Quando la carità è casta
C'è
stato un tempo (neanche tanto lontano) in cui la vita e la virtù cristiana
pareva si giocassero prevalentemente (se non quasi esclusivamente) sulla
castità: il famoso de sexto: il sesto comandamento che prevaleva su
tutti. Non la carità teneva il primo posto, non le virtù teologali infuse nel
battesimo, bensì la castità, anzi un certo concetto di castità indotto da
determinati condizionamenti culturali.
Oggi, per fortuna, non è più così. Al che si potrebbe obiettare che la parola di
Dio (fonte della moralità) non cambia. Ma, se non cambia la Parola, cambiano le
parole nelle quali il Verbo eterno s'incarna e si cala nella storia. Cambia
l'ascolto di quell'immutabile parola: ascolto che cresce col crescere della fede
e il lievitare della storia. E perciò cambia la morale, intesa come capacità
d'intendere la Parola immutabile, di cui muta la nostra percezione. Oggi
potremmo dire che non esiste una gerarchia di virtù, bensì (lo suggerisce Paolo)
una virtù sola - la carità - che si diversifica a seconda dell'ambito in cui
viene a cadere la sua manifestazione. Per cui avremmo una carità paziente, una
carità prudente, forte e così via. E una carità casta.
Nell'orizzonte di questa unificazione scompaiono le enfasi e i privilegi di cui
avevamo circondato la nostra virtù-principe che principe più non è. E s'impone
la ricerca della sua origine: una con l'origine della sessualità di cui è la
norma regolatrice. E la troviamo nelle prime pagine della Genesi dove, a
proposito degli umani, si dice che Dio "maschio e femmina li creò, a propria
immagine li creò". L'immagine di Dio è quindi la creatura sessuata, da cui la
grande dignità del sesso, che il suo costante involgarimento non riesce a
cancellare.
Ma gli attentati al valore della sessualità possono essere anche pii e
religiosi. Ogni qualvolta impostiamo la morale su regole, norme e divieti
attinenti alla sessualità ne mettiamo in forse la dignità e il valore, ed
escludiamo espressioni che - di diritto o di fatto - fanno parte della nostra
società. Pensiamo agli omosessuali, transessuali, lesbiche, coppie di fatto,
divorziati, risposati... Non ha niente da dire la nostra fede e la nostra
morale, o ha soltanto da esprimere divieti e minacciare castighi?
È urgente porsi il problema perché, a tutt'oggi, non abbiamo una moralità
adeguata alle domande che il mondo ci presenta. Ad esempio: se l'esercizio della
sessualità è un diritto, come se ne può inibire la manifestazione propria,
tipica e adeguata al mondo degli omosessuali, transessuali e via dicendo? E
quelle che chiamano devianze non sono forse diverse e legittime forme di
sessualità?
Come si vede poniamo domande più che proporre (e, tanto meno, imporre) risposte.
Forse, a proposito della sessualità, questo è il momento dei sospetti, delle
perplessità, degli interrogativi, non delle certezze. E se una certezza c'è,
essa consiste nella chiara coscienza del valore del sesso e della necessità del
suo retto esercizio, perfino per coloro (presbiteri e religiosi) che al sesso
sembrano rinunciare, ma non rinunciando al loro essere sessuati e a una
sessualità più vasta dell'ambito puramente genitale.
L'etica che ci attende e di cui non sappiamo ancora prevedere le norme, è
comunque un'etica non di chiusure e divieti, come quella che abbiamo alle
spalle, ma di valorizzazione, di espressione e di esercizio che, insieme alla
sessualità, promuova la dignità della persona che, alla sessualità, è
strettamente connessa.
Adriana Zarri
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