzione va fatta sulle motivazioni di una richiesta di suicidio assistito, o meglio, senza paura della parola, di eutanasia.
Si nomina in genere la sofferenza, fisica o psicologica, talmente insostenibile da rendere non-vita, la vita. Ma bisogna tenere conto di un altro fattore che sta stretto nella nozione di «sofferenza»: il non riconoscersi più, sul piano etico ed esistenziale, in una certa condizione.
Un caso classico è quello citato da sant’Agostino delle vergini cristiane (ma perché, oggi, non considerare anche le non vergini e le non cristiane?) che per evitare l’esposizione al postribolo si gettarono nel fuoco e furono considerate sante e martiri.
Nell’area del pensiero etico e degli esempi storici, bisogna ricordare il pensiero stoico per cui, quando una persona si trova in obiettiva e inamovibile contraddizione con se stessa, ha come unica soluzione il suicidio.
Dante (dell’ortodossia del quale nessuno ha mai dubitato) affida la custodia del Purgatorio a Catone l’Uticense che si tolse la vita per non accettare l’insopportabile comportamento politico di Cesare: «Libertà va cercando che sì cara / come sa chi per lei vita rifiuta». E qui Dante pronuncia la parola fatidica «libertà» che è nel cuore del nostro discorso.
Ho avuto occasione di dare un certo spazio alla pratica dei monaci giainisti che praticano il «digiuno estremo» (fino alla morte) quando le circostanze impediscono loro di vivere secondo la disciplina che hanno adottato (si veda La morte condivisa, pp. 43-47). Gandhi, che era giainista, adottò una volta questa decisione – era stata finalmente emanata in India una legge che concedeva il voto politico agli «intoccabili» ma in collegi separati, cosa accettata dalle organizzazioni dei paria ma insopportabile per il Mahatma – e poi la revocò quando ritenne, ma lo ritenne lui, che le circostanze fossero mutate.
Nuovamente a regnare sovrana è la libertà che si sottomette solo quando la coscienza la orienta verso un fine – secolare o religioso – che le consente di esprimersi non in forma capricciosa ma secondo modalità condivisibili e condivise.
Si potrebbero citare infiniti casi di persone, molto spesso medici, che conoscono bene il decorso del loro caso clinico, che, prevedendo di trovarsi prigionieri di una vita solo vegetativa, hanno lasciato nel loro testamento biologico la volontà di non essere alimentati artificialmente perché, da quel momento, non si sarebbero riconosciuti nella condizione di totale dipendenza. Sia pur priva di dolore fisico o psicologico.
Ultima distinzione, infine, forse la più delicata, è circa la vita come dono. In particolare, come osserva Flamigni in un recente fondo sul Manifesto, per i credenti è «dono di Dio» e pertanto sacra; disporne a proprio piacimento sarebbe irriverente e blasfemo. Altro discorso per i non credenti che non facendo riferimento a Dio, potrebbero essere liberi di disporre della propria vita.
In realtà la difficoltà c’è anche per l’etica laica. Immanuel Kant considera la vita un bene «non disponibile» dal momento che non ce la siamo dati da soli e quindi considera negativamente il suicidio.
È necessario approfondire il concetto di «dono». La donazione, nel diritto, è definita un contratto e quindi suppone delle regole di accettazione, come in tutti i contratti. Nel pensiero filosofico come in quello religioso la donazione potrebbe essere considerata in modo diverso: quando il rapporto è gratuito e quindi il donatore non accampa diritti di dipendenza su coloro che ricevono il dono, si suppone una responsabilità connessa al ricettore del dono. Questo vale soprattutto quando il dono è la vita umana che ha come dna specifico di essere libera.
Che il donatore sia il Creatore o che sia il popolo o i genitori da cui nasci, essi ti donano la libertà e si attendono solo che tu la eserciti con responsabilità e non con stoltezza e leggerezza.
La maturità della coscienza resta l’arbitro di questa suprema ed esaltante sfida.
Il diritto di vivere il dovere di morire
don Paolo Farinella
Martin Heidegger, filosofo della fenomenologia, in Essere e tempo definisce l’esistenza come possibilità di relazioni che l’individuo determina in funzione del proprio progetto di vita e la morte come «possibilità dell’impossibilità di ogni possibilità» dell’«esser-ci» (Dasein). Per il credente nel Dio di Gesù Cristo, la morte è l’atto supremo della vita, il momento celebrativo più intenso del Dasein heideggeriano che entra nel suo «permanere» definitivo chiamato eternità. L’impossibile è possibile. La morte è l’ingresso della relazione che si consuma nell’atto sponsale eterno con Dio, senza più il limite dello spazio e del tempo. Resta solo l’essere ([ex-]sistere/Sein) che ora si identifica con il progetto che è pienezza di comunione. Per un credente desiderare la morte è aspirare alla vita e volere vivere (sulla terra) a tutti i costi può essere un atto di ateismo: «Si Christus non resurrexit vana est fides vestra» (1Corinzi 15,17). Questo è l’orizzonte entro cui, come credente prete, posso interrogarmi anche sul tema attualissimo della «eutanasia», che le cronache hanno riportato all’onore della cronaca. Lo sa bene san Paolo che desiderò ardentemente la morte vista come un bene, ma accettò di restare «terreno» per servire i Filippesi che ne avevano bisogno: «Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno […] sono messo alle strette tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo [= morire] per essere con Cristo, che sarebbe assai meglio; d’altra parte è più necessario che per voi io rimanga nella carne» (Filippesi 1,21-24).
Se come cristiano, e ancora più come prete, ragiono di «eutanasia», so già di correre il rischio di cadere nel frullatore della polemica ideologica e di essere considerato come «eretico». Il metodo di approccio corrente infatti è di schieramento preventivo in forza della propria appartenenza socio-culturale o confessionale. Provo ad uscire da questo schematismo ideologico per tentare uno sguardo secondo la mia coscienza alla luce della mia esperienza personale (Dasein) e della Parola di Dio che per me è la chiave di lettura degli avvenimenti della vita, premettendo che rappresento solo me stesso come individuo e nessun altro.
La mia esperienza
Ho visto soffrire mia mamma e l’ho vista morire. Ho pregato con tutta l’anima per la sua morte, nonostante nel mio inconscio la considerassi eterna già sulla terra. Io e la mia famiglia l’abbiamo amata fino allo spasimo, eppure ne abbiamo desiderato ardentemente la morte, invocandola da Dio come liberazione delle sue e nostre sofferenze. Nell’omelia della «Liturgia dell’arrivederci» (17-5-2005) dissi in chiesa: «Sotto morfina 24 su 24 ore, la mamma cominciò un lento cammino verso la morte, senza lamentarsi per le virulenze del dolore. Quando le dissi, ancora in ospedale: “Mamma, abbiamo un tumore”, mi guardò, pianse in silenzio, fece la Comunione e disse: “Facciamo quello che Dio vuole” traducendo per sé le parole di Israele ai piedi del Sinai: “Ciò che il Signore ha detto, noi faremo e ascolteremo” (Esodo 24,7) e del Padre nostro: “Sia fatta la tua volontà” (Matteo 6,10). Guardando la mamma abbiamo visto la Donna dei dolori, che ha patito tutto ciò che si poteva patire. Solo le parole del profeta Isaia (53,3.7) la sanno descrivere: “Uomo dei dolori, conoscitore della sofferenza, simile a uno davanti al quale ci si nasconde la faccia… Maltrattato e umiliato, non aperse bocca. Come un agnello condotto al macello, come pecora muta davanti ai suoi tosatori non aperse bocca”. Il suo viso dolcissimo fu scavato e scarnificato dalla pienezza della sofferenza: la deformazione della spina dorsale, la rottura del femore, poi il tumore alle vie biliari, le degenerazioni ai polmoni e allo stomaco e infine un’atroce infiammazione alla lingua e alla bocca che le ha impedito di nutrirsi, bere e parlare. Rimasero solo le parole silenziose degli occhi. Alla mamma Dio ha tolto anche il dono/consolazione della Comunione che era diventata il suo unico cibo quotidiano. Come Cristo, è stata spogliata, incoronata di spine, crocifissa, trafitta e martoriata: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonata?”» (Marco 15,34)
Di fronte a lei, assisa sul trono della sofferenza, noi, la famiglia, fummo attivi ma impotenti e inutili: col desiderio volevamo schiodarla da quella croce per porre fine al dolore tracimante e incontenibile, di fatto non abbiamo potuto o saputo alleviarle le sofferenze. Unica consolazione: morì in casa attorniata dai figli.
Natura e dignità
Il magistero della Chiesa cattolica si appella alla «legge naturale» come espressione della «legge divina» per esigere l’intangibilità della vita dalla nascita fino al suo compimento, appunto naturale. È un argomento delicato perché a guardare dentro la «natura», nulla vi si scorge di sacrale, mentre tutto sembra dominato dalla violenza e dalla sopraffazione. Il debole soccombe, il malato è eliminato, il forte prevarica. Se dovessimo scegliere la natura come modello di comportamento umano, dovremmo improntare i codici alla legge naturale del più forte, annientando il concetto stesso di polis che è regolazione degli interessi particolari in vista dell’armonia del bene comune.
Oggi si dice con superficialità che si è allungata la prospettiva di vita, ma forse si è prolungata solo la sofferenza delle persone. Quando si parla di «vita» si pensa all’anima e al suo opposto, il corpo. Questa distinzione tra anima e corpo è un’impostazione greca (platonico-aristotelica) che non appartiene al patrimonio culturale biblico-semita che parla della persona come un tutt’uno, un unicum visto attraverso tre categorie: tutta la persona è «basàr – carne/fragilità/caducità» (in termini moderni corporeità, come capacità di relazione con le cose create); tutta la persona è «nèfesh – [che per comodità chiamiamo] anima» come capacità di relazionarsi in senso orizzontale; tutta la persona è «ruàch – spirito» come capacità di relazionarsi in senso verticale con Dio. Corpo, anima e spirito sono tre prospettive/dimensioni di una sola realtà: la persona umana. Se ne manca una non esiste più la persona consapevole e cosciente di essere umano vivente in relazione. La vita «umana» non può ridursi al solo atto respiratorio che con una terribile, ma efficace espressione, è detta «vita vegetativa», perché degradata al regno vivente inferiore. Nella sua globalità portante, la vita per essere tale deve essere «umana»: ciò esige la condizione previa dello status di dignità di esistenza senza la quale non può porsi la stessa «possibilità» di «ex-sistere».
Immagine di relazione
Genesi 1,27 afferma (traduco alla lettera dall’ebraico): «E creò Èlhoim l’Adam [= genere umano] a sua immagine, a immagine di Èlhoim lo creò, pungente e perforata li creò». Dal punto di vista di fede, la vita per essere espressione di Dio deve essere «vita piena» con due caratteristiche: essere immagine rappresentativa della pienezza creativa di Dio che si esprime (è la seconda caratteristica) nella relazione affettiva di pungente e perforata che le traduzioni sviliscono in «maschio e femmina». La vita umana è fondamentalmente relazione di comunione in cui convergono tre orizzonti della persona: testa, cuore, pelle in una sintesi perfetta di armonia d’amore. Se l’amore è la chiave, il metodo e il fine, un credente può volere la sua morte? Per un cristiano, vita e morte sulla terra non sono valori assoluti perché la prospettiva di vita non è temporale, ma si dilata oltre la soglia della morte per entrare nell’abisso del mistero dell’eternità, tarato su un fondamento invalicabile che è l’amore o, per usare il vocabolario di Paolo, la legge dell’Agápe. «L’Agápe non avrà mai fine» (1 Corinzi 13,8), mentre la fede, la speranza, le profezie finiranno. Nella logica di Paolo, l’Agápe, il dono totale di sé senza contropartite di alcun genere, è Cristo stesso che ci ha lasciato il comandamento dell’amore come sua legge suprema e contrassegno della nostra e sua credibilità. Al di fuori di questo confine, nemmeno Dio è possibile come relazione.
Imparare a vivere in attesa di morire
L’Agàpe di chi crede si fa carico del dolore e della sofferenza del mondo e si pone a servizio della persona in quella condizione di vita o di non-vita in cui si trova e non in una condizione teorica e astratta dove il volto sofferente del «crocifisso» è assente. Forse è venuto il tempo d’imparare prima a vivere la vita in tutta la sua estensione di dignità e poi, quando giunge il momento, a morire con dignità, con umanità, con amore, piuttosto che costringere altri anche contro la loro volontà e la pesantezza del loro dolore a restare schiacciati da una condanna a morte sempre più dilazionata: non si prolunga né si rispetta così la vita, ma si dilata solo la morte agonizzante come una tortura senza fine. Da credente prete posso accettare la mia sofferenza come partecipazione alla passione di Cristo (Colossesi 1,24), ma non posso imporre questa mia fede a chi ad essa non fa alcun riferimento, vivendo compiutamente un altro orizzonte etico, non meno rispettabile.
Il credente che celebra la vita si carica della croce altrui e come il cireneo sale al Calvario dalla cui vetta si proietta verso il Risorto: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo» (Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 1).
Il dovere della polis
Come credente prete cattolico non posso mai né invocare leggi positive dello Stato per imporre la mia fede, la mia etica o una visione o una scelta (oggi l’eutanasia), uniforme per tutti. Ogni «principio», specialmente se riferito alla persona, deve essere «incarnato», in base alla regola d’oro del vangelo di non fare agli altri ciò che non si vorrebbe fosse fatto a se stessi (Matteo 7,12). Difendere la vita vegetale separata dalla persona reale ad ogni costo, costi quel che costi, anche contro il livello minimo di dignità è puro materialismo perché sull’altare di un principio ancora da verificare non si esita ad immolare le persone.
In una società multiculturale, è lecito che lo Stato ponga ordine in questa materia e disponga criteri e modalità perché ogni approccio etico-religioso o agnostico-ateo abbia la possibilità di scegliere senza ulteriori traumi perché la morte è una cosa seria ed è il punto più alto della vita che deve essere circondata di affetto e preservata da speculazioni di qualsiasi genere. Vivere è un diritto e a volte morire è anche un dovere. Quando verrà il mio momento, vorrei essere consapevole di varcare la soglia della vita e abbracciare «sorella nostra morte corporale» decidendone il come nel contesto di una vita vissuta nell’attesa dell’incontro con un Dio a cui ho regalato la mia libertà e la mia stessa vita. Vorrei essere in grado di offrirgli anche la mia morte. Nella pace.
Se la vita è` un dono
don Aldo Antonelli
C’è un passo del Prometeo, il mito del titano incatenato da Zeus alla rupe, in cui Eschilo scrive: «Io liberai gli uomini dal freddo, insegnai a costruire case; da una cosa sola non li potei liberare: dalla Morte». Il poeta tragico greco, figlio legittimo del suo tempo, non poteva immaginare che dopo nemmeno mezzo secolo, in un paese non molto lontano dalla sua Atene un certo Gesù di Nazareth avrebbe inaugurato nel cuore degli uomini quella rivoluzione per la quale la morte perde il suo potere al punto da spingere san Paolo a lanciare la famosa sfida contro la morte: «Dov’è, o morte la tua vittoria? Dov’è, o morte il tuo pungiglione?», fino a preconizzarne la definitiva sconfitta: «L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte!» (1 Corinzi 15,26). Fa molto pensare allora una Chiesa, nata come comunità liberata e liberante da ogni tipo di schiavitù, anche dalla schiavitù della morte, che si va ad impantanare nelle acque fluide della paura, del feticismo e del materialismo vitalistico che caratterizzano la sua dura posizione di condanna nei confronti degli strumenti che la scienza offre a che la morte perda, finalmente, la sua disumanità e la malattia la sua devastante atrocità.
Sia chiaro: non si vuole con ciò legittimare la trasformazione della tecnica in strumento di morte né benedire l’ambiguità profonda di una scienza che diventa un delirio di onnipotenza. No!
La complessità del problema non deve spingere nessuno ad una apertura qualunquista e superficiale, ma non deve nemmeno imprigionare le possibili scelte nella condanna più assoluta.
Giustamente, il teologo Giannino Piana scrive, a proposito di eutanasia: «Al di là delle complesse e delicate questioni di ordine politico e giuridico, che vanno affrontate con grande prudenza in una prospettiva non puramente individualista ma attenta ai risvolti sociali e culturali delle decisioni, il nodo fondamentale che occorre sciogliere riguarda l’esistenza o meno del diritto di autodeterminazione nei confronti della morte» (Rocca, n. 21, p. 37).
Di fronte al radicale rifiuto del diritto di autodeterminazione da parte della Chiesa ufficiale, a partire dal presupposto che la vita è un dono di cui noi non possiamo disporre, vanno emergendo, anche in ambito cattolico, ipotesi alternative (sia pure minoritarie).
Intanto già di fronte alla motivazione addotta contro ogni forma di eutanasia sorgono domande che qualcuno potrebbe vedere «impertinenti» ma che toccano il cuore della teologia.
Si dice, appunto: «La vita è un dono di Dio di cui l’uomo non può pienamente disporre».
Ma che dono è ciò che non viene pienamente e definitivamente dato?
E che responsabilità è quella per cui si è costretti a gestire la vita per conto terzi?
E questo Dio che concede con una mano e trattiene con l’altra cosa ha a che fare con quel Dio che «dona oltre ogni misura»? Sono forse due dei diversi?
Si ha l’impressione, insomma, che la posizione della Chiesa ufficiale sia fondata più su preoccupazioni ideologiche che su motivazioni teologiche.
Nel panorama della produzione teologica cattolica, poi, non mancano posizioni dall’atteggiamento «possibilista» nei confronti dell’eutanasia. Tali ipotesi, dopo tutto, si fondano su un principio comunque incontestato, anche se completamente rimosso nell’attuale dibattito. Si parte dal principio che per un cristiano la vita non è «il bene assoluto» cui tutto subordinare! Tanto è vero che il sacrificarla per altri alti valori (la giustizia, la fede, la castità eccetera) è ritenuto, dalla tradizione cristiana, un atto di eroismo e di santità. «Rebus sic stantibus», direbbero i filosofi, perché ritenere immorale il cessare di vivere quando la vita ha perso ogni connotato di relazionalità con gli altri, ogni traccia di autocoscienza, ogni altra dimensione che, andando oltre la pura vegetalità, dia dignità al vivere stesso? Personalmente ho avuto modo, in più di un’occasione, di trovare più dignitoso il gesto disperato di un suicida che non il pecoreccio vivacchiare di gente senza scrupoli.
Il teologo tedesco Hans Küng, poi, si spinge anche oltre.
Dall’affermazione che «il diritto alla vita non può essere scambiato per una coercizione a vivere» alla tesi che «essendo l’inizio della vita umana posto da Dio nelle mani della responsabilità dell’uomo, si può analogamente pensare che anche la fine della vita venga da Dio posta sotto tale responsabilità».
Il problema dell’eutanasia va correlato sì alla morte, ma questa a sua volta va connessa strettamente alla nozione di «vita» che è qualcosa di molto più alto che il semplice vegetare. L’arroccamento della Chiesa in difesa della vita a prescindere da tutto, dalle condizioni oggettive e soggettive e perfino dalle persone stesse che della vita dovrebbero essere le beneficiarie, lo trovo anche antievangelico come colui che sacrifica le persone concrete ai principî astratti e che antepone il sabato all’uomo.
Una morale autenticamente evangelica dovrebbe stabilire delle finalità di vita piuttosto che esporre regole di condotta.
A tal proposito Gabriel Ringlet, prete belga e vicedirettore dell’Università di Lovanio scrive: «I nostri contemporanei vogliono senso, ma rifiutano il pensiero normativo. E la Chiesa fa fatica a produrre senso senza produrre norme. Ecco la straordinaria conversione che le è chiesta».
Mi si permetta, infine, un’ultima osservazione sul problema dell’accanimento terapeutico.
Il catechismo della Chiesa cattolica all’articolo 2278 recita: «L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente se ne ha competenza e capacità». Riguardo poi all’uso degli analgesici nell’articolo 2279 si legge: «L’uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile».
Posto così il problema sembra risolto.
L’interrogativo si pone quando, considerati i grandi progressi della medicina, si tratta di distinguere il dovere di cura dall’accanimento terapeutico.
Dove finisce l’uno e comincia l’altro?
Qui, naturalmente, si richiede un altissimo senso di responsabilità ed una grande maturazione di coscienza.
Il dramma cui oggi siamo costretti ad assistere è costituito dallo scollamento che si è prodotto tra la scienza e la coscienza, tra l’avanzamento delle possibilità tecniche e l’arretramento del sentire morale al punto tale di ritrovarci tra le mani strumenti che la coscienza non sa gestire.
Le tragiche conseguenze di questo handicap morale e culturale sono sotto gli occhi di tutti.
Abbiamo messo su (e la difendiamo a denti stretti) un’economia che miete milioni di vittime ogni giorno e in gran parte del mondo.
Ci facciamo sostenitori di una politica che crea emarginazioni di ogni tipo.
Nel contempo, però, ci precipitiamo sul capezzale del povero crocifisso di turno per farne motivo di crociate ideologiche di parte, strumentalizzando senza pudore il suo calvario.
Insomma ci ritroviamo pienamente immersi in una società nella quale si inneggia alla vita mentre si programma scientificamente la morte.
Qualche anno fa Giorgio Agamben, su uno dei più diffusi quotidiani italiani, ebbe a scrivere che il paradigma politico dell’Occidente non è più la città ma il campo di concentramento.
Non Atene, nemmeno quella di Eschilo, ma Auschwitz…
E non vorrei che in questa moderna Auschwitz si impiantino nuove strumentazioni che torturino le esistenze in onore della vita e del dono delle vita ne facciano, ironia della sorte, una condanna a vita.
Mourir n’est rien; ne pas vivre est terrifiant!
La vigilia di Natale, dopo aver saputo che il Vicariato di Roma aveva negato a Welby i funerali religiosi chiesti dalla madre, 86 anni, e dalla moglie, entrambe cattoliche, don Aldo Antonelli ha inviato ad alcuni amici questi auguri.
Auguri amari,
questo Natale 2006.
Più amari di otto anni fa,
quando morì mia sorella.
Non li capisco.
Difendono la vita e ammazzano i morti.
Rispettano i principi e maltrattano le persone.
Sì:
il sabato vale più dell’uomo,
la legge più del Vangelo,
il diritto più dell’etica.
Auguri amari
ad una chiesa arcigna,
desertificata dal potere,
accecata dal volere,
volontà di potenza
che taglia alle radici
il vitale innesto
di una stalla diventata chiesa.
Auguri amari
anche ai pasdaran dell’ortodossia,
ai puritani del narcisismo,
ai filistei dell’ipocrisia.
Lettera aperta a Piergiorgio Welby
Comunità cristiane di base
Frascati 10 dicembre 2006
Caro Piergiorgio,
riuniti per affrontare il tema della laicità – argomento del 30° incontro nazionale delle Comunità cristiane di base – abbiamo riflettuto anche sull’appello che tu hai lanciato all’opinione pubblica.
Vogliamo comunicarti, prima di tutto, il nostro affetto, la nostra solidarietà e la nostra stima per te.
Non spetta a noi darti quella risposta pubblica e ufficiale che deve, invece, arrivarti dalle istituzioni.
La questione che tu poni, lo sappiamo bene, non è solo privata e personale, ma coinvolge l’intero paese che non può più ignorare un tale, così drammatico problema, che – direttamente o indirettamente – tutte e tutti ci riguarda.
Per parte nostra vogliamo pubblicamente esprimerti la nostra solidarietà: noi riteniamo che sia giusto e umano che tu possa concludere in pace, con l’attenzione affettuosa della comunità civile, la tua esperienza di vita, senza che nei tuoi confronti si eserciti un accanimento non rispettoso della tua dignità.
Noi riteniamo, inoltre – rispettando quanti pensano diversamente – che in nome di nessuna religione o ideologia si possa in alcun modo costringere, in una condizione così drammatica, la tua libertà di scelta che noi – quale che sia – rispettiamo profondamente.
Un abbraccio dalle sorelle e dai fratelli
delle Comunità cristiane di base d’Italia
da MICROMEGA n.1 2007