Il capitalismo
illiberale
intervista a Mauro Magatti, a cura di Roberto Festa
Una libertà illimitata, assoluta, indifferente a norme e freni. Una libertà
spesso apparente, spezzata,
che limita gli uomini più che spingerli a realizzarsi, che li isola più che
aiutarli a creare solidarietà.
E' la libertà del capitalismo tecno-nichilista, il mondo segnato da
razionalità scientifica e volontà di
potenza - economica, politica, esistenziale - raccontato da Mauro Magatti
in Libertà immaginaria.
Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista (Feltrinelli, pagg. 432, euro 30).
"Ci siamo dentro da almeno trent'anni, ma ormai siamo alla fine del ciclo",
spiega Magatti, che
insegna sociologia alla Cattolica di Milano e che allo studio del capitalismo
tecno-nichilista ha
dedicato gli ultimi dieci anni della sua vita. Ne è uscito un libro vasto e
complesso, che spazia da
Max Weber a Friedrich Nietzsche, da Pierre Bourdieu a René Girard, che affronta
diverse parole
chiave delle nostre vite - libertà, e poi giustizia, identità, potere - che
cerca di seguire alcune
correnti profonde della modernità. "Ma solo alcune. La vita sociale è come il
mare, ma non si può
studiare il mare. Troppo grande. Troppo maestoso".
Mauro Magatti, come si afferma il capitalismo tecno-nichilista?
«Le due ali di questo capitalismo sono storicamente il neo-liberismo
thatcheriano, reaganiano, che
si afferma all'inizio degli anni Ottanta, combinato con l'eredità dei movimenti
giovanili e libertari
degli anni Sessanta, segnati da forti spinte antiautoritarie, dall'idea che
esiste uno spazio di
soggettività che deve essere il più possibile protetto e ampliato. Questi mondi
criticano l'equilibrio
istituzionale ed economico che si era imposto nel secondo dopoguerra. Affermano
l'idea che ognuno
è capace di dare un senso individuale alla propria vita, che ognuno può essere
libero per conto
proprio».
Perché il capitalismo, che a partire dal secondo dopoguerra
aveva offerto una certa stabilità di
figure sociali e valori, ha bisogno a un certo punto di mettere l'accento
sull'individuo?
«Perché è un capitalismo che evade dal quadro dei confini nazionali, che si dà
obiettivi di crescita
globali, sovranazionali: in termini di reperimento delle materie prima, di
organizzazione della
produzione, di ricerca di nuovi mercati. Il capitalismo tecno-nichilista
porta a una riduzione
dell'integrazione sociale, su base nazionale. Crede che i significati possono
essere allocati soltanto
sul piano soggettivo».
Il soggetto sociale che ne deriva è molto più isolato,
frammentato, scollegato dal contesto?
«Più che l'immagine della solitudine, userei quella dell'adolescenza. Le
società avanzate hanno
creato un soggetto sociale che assomiglia sempre più all'adolescente, che esce
da casa e vive
l'ebbrezza di essere lontano dallo sguardo oppressivo dei genitori. Come
l'adolescente, anche il
cittadino dell'Occidente democratico crede che libertà significhi fare quello
che si crede. Il
problema non è tornare alla fase precedente, quella dell'autorità paterna. Ma
riuscire a gestire la
libertà sapendo che ci sono dei limiti, senza i quali la libertà è distruttiva».
Tutti noi vogliamo essere più liberi. Ci riusciamo anche?
«Non mi pare. La nostra è diventata una libertà astratta, indifferente al
fatto che la libertà è sempre
storicamente fondata, che la libertà non è mai disgiunta dalle opportunità,
dall'etica della
responsabilità, dal rispetto delle libertà degli altri. Crediamo di essere più
liberi. Il titolo del mio
libro, Libertà immaginaria, si permette di avanzare molti dubbi».
Ci fa un esempio?
«Il lavoro precario. Anni fa, per il mio lavoro di sociologo, ho condotto
un'inchiesta tra i precari
italiani. Interi pezzi di questo mondo erano soggiogati dall'idea che il lavoro
flessibile non fosse poi
così male, che aumentasse la libertà individuale, la possibilità di cambiare e
di scegliere. Eppure,
non mi pare che la flessibilità abbia aumentato le opportunità. Il fatto è che
la libertà, spogliata dei
suoi caratteri individuali, storici, è diventata il discorso fondativo delle
nostre società. Chi controlla
questo immaginario, vince».
Lo controlla la destra?
«Beh, mi è sempre parso molto significativo che Silvio Berlusconi abbia scelto
il termine "libertà"
per contrassegnare il suo popolo. Gestire il discorso sulla libertà,
significa gestire l'egemonia».
Quali gruppi sociali hanno risentito di più di questo doppio
processo: esaltazione - e
svuotamento - del concetto di libertà?
" Sicuramente, i ceti medio-bassi. Le risorse soggettive, culturali, necessarie
a navigare nell'epoca del
capitalismo tecno-nichilistico sono enormemente superiori a quelle che vengono
messe
effettivamente a disposizione. Di qui gli esiti neo-magici che questa cultura ha
sui ceti medio-bassi.
L'idea è che la libertà possa realizzarsi attraverso eventi straordinari, al di
fuori di ogni controllo: la
vincita a un quiz, come nel film The Millionaire, oppure l'entrata in un mondo
dorato - come quello
di ville e party dei potenti - che ti fa fare un salto immediato, economico e
sociale».
Che tipo di libertà è quella che reclamano oggi in Iran?
«La mia analisi, ovviamente, riguarda il mondo occidentale. Da quello che posso
leggere e vedere
in televisione, mi pare che anche in Iran emerga un modello già sperimentato.
Via via che le società
crescono - sotto il profilo istituzionale, economico, dell'educazione - emerge
anche un'istanza
soggettivistica. Il singolo reclama uno spazio di libertà più ampia, le
istituzioni autoritativamente
costruite vanno a sbattere contro la presa di coscienza dell'individuo».
La crisi finanziaria degli ultimi mesi è il prodotto di questa
cultura della libertà?
«La finanza internazionale, in questi anni, è stata guidata soprattutto da un
concetto: fare tutto
quello che sta in piedi, tecnicamente, a prescindere da ogni considerazione di
sostenibilità. Anche
qui la volontà di potenza, evocata come vera energia che sostiene la crescita,
ha condotto a rischi
impressionanti, e alla sottovalutazione di regole e limiti».
La crisi chiude il ciclo del capitalismo tecno-nichilista?
«Sì, mi sembra che ci siano dei segni. L'elezione di Barack Obama è uno di
questi. Obama fa agli
americani un discorso di crescita ordinata, di sviluppo duraturo e
sostenibile. Immagina di
agganciare l'idea della produzione, dello sviluppo, a obiettivi dotati di senso.
La domanda è: siamo
capaci di riportare sotto controllo la nostra volontà di potenza, tecnica ed
esistenziale, orientandola
verso alcuni grandi obiettivi collettivi?».
Si è dato una risposta?
«Le democrazie hanno grandi risorse. Ma è un processo lungo, e complicato».
Esistono alternative?
«Beh, c'è chi sostiene che la crisi di questi mesi non
assomigli a quella del 1929, ma a quella del
1907, che sfociò nella Prima guerra mondiale. Lo sbocco del capitalismo
tecno-nichilista potrebbe
essere un grande conflitto internazionale. La volontà di potenza, il mito della
libertà assoluta, ha
creato opinioni pubbliche fameliche, incapaci di qualsiasi tipo di
autolimitazione. Di solito, quando
non riesci più a sostenere la crescita interna, te la pigli con qualcuno
all'esterno».
la Repubblica 6 luglio 2009