Assalto al
Risorgimento
Gli eredi della grande tradizione liberale hanno difeso l´Italia nata nel
1861 e lo Stato che venne creato. Di quel periodo non si può presentare una
versione localistica. La classe dirigente del dopoguerra si impegnò in
una visione di ampio respiro. Alcuni dei problemi di allora ci sono
ancora. Come la questione meridionale.
All´uscita dal fascismo e dalla guerra ci si chiedeva: povera Italia, chi ti
ridusse a tale? Oggi di fronte al potere del berlusconismo e della Lega molti
italiani si pongono analoga domanda, ma risposte adeguate stentano ad arrivare.
Naturalmente le differenze fra le due situazioni sono tante, grandi ed evidenti.
Ma il timore, sacrosanto, di appiattire il nuovo sul vecchio, precludendosi così
la possibilità di comprenderlo, non deve impedire di porre a confronto le due
esperienze più negative attraversate dall´Italia dopo l´unità. Il 150°
anniversario di quest´ultima potrebbe offrire l´occasione di una riflessione di
medio e lungo periodo che collochi in un più ampio orizzonte le iniziative in
corso per ricordare l´evento. Per quello che se ne sa, sembra invece che si
oscilli fra affermazioni generiche e derive localistiche (si vedano le
osservazioni critiche di Simona Colarizi nel suo commento alla riunione degli
storici garanti delle celebrazioni pubblicato su Repubblica del 17 settembre).
Subito dopo la guerra si manifestò la spinta, non solo fra gli addetti ai
lavori, a ri-considerare la storia d´Italia partendo dal Risorgimento, dalle
dominazioni straniere, dalla Controriforma. Molti avvertivano che fra
quel passato più o meno remoto e il presente un nesso c´era, che poteva
proiettarsi anche sul futuro, e che andava indagato per amore di conoscenza,
amore di patria e amore di libertà. Il migliore pensiero antifascista si era
sempre affaticato attorno a questi problemi, da Gramsci a Rosselli, da Croce a
Salvemini.
Allora la riflessione, dopo le dure esperienze patite e l´albeggiare di nuove
speranze, circolava in una più vasta area di coscienza pubblica. Essa peraltro
aveva in sé il rischio, che esiste anche oggi provocato da un malessere che
sembra senza via d´uscita, di sboccare in un rassegnato pessimismo: e se
l´Italia fosse davvero incapace di diventare un paese libero e democratico?
Il fascismo affermava di essere il provvidenziale punto di arrivo della intera
storia d´Italia da Augusto a Mussolini, passando per la Roma onde Cristo è
romano. Ma la interpretazione di questo cammino poteva essere rovesciata. Tre
libri che ebbero allora una notevole eco potrebbero essere raggruppati,
invertendo la formula vichiana, sotto il titolo di De antiquissima Italorum
insipientia: Golia. Marcia del fascismo, di Giuseppe Antonio Borgese;
Antistoria d´Italia, di Fabio Cusin; Storia degli Italieschi dalle origini ai
giorni nostri, di Giorgio Fenoaltea.
La classe dirigente impegnata a costruire un´Italia democratica non poteva
accettare questo malinconico punto di vista. La Resistenza e la
Costituzione apertamente lo sfidavano. La politica, la storiografia e un
vasto settore della pubblica opinione si sentirono impegnati a collocarsi entro
una visione di ampio respiro e non catastrofica della storia d´Italia. Le
differenze di interpretazione erano molte, ma un presupposto condiviso rimase
comunque, al contrario di oggi, il giudizio positivo sull´unità d´Italia. Era un
comune sentire, prima ancora che un comune pensare.
Gli eredi
della grande tradizione liberale - penso soprattutto ad Adolfo Omodeo, Federico
Chabod, Rosario Romeo - difesero non dogmaticamente l´Italia del Risorgimento e
lo Stato allora creato. Omodeo attribuì a Cavour il grande merito di non aver
voluto fare dell´Italia "un grasso Belgio della Valle padana". Chabod scrisse
che non si dovevano scambiare i germi di una malattia, il fascismo, con il pieno
divampare della malattia stessa.
Si cominciarono contemporaneamente a studiare le forze rimaste fuori dai governi
prefascisti, i socialisti e i cattolici, e a vedere in questa esclusione la tara
principale dell´Italia unita. Divenne corrente la formula che era venuto il
momento di inserire finalmente quelle forze nello Stato, dopo il disastroso
tentativo fascista di inserirle per via autoritaria.
Sotto la spinta della Resistenza, della Costituzione, di una acquisita
coscienza delle proprie manchevolezze e di una nuova fiducia nel futuro l´Italia
cominciò allora a fare grandi passi avanti sulla strada della democrazia e della
modernizzazione. Peraltro gli anni di sviluppo e di euforia fecero
troppo frettolosamente considerare risolti problemi che l´Italia si trascinava
dietro fin dall´unificazione e che affondavano le loro radici ancora più
lontano.
Oggi quei problemi sono più che mai presenti. Si pensi innanzi tutto al
Mezzogiorno, nonostante gli evidenti passi avanti compiuti e i ripetuti allarmi
dei meridionalisti e dei loro sempre meno ascoltati eredi. Si pensi alla
anomalia della "capitale morale" oltre che economica d´Italia dalla quale invece
sono nati, a distanza di settant´anni, i due movimenti più retrivi che abbia
conosciuto l´Italia contemporanea. Che avesse avuto ragione Gramsci,
quando considerava la borghesia italiana non ancora pienamente uscita dalla fase
corporativa, come anche il successo della Lega induce a pensare?
Nella storia dell´Italia repubblicana i partiti, in particolare quelli di massa,
socialisti, comunisti e democristiani, pur nelle loro aspre contese e nei loro
limiti, avevano svolto un importante ruolo di educazione alla democrazia del
popolo italiano. Le recenti vicende del nostro paese mostrano peraltro che essa
è stata meno profonda e diffusa di quanto fosse lecito sperare. Una
parte notevole del popolo italiano - non tutto, non va mai dimenticato - sembra
essersi rapidamente adeguata alla volontà berlusconiana e leghista di
scardinare, come è sempre più chiaro, i fondamenti istituzionali ed etici della
libertà e della democrazia. L´involgarirsi del costume pubblico, che di quello
scardinamento costituisce a un tempo il prodotto e il sottofondo, va dall´altra
metà degli italiani combattuto con particolare risolutezza.
Se berlusconismo e leghismo vanno analizzati sia sul breve che sul lungo
periodo, i rapporti fra Stato e Chiesa non possono rimanere fuori del nostro
discorso. Dopo l´avvento del berlusconismo essi sono notevolmente cambiati.
Va ricordato che il carattere degli italiani, sul quale le pagine di Leopardi
sono sempre illuminanti, si è formato soprattutto con la Controriforma ed è
stato una pur duttile costante della storia d´Italia trapassando da epoca a
epoca e da regime a regime.
Molti dei
liberali, cattolici e laici, che presero a cannonate la capitale del papa
auspicavano che la scomparsa del potere temporale avrebbe finalmente favorito,
con giovamento per l´intero paese, una renovatio Ecclesiae liberata dagli
impacci mondani. Come sappiamo le cose non sono andate in questo modo. La saggia
Legge delle Guarentigie, emanata dopo la breccia di Porta Pia e che il papa non
volle mai riconoscere preferendo fingersi prigioniero in Vaticano, verrà dal
fascismo sostituita dal Concordato che negava il principio della eguale libertà
di tutte le coscienze di fronte allo Stato. L´articolo 7 della Costituzione
ribadirà quella negazione, ma lo stesso partito cattolico che lo aveva
fortemente voluto e l´aveva ottenuto con l´appoggio dei comunisti, praticherà
una politica di mediazione fra potere vaticano e potere statale.
Scomparsa la Dc e trovatisi fronte a fronte i due poteri, quello
ecclesiastico ha alzato il tiro e ha preteso e vieppiù pretende nuovi spazi non
già per la libertà religiosa, che mai sono stati alla Chiesa negati nell´ambito
della libertà di tutti, ma di poteri pubblici, cioè esercitabili nei confronti
anche dei non cattolici: insomma, dei privilegi. Tutto questo avviene
mentre la società va sempre più scristianizzandosi, ed è una riprova della
crescente distanza che corre fra la coscienza religiosa e la Chiesa come
istituzione. Il berlusconismo dà un sostanzioso contributo a questo
processo. Assistiamo così a un costante arretramento rispetto alle
aperture conciliari, suscitatrici di tante speranze fra i cattolici democratici
che auspicavano - basti pensare a Scoppola - rapporti fra Stato e Chiesa ben
diversi da quelli attuali.
Molti sono oggi i cittadini che patiscono per le umiliazioni che debbono subire
e perché non vedono una chiara e decisa azione politica e culturale volta a
scrollarsele di dosso.
Claudio Pavone Repubblica 30.9.09