Il bavaglio sul pensiero

Settimana decisiva per la sorte della legge bavaglio e per la cittadinanza politica di chi osa parlare
di questione morale. Negli ultimi giorni, infatti, i due temi si sono strettamente intrecciati, rendendo
ancor più evidente che il fine della legge è quello di creare il silenzio intorno alla corruzione e che
l'occasione politica sembra propizia per imporre il silenzio agli oppositori interni di Berlusconi.
Dal
bavaglio a magistratura e informazione si vuol passare al bavaglio personale: chi tocca il tema della
moralità pubblica sarà fuori dal Pdl?

Bavaglio selettivo, per altro. Tremonti può dire alcune parole e Granata no? Questione di fiducia
sulla legge e eliminazione del dissenso nel partito padronale come via per la normalizzazione?
La verità è che la vicenda del disegno di legge sulle intercettazioni assomiglia sempre di più ad una
guerriglia infinita, ad un terreno di cui si è appena sminato un tratto e già vi sono altre insidie e
trappole da schivare. Si rischia così di offuscare anche il risultato positivo dell'opposizione condotta
in sede parlamentare e avviata da un'opinione pubblica determinata, e di logorare lo stesso
Parlamento proprio nel momento in cui sembra aver ritrovato vitalità, uscendo dalla marginalità
nella quale era stato confinato.

Infatti, la "ripulitura" del disegno di legge, l'opera di "riduzione del
danno" si sono fermate quando si è chiesto di eliminare una norma che, cancellando l'articolo 13 di
una legge che porta il nome di Giovanni Falcone, rende più difficile il ricorso alle intercettazioni
proprio in casi come quello della cosiddetta P3, della "squallida consorteria" contro la quale il
Presidente della Repubblica ha chiesto alla magistratura di andare fino in fondo. Attenzione. Per
affrontare una questione che inquieta i cittadini, perché rivela gli abissi d'immoralità nei quali siamo
piombati, non si stanno invocando norme di emergenza.
Si chiede soltanto che le regole esistenti
non vengano indebolite proprio nel momento in cui si rivelano più necessarie.

L'espressione "questione morale" è tornata all'onore delle cronache, ed è bene che sia così, anche se
troppi se ne erano liberati con un'alzata di spalle e oggi dovrebbero riflettere pubblicamente
sull'errore commesso, che certamente ha contribuito ad infiacchire uno spirito pubblico già debole e
a fornire una sorta di lasciapassare o alibi a faccendieri e cricche d'ogni genere, liberati dal triste
sguardo dei moralisti. Oggi, però, parlare di questione morale è descrizione inadeguata alla realtà
che abbiamo di fronte. Nell'indifferenza pubblica, la questione morale è divenuta questione
criminale nel senso tecnico dell'espressione.
La via difficile della ricostruzione d'una moralità civile,
di un'etica pubblica, passa dunque attraverso l'accertamento puntuale e rigoroso delle responsabilità
da parte della magistratura. Giustizialismo? Nessuno vuol negare a indagati e imputati tutte le
garanzie. Ma garanzia è cosa assai diversa da impunità assicurata attraverso la manipolazione delle
norme.

Questa nuova sfaccettatura della discussione mostra come la definizione di "legge bavaglio"
continui a corrispondere alla realtà dei fatti. Sta emergendo con chiarezza una strategia volta a
dividere, o almeno indebolire, il fronte degli oppositori. Le concessioni riguardanti la pubblicazione
delle notizie e la responsabilità degli editori possono indurre qualche pezzo del sistema
dell'informazione, insolitamente compatto nell'opporsi al disegno di legge, a dire che il risultato è
stato raggiunto e che non è più necessario stare in trincea. Ma vi sono molte buone ragioni per
ritenere che questa sia una conclusione almeno frettolosa. Gli emendamenti approvati sono davvero
solo una riduzione di un enorme danno, non una soluzione rassicurante, per limiti e ambiguità che
ancora permangono. Resta inammissibile la penalizzazione dei blog, che rivela a un tempo volontà
repressiva e scarsa conoscenza del mondo che si vuole regolare.

E le limitazioni all'attività investigativa dei magistrati finiscono con l'incidere sulla stessa libertà d'informazione: se alcune
modalità d'indagine sono inammissibili o particolarmente difficili, si dissecca la fonte delle notizie,
l'opinione pubblica perde il diritto di conoscere per valutare chi ha responsabilità pubbliche e
maneggia pubblico denaro.
I diversi aspetti della critica alla legge bavaglio, dunque, continuano a rimanere legati. E proprio
questa sorta di scorporo della questione informativa, questa parziale disponibilità verso
l'informazione accompagnata da una sostanziale rigidità verso la magistratura rivelano che la
limitazione dei poteri di quest'ultima rimane l'obiettivo irrinunciabile.
Una rete di protezione deve
continuare ad avvolgere corruzione e pratiche di malaffare. L'oscurità, non la trasparenza, deve
divenire il contrassegno del sistema istituzionale (non a caso, proprio in questi stessi giorni, si
discute di rendere più stringente il segreto di Stato).

Quello che si manifesta attraverso l'attacco alla magistratura, infatti, è proprio il tentativo tenace di
alterare quell'"architettura costituzionale" che il presidente del Consiglio ha una volta ancora
pubblicamente accusato d'essere all'origine dell'impossibilità sua di governare il Paese. Una volta di
più, quindi, dobbiamo ripetere che lo infastidisce la stessa democrazia, che vuol dire governo in
pubblico, pesi e contrappesi, poteri separati e bilanciati.
Tutti intralci sulla strada di un autocrate che
si ritiene investito d'un potere finale e assoluto di decisione in virtù d'una interpretazione
dell'investitura elettorale come mandato in bianco, che renderebbe irrilevanti le altre istituzioni e
inammissibili i controlli.

Ecco, allora, il rifiuto del controllo parlamentare, occasione di lungaggini,
di alterazione della volontà del sovrano; del controllo di legalità, con la magistratura che pretende di
impedire l'abbandono delle regole, di indagare i mostruosi connubi tra politica e affari, di mettere a
nudo i comportamenti della magistratura deviata; e del controllo di costituzionalità, che impone di
fare i conti proprio con l'odiata Costituzione, da Berlusconi definita un "ferrovecchio
cattocomunista" in piena continuità con il leggiadro linguaggio dell'era craxiana.

Storia nota, mille volte raccontata? Anche se così fosse, non sarebbe una buona ragione per
rassegnarsi, per tacere, perché proprio la ripetizione ci ricorda che vi è un pericolo che bisogna
continuare a fronteggiare,
divenuto più grave dopo che le ultime vicende hanno rivelato non solo
illeciti personali, ma l'annidarsi all'interno delle istituzioni di persone e gruppi che hanno diffuso
nell'intero sistema l'uso disinvolto e privatistico del potere.
Si comprendono, allora, l'attenzione vigile, la severità dei richiamo costante del Presidente della
Repubblica a principi e regole che sono il fondamento della democrazia repubblicana. Nulla è più
lontano da un "presidenzialismo strisciante", né si può guardare agli interventi di Giorgio
Napolitano come fonte di un conflitto. Non vi è un contrapporsi del Presidente della Repubblica al
presidente del Consiglio. Vi è chi indica e segue la retta via costituzionale, e chi ogni giorno con atti
e parole mostra di volerla abbandonare.


Stefano Rodotà    la Repubblica  26 luglio 2010