Atei devoti nel giardino del Papa
NON CI sarebbe, secondo me, alcun bisogno di tornar a scrivere sull'agitato
rapporto tra laici e cattolici, tra laicità sana o malata, tra spazio pubblico e
spazio privato.
Questi e altri temi strettamente connessi sono infatti della massima importanza
per il rafforzamento delle regole di convivenza sociale in uno Stato
democratico, ma si evolvono e maturano con il passo lento dei processi storici.
È quindi, o almeno così sembra a me, inutile e forse dannoso dibattere
quotidianamente temi che sono già chiari alla coscienza di molti anche se le
risposte di una società complessa non sono univoche ma plurime.
Capisco la voglia di farle convergere, capisco anche il legittimo desiderio dei
credenti e di chi li guida a spingere i non credenti verso le loro convinzioni
di fede per guadagnar loro la salvezza, ma capisco meno la petulanza ripetitiva
che talvolta accoppia lo slancio missionario con un'attività pedagogica fondata
sulla ferma credenza di chi depositario della verità considera come inferiori
intellettualmente e spiritualmente quanti dissentono dal suo zelo religioso o ne
accettano alcuni principi ispiratori respingendone la precettistica che
l'accompagna.
Il dibattito sulla presenza-assenza del Papa all'inaugurazione dell'anno
accademico della Sapienza ha rinfocolato alcune differenze sui modi di pensare e
sui comportamenti pratici che ne derivano.
Il Vicario di Roma, cardinal Camillo Ruini, ha lanciato da giorni l'appello ad
un'adunata di massa all'"Angelus" di oggi in piazza San Pietro. L'adunata ha
preso inevitabilmente la forma politica che è propria delle manifestazioni di
massa, dove è più il numero che la qualità a determinare gli esiti di una
politica "muscolare".
Così bisogna di nuovo affrontare quei temi, precisare il significato di gesti e
di parole, capire, se possibile, il senso di ciò che accade. La storia dello
Stato italiano è fortemente intrecciata con quella della Chiesa. In nessun altro
Paese questo intreccio è stato tanto condizionante e la ragione è evidente:
siamo il luogo ospitante del Capo della cattolicità. Siamo stati e siamo il
"giardino del Papa", ci piaccia o no. Questa condizione ha determinato in larga
misura la nostra storia sociale e nazionale. Nel positivo e nel negativo, nelle
azioni degli uni e nelle reazioni degli altri. Le persone ragionevoli non
dovrebbero mai dimenticare queste condizioni di partenza, ma spesso purtroppo
accade il contrario.
* * *
Metto al
primo posto del mio ragionare l'incidente della Sapienza. Su di esso si è già
espresso il nostro direttore ed io concordo interamente con lui: una laicità
malata ha suggerito ad un gruppo di docenti e di studenti comportamenti di
contestazione in sé legittimi ma divenuti oggettivamente provocatori. Di qui la
necessità di garantire la sicurezza dell'insigne ospite, di qui la possibilità
di tumulto tra opposte fazioni, di qui infine il fondato timore che Benedetto
XVI dovesse parlare nell'aula magna mentre sotto a quelle finestre i lacrimogeni
e i manganelli avrebbero potuto esser necessari: spettacolo certamente
insopportabile per il "Pastor Angelicus" che predica pace e carità.
La contestazione "stupida", tuttavia, non è nata dal nulla ed è l'effetto di
varie cause, anch'esse ricordate nell'articolo di Ezio Mauro: l'invito incauto
del Rettore nel giorno, nell'ora e nel luogo dell'inaugurazione dell'anno
accademico. Non dovrebbe essere un evento mondano e mediatico bensì
l'indicazione delle linee-guida culturali e dei problemi concreti della docenza
e degli studenti.
Il Rettore, evidentemente, ha un altro concetto, voleva l'evento. E l'ha avuto
col risultato di dividere l'Università, la società, la cultura, le forze
politiche, in una fase estremamente delicata della nostra vita pubblica.
Un esito catastrofico da ogni punto di vista, di cui il Rettore dovrebbe esser
consapevole e trarne le conseguenze per quanto lo riguarda. Ci saranno tra breve
le elezioni del nuovo Rettore. Quello attuale vinse la precedente tornata per
una manciata di voti. Questa volta si presenterà come quello che voleva che il
Papa parlasse alla Sapienza e ne è stato impedito. Un "asset" elettorale di
notevole effetto.
Mi auguro che il Rettore non se ne renda conto, ma in tal caso la sua
intelligenza risulterebbe assai modesta. Se se ne rende conto, il sospetto di un
invito con motivazioni elettoralistiche acquisterebbe fondatezza.
Per fugarlo non c'è che un rimedio: protestare la sua ingenuità e non
presentarsi in gara. I guelfi e i ghibellini nacquero anche così.
* * *
La risposta
della gerarchia, guidata ancora da Ruini, è stata l'adunata di stamattina.
Mentre scrivo non so ancora quale sarà l'esito quantitativo ma prevedo una
piazza gremita e un mare di folla fino al bordo del Tevere. È un evento da
salutare con piena soddisfazione? È una "serena manifestazione di affetto e di
preghiera" per testimoniare l'amore dei fedeli al Santo Padre? Certamente è una
manifestazione più che legittima.
Certamente le presenze spontanee saranno robustamente rinforzate dalle presenze
organizzate, treni e pullman sono stati ampiamente mobilitati senza risparmio di
mezzi dal Vicario del Vicario. La motivazione è esplicita: dimostrare al Papa
l'amore del suo gregge dopo l'offesa subita.
Se questa non è una motivazione politica domando al Vicario del Vicario che cosa
è. Se questo non avrà come effetto di acuire la tensione degli animi, la
lacerazione d'un tessuto già usurato e logoro, ne deduco che il Vicario è privo
di intelligenza politica. Ma siccome sappiamo che invece ne è ampiamente
provvisto, ne consegue che il Vicariato di Roma si prefigge di accrescere la
tensione degli animi e di annunciare venuta l'ora di rilanciare il partito
guelfo che ha sempre avuto in cuore.
La Segreteria di Stato vaticana è dello stesso avviso? La Chiesa è unanime in
questo obiettivo?
* * *
Abbiamo
celebrato giovedì scorso in Senato il senatore, lo storico, il fervido credente
Pietro Scoppola, da poco scomparso, alla presenza di molti cattolici che hanno
condiviso il suo pensiero e la sua fede e si propongono di continuare
nell'impegno da lui auspicato.
Scoppola aveva scavato a fondo nella storia dei cattolici italiani e
nell'atteggiamento di volta in volta assunto dalla gerarchia e dal magistero
papale. Distingueva il popolo di Dio dalla gerarchia; sosteneva che la gerarchia
è al servizio del popolo di Dio e non viceversa.
Mi ha fatto molto senso vedere, proprio alla vigilia del mancato intervento del
Papa alla Sapienza, la messa celebrata da Benedetto XVI nella Sistina col
vecchio rito liturgico rinverdito a testimoniare la curva ad U rispetto al
Concilio Vaticano II: il Papa con la schiena rivolta ai fedeli e la messa
celebrata in latino.
Qual è il senso di questa scelta regressiva se non quello di ribadire che il
mistero della trasformazione del vino e del pane in sangue e carne di Gesù
Cristo viene amministrato dal celebrante senza che i fedeli possano seguire con
gli occhi e in una lingua sconosciuta ai più? Il senso è chiarissimo:
l'intermediazione dei sacerdoti non può essere sorpassata da un rapporto diretto
tra i fedeli e Dio. Il laicato cattolico è agli ordini della gerarchia e non
viceversa. Lo spazio pubblico è fruito dalla gerarchia e - paradosso dei
paradossi - dagli atei devoti che hanno come fine dichiarato quello di
utilizzare politicamente la Chiesa.
* * *
Si continua
a dire, da parte della gerarchia e degli atei devoti, che i laici-laici (come
vengono chiamati i credenti veramente laici e i non credenti che praticano la
laicità democratica) vogliono relegare la religione nello spazio privato delle
coscienze.
Questa affermazione è falsa. Chi pratica la laicità democratica sostiene che
tutte le opinioni dispongono legittimamente di uno spazio pubblico per esporre e
sostenere i loro modi di pensare.
La libertà religiosa è una, e direi la più importante, da tutelare sia nel foro
della coscienza che in quello pubblico. Non mi pare che difetti quello spazio,
mi sembra anzi che la gerarchia lo utilizzi pienamente anche a scapito di altre
religioni e massimamente di chi non crede e potrebbe in teoria reclamare uno
spazio più confacente.
Ma noi non abbiamo obiettivi di proselitismo. Facciamo, come si dice, quel che
riteniamo di dover fare, accada quel che può. Tra l'altro cerchiamo di amare il
prossimo e riteniamo che la predicazione evangelica contenga grande ricchezza
pastorale quando non venga stravolta in strumento di potere, il che è accaduto
purtroppo per gran parte della storia del Cristianesimo da parte non del popolo
di Dio ma della gerarchia che l'ha guidato con l'obiettivo del temporalismo e
del neo-temporalismo.
La lettura della storia dei Papi insegna molte cose e, quella sì, andrebbe fatta
nelle scuole pubbliche. Papa Wojtyla ha chiesto perdono per alcuni di quegli
episodi, ma non poteva certo chiederlo per tutti: avrebbe certificato che per
secoli e secoli la gerarchia si è messa sul terreno della politica, della guerra
ed anche purtroppo della simonia piuttosto che praticare nello specifico il
messaggio di pace e di povertà della predicazione evangelica.
* * *
Ci saranno
modi e occasioni per riprendere questo discorso che tende a chiarire ciò che non
sempre è chiaro.
Mi restano due osservazioni da fare. Giornali di antica tradizione laica
sembrano aver perso la bussola e si schierano apertamente accanto agli atei
devoti.
Di atei devoti la storia d'Italia è purtroppo gremita.
L'ultimo nella fase dell'Italia monarchica fu Benito Mussolini. In tempi di
storia repubblicana gli atei devoti fanno ressa e la faranno anche oggi alle
transenne di piazza San Pietro.
Questa prima osservazione mi conduce alla seconda.
L'onorevole Mastella nella sua conferenza stampa di Benevento, mentre gli
grandinavano addosso pesanti provvedimenti giudiziari, ha fatto come prima
affermazione quella relativa alla sua presenza oggi a piazza San Pietro.
Dopo averla fatta si è guardato fieramente intorno con sguardo lampeggiante e ha
scandito: "Io sono con il Papa e andrò a testimoniarlo in piazza".
Ne ha pieno diritto. Personalmente mi auguro che i pretesi reati di Mastella, di
sua moglie, del suo clan, si rivelino per una montatura. Ma il problema è sul
comportamento politico e morale di Mastella, di sua moglie del suo clan.
Un comportamento clientelare e ricattatorio che non ha scuse di sorta,
rappresenta una deviazione molto grave dalla democrazia. Non è assolutamente
valida la giustificazione proveniente dal fatto che si tratta di un male
diffuso.
Negli stessi giorni della "mastelleide" abbiamo assistito anche alla "cuffareide":
il popolo non di Dio ma di Totò Cuffaro si è radunato in preghiera nelle chiese
della Sicilia; il "governatore" ha pianto di gioia e si è fatto il segno della
croce quando ha ascoltato la lettura della sentenza dalla quale è stato
condannato a cinque anni di reclusione (che non farà) e all'interdizione dai
pubblici uffici che non rispetterà.
Il capo del suo partito, Casini, e il capo della coalizione di centrodestra,
Berlusconi, si sono immediatamente complimentati con lui.
Che cos'ha di cattolico il comportamento di Clemente Mastella e di Totò Cuffaro?
Nulla. Anzi è il contrario dello spirito cristiano.
Fossi nei panni del Vicario del Vicario farei discretamente e con mitezza sapere
a Mastella, a Cuffaro, a Berlusconi, a Casini, che i loro comportamenti sono a
dir poco imbarazzanti per la Chiesa e forse farebbero bene a non presenziare
manifestazioni di testimonianza cristiana. Ma se poi si venisse a sapere che
anche Camillo Ruini è un ateo devoto? Del resto sarebbe l'ultimo in ordine di
tempo di un'interminabile sfilata di papi, cardinali, vescovi, abati, che
tradirono - devotamente - il messaggio celeste del Figlio dell'uomo, da essi
rappresentato.
Eugenio Scalfari Repubblica 20.1.08