Caso Welby, ovvero il ritorno di
Torquemada
Alla fine dovremo prendere
atto di che cosa c'è alla base della rivendicazione delle «radici cristiane
dell'Europa». Non Gesù di Nazareth, lo scandalo del patibolo (la croce) a cui è
stato appeso l'uomo-dio, la secessione dallo Stato dei primi cristiani nascosti
nelle catacombe; bensì la chiesa trionfante, le crociate (vere e proprie guerre
di conquista), i roghi delle streghe, i processi dell'inquisizione, il ritorno
di Torquemada. La vicenda terrena di Piegiorgio Welby, che segue dappresso la
tragica battaglia intorno alla procreazione assistita, dovrebbe aprirci gli
occhi.
Parlano dell'esistenza dell'anima, della sua immortalità,
della sua aspirazione alla salvezza; ma il loro punto di approdo è una brutale
identificazione della vita, di tutta la vita umana, di quella che i vari
«movimenti per la vita» sostengono di difendere, con la mera dimensione fisica
del corpo, anche giunto allo stremo delle proprie capacità vitali; o addirittura
con gli embrioni: quelli che tutti i giorni, e senza funerale, vengono
naturalmente espulsi a milioni dalle donne che non riescono a portare avanti la
loro gravidanza. Sono in gran parte gli stessi che hanno poco da obiettare alla
pena di morte e a chi la pratica; alle guerre scatenate per riempire i serbatoi
delle nostre auto; all'affondamento di esseri umani alla disperata ricerca della
propria sopravvivenza: alle spedizioni per mandare a fuoco le tende di famiglie
(donne, vecchi, bambini) che nessuno vuole più sotto casa.
Ieri con la difesa a oltranza della sacralità
dell'embrione, oggi infierendo con i propri dictat su un cybercorpo tenuto in
vita, contro la sua volontà, da una macchina, al solo scopo di infliggere un di
più di sofferenza a chi già ne aveva patita troppa e chiedeva di smettere,
quello che nei fatti si vuole non solo affermare, ma imporre, è il principio, e
il fatto compiuto, che il nostro corpo non ci appartiene; che noi, che siamo il
nostro corpo, non ci apparteniamo; perché apparteniamo a Dio e, per suo conto, o
in sua vece, o in sua assenza, allo Stato. Così migliaia di donne, costrette a
votare, come si dice, con i piedi, vanno a farsi inseminare all'estero; per
esempio in quello stato ormai più democratico e laico dell'Italia che è la
Turchia.
Bei tempi quando si accusavano i «comunisti» di rendere lo Stato padrone di
tutto, cioè di voler consegnare allo Stato non solo i beni, ma addirittura «le
donne» e i figli. Adesso sono i teocon, ma anche i teodem, ma anche i laici
bigotti e pure i democratici pavidi o opportunisti, a sostenere che il padrone
dei nostri corpi è lo Stato. Quello che può e deve disporre di come va usato il
corpo delle donne; cioè di come e quando ogni donna può o non può disporre di se
stessa; e di come va amministrata la sofferenza di un corpo devastato dalla
malattia. Cioè, con una divisione netta dei compiti: la sofferenza, che è sempre
individuale e che nessun altro potrà mai condividere, per quanto alta sia la sua
compassione, è di chi la patisce. Ma quel corpo, ormai trasformato in una
prigione, quel corpo è dello Stato - e per suo tramite; e solo per suo tramite,
di Dio - e non c'è sofferenza che possa restituire al sofferente la titolarità
del suo corpo.
A un laico come me, ma forse a qualsiasi persona di buon
senso, il martirio di Welby ricorda da presso quello di Gesù di Nazareth:
entrambi lo hanno esibito con l'intento di liberare il mondo dalla sofferenza, o
da una parte della sofferenza che vi alligna. Mentre il cinismo, la crudeltà e
la pervicacia di coloro che si sono accaniti sul corpo di Welby, pretendendo ed
esigendo che la sua sofferenza non avesse fine - o non dovesse finire per sua
scelta - ricordano fin troppo i carnefici di Cristo; e soprattutto tutti coloro
che nel suo nome si sono accaniti nei secoli sui cosiddetti nemici della fede o
sulle vittime, spesso ignare e casuali, della propria intolleranza. Contro i
catari, una setta eretica medioevale che praticava l'eutanasia con i mezzi
disponibili allora - soffocamento o strangolamento ad opera di un congiunto - la
chiesa aveva mosso guerra; e per impedire le loro pratiche, li aveva sterminati
tutti.
Non credo che possa essere una legge a risolvere il
problema posto dal martirio di Welby. Non è un vuoto legislativo quello a cui ci
troviamo di fronte; e nemmeno una insufficiente distinzione semantica tra
accanimento ed eutanasia (non a caso la moglie di Welby, cattolica praticante,
parla serenamente di eutanasia); bensì un vuoto di pensiero libertario e
democratico: assai più difficile, come è ovvio, da colmare.
Una legge è sempre e comunque l'espressione - anche minima,
anche in negativo - di un ethos condiviso. Ma qui di condiviso e condivisibile
non c'è più niente. Non è un caso che i cosiddetti problemi etici dilacerino
quasi soltanto quel che resta della sinistra o del centro-sinistra (e non la
destra italiana; che è già, e da tempo, il nostro «partito di Dio»; nonostante,
o proprio grazie, alla volgarità delle sue televisioni, alle truffe delle sue
leggi ad personam, alla sua ostentazione del lusso, al razzismo delle sue
spedizioni contro i Rom). Mentre le Comunità Cristiane di Base non hanno avuto
difficoltà a scrivere a Welby: «Noi riteniamo, rispettando quanti pensano
diversamente, che in nome di nessuna religione o ideologia si possa in alcun
modo costringere, in una condizione così drammatica, la tua libertà di scelta
che noi - quale che sia - rispettiamo profondamente».
Non si tratta, come si continua a far credere, di problemi
marginali rispetto ai compiti importanti e alla strada maestra che il governo ha
da percorrere. Dietro quei problemi etici c'è una resa dei conti su ciò che
interessa più di ogni altra cosa ciascuno di noi; su che cosa debba intendersi
per vita. La vita è umana per il senso che ciascuno di noi riesce a darle:
innanzitutto alla propria; poi a quella di tutti gli altri; a partire da quella
di chi ti è vicino (il tuo «prossimo»), e dei più deboli; e dei più sofferenti.
L'unico vero movimento per la vita è quello di coloro che difendono il diritto
di disporre di sé e del proprio corpo e si oppongono a chi ce ne vuol privare:
ai nuovi Torquemada.
Guido Viale il manifesto 28/12/2006