Cattivi si diventa
Esce "L'effetto Lucifero"
di Philip Zimbardo
Siamo tutti
figli di Eichmann?
L’autore del libro è titolare di un celebre esperimento realizzato a Stanford
nel 1971
Alcuni studenti accettarono di fare la parte delle guardie e altri quella dei
detenuti
Siamo soliti pensare che il bene e il male siano due entità contrapposte e tra
loro ben separate, così come i buoni e i cattivi che riteniamo tali per una loro
interna disposizione. Per effetto di questa comoda schematizzazione che ci rende
innocenti a buon prezzo, noi, che ci pensiamo «buoni», escludiamo di poterci
trasformare nel giro di poco tempo in carnefici crudeli, attori in prima persona
di quelle atrocità che ci fanno inorridire quando le leggiamo nei resoconti di
cronaca o le vediamo in tv.
Per rendercene conto, e lo dobbiamo fare per conoscere davvero noi stessi, è
sufficiente che leggiamo il libro di Philip Zimbardo, L´effetto Lucifero
(Raffaello Cortina, pagg. 650, euro 35). Lucifero, prima di diventare Satana, il
principe del male, era il portatore di luce, l´angelo prediletto da Dio.
Ciascuno di noi può trasformarsi da Lucifero in Satana, non per predisposizione
interna come crede la psicologia quando distingue il normale dal patologico, al
pari della religione quando distingue il buono dal cattivo, ma per altri due
fattori che sono il «sistema di appartenenza» e la «situazione» in cui ci si
viene a trovare.
Non erano dei criminali per natura Heinrich Himmler e Adolf Eichmann quando
portarono a compimento con abnegazione lo sterminio degli ebrei, ma dei
«burocrati» con uno spiccato senso del dovere al loro sistema di appartenenza
che era l´ideologia nazista. Lo stesso si può dire di Franz Stangl, direttore
del campo di concentramento di Treblinka che aveva il compito di eliminare
tremila deportati al giorno perché l´indomani ne giungevano altri tremila. «Il
metodo l´aveva ideato Wirt. E siccome funzionava, mio compito era di eseguirlo
alla perfezione», rispose a Gitta Sereny che in una serie di interviste (oggi
pubblicate da Adelphi col titolo In quelle tenebre) gli chiedeva che cosa
provava.
La stessa risposta la diede il pilota americano che sganciò la bomba atomica su
Hiroshima a Günther Anders che gli poneva analoga domanda: «Che cosa provavo?
Nothing. That was my job (Niente, quello era il mio lavoro)». Quando la
responsabilità si restringe e, da responsabilità nei confronti degli effetti
delle nostre azioni, si riduce a responsabilità nei soli confronti degli ordini
ricevuti, queste risposte sono corrette, così come ci sentiamo tutti noi quando,
negli apparati di appartenenza ci limitiamo a eseguire perfettamente il nostro
mansionario, i programmi ministeriali nelle scuole a prescindere dalle
condizioni culturali in cui si trovano i ragazzi che le frequentano, gli
interessi dell´azienda a prescindere dalle condizioni in cui si effettua il
lavoro (compresi i morti sul lavoro) e dai prodotti finali del lavoro (più o
meno corrispondenti a quello che la pubblicità vorrebbe farci credere).
Quando la responsabilità non si estende agli effetti delle nostre azioni, ma si
restringe alla semplice osservanza degli ordini che ci provengono dagli apparati
di appartenenza, allora, come recita il titolo di un libro di Günther Anders,
siamo tutti «figli di Eichmann» e come tali subiamo quello che Philip Zimbardo
chiama: «L´effetto Lucifero», dove persone perbene, per effetto del «sistema di
appartenenza» o per le «situazioni» in cui ci veniamo a trovare, diventiamo,
indipendentemente dalla nostra indole, degli oggettivi criminali, capaci di
compiere quelle azioni che, fuori dal sistema di appartenenza o dalla situazione
concreta, ci farebbero inorridire.
Philip Zimbardo è uno psicologo sociale dell´Università di Stanford che nel 1971
tentò un curioso esperimento di «prigionia simulata». Con un annuncio sul
giornale scelse, tra le centinaia che si erano presentate, ventiquattro persone
che, per quindici dollari al giorno, accettassero di fare le guardie e i
detenuti in una prigione simulata nell´edificio dell´Università.
I prescelti erano i più stabili psicologicamente, senza trascorsi di alcol e
droga, senza pendenze penali, senza problemi medici o mentali. Insomma ragazzi
normali, bravi ragazzi si direbbe se l´aggettivo non fosse denso di pregiudizi.
A quelli incaricati di fare la guardia furono assegnati i compiti in uso per gli
arresti veri, con la sola avvertenza che dovevano evitare abusi e violenze
fisiche.
Dopo una settimana l´esperimento fu interrotto perché le guardie, che avevano
preso molto sul serio il loro ruolo, in un´istituzione altrettanto seria come
poteva essere l´università, per una prova seria quanto lo può essere un
esperimento scientifico, non per la loro «indole», ma per effetto del loro
«ruolo» e della «situazione» in cui si trovavano a operare, si abbandonarono
alle più feroci aggressioni fisiche e psichiche non dissimili, scrive Zimbardo,
dai modelli nazisti.
La constatazione ha consentito allo sperimentatore di concludere che la pratica
del male o, come lui la chiama: «l´effetto Lucifero», non è una prerogativa di
un´indole piuttosto che di un´altra (come ritiene la psicologia, che a sua
insaputa ha ereditato lo schema religioso che distingue i buoni dai cattivi), ma
è la prerogativa di tutti che, a partire da una «struttura di appartenenza» (una
fede, un´ideologia, un apparato aziendale) e da una «situazione concreta» in cui
ci si trova a operare (in un gioco vero o simulato di tutori dell´ordine e
criminali, o in una guerra che vede contrapposti in nostri ai nemici) chiunque,
anche il più buono fra noi è portato a compiere i crimini più orrendi.
La conclusione è che il bene e il male non sono prerogative di alcuni e non di
altri, ma, compresenti in ciascuno di noi si scatenano indifferentemente in
tutti a partire dal «sistema di appartenenza» e dalla «situazione» in cui ci si
viene a trovare.
Inorridito da quanto aveva constatato Philip Zimbardo non riuscì a scrivere il
resoconto di quanto aveva visto negli anni immediatamente successivi
all´esperimento, ma solo quando, nel 2004, fu chiamato in qualità di perito a
dare una spiegazione del perché bravi ragazzi, ritenuti tali dopo accurate
verifiche, inviati come militari in Iraq, avessero potuto compiere nel carcere
di Abu Ghraib abusi così orrendi quali risultarono dalle registrazioni che
Zimbardo ebbe modo di visionare dove si vedevano scene ben più aberranti di
quelle che le televisioni di tutto il mondo hanno poi diffuso.
In gioco, scrive Zimbardo, non è tanto l´«indole» di questi militari, quanto
l´appartenenza al «sistema esercito» inviato per una «giusta causa» (contro il
terrorismo), in una «situazione» che nella fattispecie è di guerra. Ma perché un
uomo possa uccidere un altro uomo è necessario che lo «de-umanizzi», che lo
riduca a «cosa», in modo che non appaia più come un suo simile, perché solo così
può trovare la forza di togliergli la vita.
A ciò concorre il patriottismo, che spesso è solo una forma appena velata di
autovenerazione collettiva, perché esalta la nostra bontà, i nostri ideali, la
nostra clemenza e la perfidia di chi ci odia. Creando un quadro in bianco e
nero, la guerra sospende il pensiero, soprattutto il pensiero autocritico, e,
così mitizzata, diventa una divinità che, come ci hanno insegnato gli antichi
greci, per essere adorata esige sacrifici umani. Ma oltre all´autovenerazione
per noi stessi, la guerra ci impone di svilire il nemico, per cui veneriamo e
piangiamo i nostri morti e restiamo stranamente indifferenti a quelli che
ammazziamo noi. I nostri morti e i loro morti non sono uguali. I nostri morti
contano, i loro no.
Di fatto la guerra scatena la nostra latente necrofilia, non solo perché
ammazza, ma perché richiede a ciascun combattente una certa familiarità con la
propria morte. La necrofilia è fondamentale per il mestiere delle armi, così
come lo è per la formazione dei kamikaze. Essa getta in quello stato di frenesia
in cui tutte le vite umane, compresa la nostra, sembrano secondarie e
soprattutto insignificanti.
Oltre alla necrofilia, la guerra scatena la lussuria più sfrenata, carica di
un´energia sessuale cruda e intensa che ha il sapore della voluttà
autodistruttiva della guerra stessa. Perché in guerra gli esseri umani diventano
cose, cose da distruggere o da usare per gratificazioni carnali. Quando la vita
non vale niente, quando non si è sicuri di sopravvivere, quando a governare gli
uomini è la paura, si ha la sensazione che a disposizione rimane solo la morte o
il fugace piacere carnale.
Dopo la guerra c´è l´immane fatica per guarire le ferite che non sono solo
quelle fisiche. E c´è chi non ce la fa, e sono i più, perché tutto ciò che era
familiare diventa assurdamente estraneo, e il mondo, a cui si sognava di
tornare, appare alieno, insignificante al di là di ogni possibile comprensione.
L´accumulo di distruttività, vista e seminata, diventa autodistruttività che non
conosce limite.
A questo punto vale ancora la contrapposizione tra il bene e il male? E davvero
noi possiamo dividerci in buoni e cattivi? O, come sostiene Zimbardo, la nostra
ferocia non è tanto da attribuire alla nostra indole, quanto piuttosto al
sistema di appartenenza e alla situazione concreta in cui ci si trova a operare?
Se così è, vero eroe non è chi compie le azioni più rischiose o più feroci che i
posteri magnificheranno, ma chi sa resistere al sistema di appartenenza o alla
situazione concreta che gli chiedono quelle azioni. L´avvertimento di Zimbardo è
ovviamente rivolto a tutti noi che, in un modo o nell´altro, sempre ci troviamo
in un qualche sistema di appartenenza o in qualche situazione che ci chiede di
scegliere se stare o non stare al gioco.
Umberto Galimberti Repubblica 12.3.08