Cari Rutelli e Weltroni, comprate le banane
La mattina di lunedì 27 agosto 2007, quaranta gradi Celsius, al mercatino settimanale di Ventotene la frutta di stagione, prodotta - stavo per dire coltivata - nelle campagne dell’agro pontino costava 1,50 euro al chilo. Le banane 1,30. Le pesche erano tutte molto grandi e dello stesso calibro, sembravano le bocce di legno di una volta, ma buone. Altrettanto buone, e di dimensioni grandi e regolari, erano l’uva e le pere. Non coltivate biologicamente, né c’era alcuna intenzione di spacciarle per tali.
Come poteva costare di meno, un frutto che arriva da un altro continente dopo aver percorso decine di migliaia di chilometri in camion, aereo, camion e nave? Se avessi dovuto spiegare a un bambino di sei anni la globalizzazione non avrei potuto trovare nulla di meglio.
In un sistema economico fondato sulla crescita del prodotto interno lordo, per essere competitivi e riuscire a stare sul mercato occorre produrre sempre di più a costi sempre più bassi. Per ridurre i costi ci sono due strade: sostituire in misura sempre maggiore il lavoro umano con tecnologie sempre più «performanti» e ridurre progressivamente i costi del lavoro umano che non si può sostituire con la tecnologia. Poiché le tecnologie più efficienti sono in mano ai paesi più ricchi e il costo del lavoro più basso è nei paesi più poveri, nel contesto della globalizzazione il mix necessario per essere competitivi sui mercati è trasferire nei paesi più poveri le tecnologie più «performanti» dei paesi più ricchi e trasportare nei paesi più ricchi le merci prodotte nei paesi più poveri, perché in conseguenza del basso costo dei combustibili fossili i costi di trasporto vengono abbondantemente assorbiti dai minori costi di produzione.
Signora, non compri quelle banane per i suoi bambini. Per costare meno della frutta prodotta a un tiro di schioppo, con un uso massiccio di protesi chimiche e manodopera precaria composta per lo più da immigrati, sono state necessariamente prodotte utilizzando in modo incontrollato quantità maggiori delle protesi chimiche più nocive, che le legislazioni meno lassiste dei paesi ricchi non consentono più di adoperare, e pagando ancor meno una manodopera sfruttata fino all’esaurimento delle forze per una miseria retributiva. Signora, non le compri. Fanno male a chi le mangia, a chi le produce e alla Terra. E poi non li vede in spiaggia, quanti bambini e adolescenti con la ciccia molle, gonfiata di ormoni come i vitelli, che straborda dai loro buffi costumi?
La mattina di lunedì 27 agosto 2007, quaranta gradi Celsius, il quotidiano la Repubblica dava ampio spazio a due tra i più autorevoli rappresentanti delle forze politiche che hanno deciso di confluire nel Partito Democratico, pubblicando una lettera al direttore del ministro nonché vicepresidente del consiglio, Francesco Rutelli, e il resoconto di un intervento del prossimo segretario del nuovo partito [democratico], Walter Veltroni, a un seminario di studi organizzato a Parigi dall’associazione Les Gracques, che riunisce gli alti funzionari statali francesi aderenti al Partito socialista.
Nella sua lettera, intitolata «E ora le riforme per sconfiggere la destra», il ministro Rutelli scrive: «Una parte rilevante del nostro mondo [l’area di sinistra del centro-sinistra, ndr.] si sente ancora legata a impostazioni del passato. [...] E, sia chiaro, non sono fatti del passato le criticità sociali di oggi: la scarsissima mobilità sociale, il sentimento di incertezza, insicurezza e precarietà che tocca fasce rilevanti di popolazione, la caduta del potere d’acquisto di famiglie monoreddito, di ceti medi che perdono posizioni. Ma sono le ricette spesso avanzate da forze di sinistra che io definisco conservatrici a non funzionare. E il paradosso è che più una parte della sinistra si radicalizza, più crescono i consensi anche nei ceti popolari - ed operai - per le destre. Più i riferimenti alla precarietà sono ideologici ed estremistici e meno cresce l’impegno politico tra i giovani che hanno un lavoro discontinuo. Cosa vogliono i democratici? Incentivare la buona occupazione, dare tutele moderne e giuste al lavoro flessibile, non certo rendere più rigidi i rapporti di lavoro. Favorire la creazione di ricchezza nel paese, non sognare di ridistribuire un’immaginaria ricchezza generata dallo Stato. Modernizzare l’assicurazione pubblica, se vogliamo davvero difendere un modello sociale inclusivo, non certo estendere l’assistenzialismo».
Nelle sue considerazioni il ministro parte dalla descrizione sommaria dei più gravi problemi sociali che affliggono il paese, non tenta di analizzarne nemmeno superficialmente le cause, stronca le ricette presentate dai partiti della sinistra radicale senza dire le ragioni per cui le ritiene sbagliate, ma giudicandole tali per definizione, in quanto «conservatrici», formula una proposta che trasforma questi problemi in dati di fatto immodificabili [in nome del realismo politico?], limitandosi a indicare genericamente la volontà di attenuarne le conseguenze. Del resto, se non ritiene importante analizzarne le cause come potrebbe prendere in considerazione la possibilità di rimuoverle?
Evidentemente il ministro non va al mercato [ci mancherebbe, con tutto quello che ha da fare!] ma, se ci andasse, il prezzo delle banane lo farebbe sicuramente riflettere e forse anche insospettire sul fatto che possa avere qualche collegamento col «sentimento di incertezza, insicurezza e precarietà che tocca fasce rilevanti di popolazione» e con la «caduta del potere d’acquisto di famiglie monoreddito, di ceti medi che perdono posizioni».
Se sotto casa si trovano quotidianamente merci prodotte in un altro continente che costano meno delle merci prodotte sotto casa, o si produrrà e si lavorerà sempre meno sotto casa, e quindi aumenterà la precarietà e diminuirà il potere d’acquisto, o si farà in modo di produrre sottocasa a costi più bassi dei costi con cui si produce nell’altro continente, e quindi aumenterà la precarietà e diminuirà il potere d’acquisto, o la concorrenza farà trovare un punto d’equilibrio tra le due possibilità, e quindi aumenterà la precarietà e diminuirà il potere d’acquisto. In qualunque modo la si metta, continueranno a verificarsi le «criticità» così lucidamente sintetizzate.
Se nel presente, non interpretabile con le «impostazioni del passato», l’economia può continuare a crescere solo nel contesto di un mercato globalizzato, e se il fine dell’economia non può che continuare a essere la crescita, il «sentimento di incertezza, insicurezza e precarietà» toccherà fasce sempre più rilevanti di popolazione; la «caduta del potere d’acquisto di famiglie monoreddito» proseguirà, aumenteranno i «ceti medi che perdono posizioni»; continuerà a diminuire «l’impegno politico tra i giovani che hanno un lavoro discontinuo».
Ma la crescita, dice Rutelli, consente di ricavare i mezzi per «dare tutele moderne e giuste al lavoro flessibile», per cui la flessibilità/precarietà è contemporaneamente il problema da risolvere e la sua soluzione! Compito della politica economica è «favorire la creazione di ricchezza nel paese [crescita del prodotto interno lordo, ndr.], non sognare di ridistribuire un’immaginaria ricchezza generata dallo Stato». Chi abbia immaginato questa immaginaria ricchezza non è specificato, anche se si può immaginare che il riferimento sia ai conservatori di sinistra.
Aumentando la ricchezza del paese, conclude il ministro, si potrà «modernizzare l’assicurazione pubblica, se vogliamo davvero difendere un modello sociale inclusivo, non certo estendere l’assistenzialismo». Quale differenza ci sia tra moderna assicurazione pubblica e assistenzialismo non è specificato. Forse perché sono la stessa cosa detta con parole diverse, anche se indubbiamente la connotazione della modernità con le sue caratteristiche innovative conferisce alla proposta un appeal che surclassa le vecchie ricette delle forze conservatrici di sinistra. Quelle che pretendono di conservare un diritto obsoleto come la stabilità e la sicurezza del posto di lavoro.
La precarietà è anche il tema che lo stesso giorno, con perfetta sincronia, Walter Veltroni pone al centro del suo intervento al convegno degli alti funzionari statali francesi aderenti al Partito socialista. La considerazione iniziale è che si tratta di un fatto nuovo. Non un problema nuovo, di cui occorre analizzare le cause per tentare di risolverlo o rimuoverlo. Ma un fatto nuovo che richiede strumenti nuovi per utilizzarne gli aspetti positivi e attenuare quelli negativi.
Nonostante questa fiducia nel potere taumaturgico dell’innovazione, la premessa della sua proposta non si può certo dire innovativa, dal momento che ribadisce la necessità della crescita economica, un indicatore della ricchezza effettiva e del benessere certamente vecchio, ma soprattutto inadeguato. Una inadeguatezza su cui si comincia a riflettere anche in ambienti insospettabili come la Commissione europea [che, ad esempio, in novembre ha organizzato a Bruxelles in collaborazione col Parlamento europeo e all’Ocse una conferenza internazionale intitolata «Oltre il Pil»].
Dopo la ripetizione della giaculatoria che «è la povertà, non la ricchezza il nostro primo avversario», Veltroni aggiunge: «Se l’economia va male, non ci può essere giustizia sociale, senza crescita delle imprese ogni obiettivo di equità e di creazione di opportunità si allontana». Che la crescita economica dei paesi industrializzati sia, al contrario, l’opposto dell’equità - perché aumenta le diseguaglianze tra nord e sud del mondo, tra paesi industrializzati e paesi poveri - lo provano i fatti, ed è noto a tutte le persone non appiattite sul più becero egoismo materialista.
In che modo, tuttavia, la crescita possa tradursi in fattore di equità all’interno dei paesi industrializzati, l’allora futuro presidente del Partito democratico lo spiega subito dopo: «Davvero non vedo come la sinistra e gli stessi sindacati possano non avere come prima priorità l’affermazione dei diritti dei più deboli, di quei precari che non godono dei privilegi dei garantiti. Il nostro impegno deve concentrarsi su di loro, sulla creazione di un efficace sistema di ammortizzatori sociali, di contrappesi sul piano della continuità previdenziale, di solide indennità di disoccupazione».
In una Repubblica fondata sul lavoro, come recita il primo articolo della nostra Costituzione, un posto di lavoro non precario nella sua concezione diventa un privilegio. Non un diritto. E questa è senza dubbio una grande innovazione concettuale. Da cui inevitabilmente deriva una proposta politica innovativa. Non l’impegno a far uscire i precari dalla loro condizione, ma ad attenuarne le conseguenze creando «un efficace sistema di ammortizzatori sociali, di contrappesi sul piano della continuità previdenziale, di solide indennità di disoccupazione». Con quali soldi? Togliendo ai lavoratori non precari i loro privilegi per realizzare un’equità fondata sull’estensione della precarietà! (….)
Maurizio Bellante su Carta n.2/2008
Maurizio Bellante, scrittore e saggista, si occupa di politica energetica, economia ecologica e tecnologie ambientali ed è tra i promotori dell'associazione "Movimento per la decrescita felice".