Beppino Englaro e
l'esilio di un parroco
La cittadinanza onoraria data da Firenze al padre di Eluana Englaro rischia un
effetto collaterale: la
cacciata di don Alessandro Santoro dalla sua parrocchia delle Piagge, il
quartiere tra i più
emarginati cui egli, con un gruppo di giovani, ha saputo restituire
consapevolezza, impegno
culturale e dignità.
Il fatto è che, coerente con la propria battaglia in difesa dei diritti civili,
don Santoro non soltanto ha
approvato la delibera del Comune, sgradita al suo vescovo Giuseppe Betori, ma ha
addirittura
invitato Beppino Englaro in parrocchia. Gli ha chiesto perdono per il
«baccanale» a base di
«preghiere, rosari e parole senza senso» con cui è stato aggredito da una parte
del mondo cattolico.
Ha detto di non riconoscersi in «questo coro indecoroso, in questo spettacolo
osceno». Ha concluso
che per il suo dramma di padre e per la tragedia di Eluana la gerarchia
ecclesiastica avrebbe
piuttosto dovuto trovare «parole d'amore».
La questione tocca insieme la coscienza e i diritti di ciascuno di noi, al di
sopra delle singole
posizioni economiche e sociali, appartenenze religiose eccetera. Che cattolici
integralisti, più o
meno ottusi, e atei devoti, più o meno opportunisti, diano addosso a un parroco
come Santoro
allineandosi alla parte più costantiniana e meno evangelica della
gerarchia, è scontato. Per nulla
scontato e parecchio allarmante è trovare, in quel coro, voci insospettabili.
Come quella di
Giannozzo Pucci, il nuovo proprietario della «Lef», la Libreria editrice
fiorentina cui, per il
prestigio di un catalogo includente il meglio dell'intelligenza progressista
cattolica, religiosa e laica,
Giorgio La Pira in testa, don Lorenzo Milani aveva affidato prima Esperienze
pastorali poi Lettera
a una professoressa e L'obbedienza non è più una virtù.
A Firenze c'era (e c'è) un quotidiano che per anni ha calunniato don Milani
vivo. A fermarlo c'eran
voluti il coraggio e il rischio di un suo redattore onesto, Mario Cartoni,
riuscito con un colpo di
mano a far uscire il testo intero della Lettera ai giudici durante il processo
al priore di Barbiana
imputato di vilipendio e apologia di reato per aver difeso l'obiezione di
coscienza. È a quello stesso
giornale che Pucci, «come editore di don Milani», manda una lettera (31 marzo,
p. 4 inserto
Firenze) per dispiacersi «che don Santoro abbia appreso poco della lezione del
priore». E per
sostenerlo stralcia alcune righe da una chiacchierata con me in cui don Lorenzo
spiega perché, pur
dissentendo molto dalla gerarchia, resti nella chiesa: per il bisogno che ha dei
sacramenti. Ma che
c'entra? La lezione del priore è tutta nella secca replica al vescovo di un
confratello rimproverato a
vanvera e che Milani riferisce condividendola: «Senta, io penso che è giusto
fare così. Lei è
vescovo. Se lei mi lascia parroco mi lascia fare con la mia testa. Se non le va
bene mi leva da
parroco e io obbedisco immediatamente. Ma se lei mi lascia lì, decido io e
comando io». («Chiesa
santità obbedienza» nel mio Don Milani! Chi era costui? p. 304).
Questa è la lezione che Santoro mostra di aver bene appreso e che fa propria pur
sapendo il prezzo
da pagare. È per averla impartita e vissuta di persona che quel
rompiscatole di Milani era stato
esiliato a Barbiana, piccola parrocchia della diocesi, già chiusa e riaperta per
lui. Suggerisco al
vescovo d'ora di ri-riaprirla e di confinarci quel nuovo rompiscatole di
Santoro. Avendo prima cura
di toglierci acqua luce posta telefono e tagliarvi la strada: riportarla cioè
(non per sadismo: per
rispetto e miglior comprensione della verità storica) a com'era quando ci
spedirono don Lorenzo:
chissà che così «restaurata» non ridiventi luogo di nuove glorie. Tutte da
riconoscere e celebrare
post mortem, ovviamente.
Giorgio Pecorini il manifesto 5 aprile 2009