IL MONDO SEMBRA AVER ACCETTATO LA DISEGUAGLIANZA E LA DIVISIONE DI CLASSE
LA BENEFICENZA DIVENTA UNO SHOW
PER DARE LUSTRO AL PROPRIO NOME
(Michele Serra – La Repubblica del 23.06.05)
Quando si credeva che l’Uguag1ianza fosse un diritto, e non una concessione, la beneficenza era malvista. Una rigidità ideologica dura da sostenere, perché di fronte all’urgenza del bisogno è più facile (e anche più utile) mettere mano al portafoglio piuttosto che promettere vaghe palingenesi sociali. Ma negli ultimi anni il problema non si pone più: la società ha largamente accettato di essere disegnale e classista, e anche per questo rivaluta la beneficenza in tutte le sue forme.
Ma non tutte le sue forme sono uguali. Esistono pubbliche collette per fare fronte le emergenze naturali (gli aiuti alle popolazioni colpite) o alle carenza governative (Telethon), e sono casi nei quali il gran numero dei sottoscrittori ha un effetto quasi politico, di sforzo collettivo, che si giustifica e si assolve da solo.
Esistono casi di mecenatismo culturale puro, nei quali la spesa è motivata soprattutto dalla passione del mecenate che in cambio non chiede troppo, e però anche casi di mecenatismo molto spurio, messi a bilancio come investimenti pubblicitari, marchi aziendali appiccicati con qualche arroganza sulle povere facciate di una cultura sempre più derelitta e trascurata dal potere politico.
Esistono, infine e si scende all’ultimo scalino, detestabili esibizioni di bontà pelosa, spettacolini e spettacoloni allestiti apposta per consentire a Tizio e Caio di mostrarsi virtuosi e munifici, veri e propri defilè di portafogli e carte di credito con il nome bene in vista, sono manifestazioni della nuova arroganza del censo, di una cafonaggine senza più freni e inibizioni.
Perché, in fin dei conti, la sola regola che può orientare il giudizio, in fatto di beneficenza, è la discrezione del benefattore, il suo rimaner nell’ombra senza chiedere in cambio l’applauso o il clamore. Magari anche in quel caso la donazione serve soprattutto a tacitare il disagio di essere benestante in un mondo pieno di dolore e indigenza, ma sono conti che rimangono privati, e a ben vedere ingiudicabili, è l’antico difficile bilancio di coscienza tra l’uomo fortunato e la sua fortuna (la donazione serve a placare l’eventuale invidia degli dèi).
Ma quei casi, invece, nei quali la beneficenza è la via più diretta per accendere una telecamera e impugnare un microfono, per dare lustro sociale al proprio nome e farlo nominare con gratitudine obbligatoria, beh quei casi sono facilmente ascrivibili al narcisismo infinito dei nuovi maggiorenti, e francamente destano una ovvia ripugnanza.
Il denaro è un argomento sempre delicato, se non è sterco del demonio è comunque potere e responsabilità, specie in un’epoca come la nostra nella quale ricchezza e bellezza spesso sono dissociate, rompendo l’antico patto tra i grandi patrimoni e le tracce che sapevano imprimere nel mondo. Anche per questo la beneficenza fatta per dare lustro al proprio marchio o nomignolo è penosa, è diventata il più evidente e facile dei surrogati per giustificare la propria incapacità di produrre altrimenti utilità sociale, innovazione, benessere, bellezza.
Non dev’essere certo un caso se progetti industriosamente benefici, di promozione sociale, culturale ed estetica come il sogno olivettiano (che risale a mezzo secolo fa ma pare remoto almeno quanto le utopie socialiste di fine Settecento e primi Ottocento), non hanno emuli, oggi. Nessun ricco sogna di usare la sua ricchezza come la pietra filosofale per trasformare il mondo, o almeno una fetta di mondo, in oro. E dunque ci si rassegna a un rumoroso lancio di briciole, con tanto di ringraziamento televisivo «al nostro amico sponsor», come da servile e proverbiale definizione biscardiana. La torta è già al sicuro. E ogni briciola è firmata, non sia mai che a raccoglierla non si sappia che si deve ringraziare.