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Una selezione di articoli

ATTUALITA' 

Pentimento

Zanotelli
Giordano Bruno
Chiapas
Pentimenti IncompletiI
Küng e il pentimento della Chiesa

Una preghiera "DIVERSA"

L'intervento di ENZO MARZO al convegno: Libero Stato e Libere Chiese, (Roma, 2-3 giugno 2000)
Un decalogo per il dialogo tra religioni
Giorgio Gaber:  e pensare che basterebbe...
Zanotelli al convegno della Rete Lilliput: un progetto per resistere e sperare.
La Chiesa cattolica e la Carta Europea dei diritti fondamentali...
La Risposta di Leonardo Boff a Ratzinger sulla Dominus Jesus  
Inchiesta  "ADISTA" sui preti "per strada";  *   POLITICA  COME BENE COMUNE   di E. Chiavacci;    *    PASOLINI  venticinque  anni dopo

 

 

 

 

LA CHIESA CHIEDE PERDONO:

MEA CULPA SUL PASSATO, SILENZIO SUL PRESENTE. È PENTIMENTO?

30241. ROMA-ADISTA. Il papa non può esprimere un mea culpa per gli errori della Chiesa nei secoli passati se contestualmente, insieme a tutta la comunità cattolica, non cerca di porre fine agli errori o alle violenze che l’Istituzione ecclesiale continua a ripetere anche oggi. È questo il ritornello di biblisti, storici, teologi e giuristi interpellati dalla sezione italiana del movimento internazionale "Noi siamo Chiesa" (Imwac, in sigla inglese), in vista del 12 marzo 2000, quando Giovanni Paolo II chiederà perdono per le mancanze passate dei "figli della Chiesa".

Queste le domande poste agli interpellati:

1. Qual è il soggetto abilitato a esprimere il proprio pentimento, data l’articolazione nel tempo e nello spazio della vita della Chiesa cattolica? Potrebbe essere il papato?

2. Chi dovrebbe essere il destinatario della richiesta di perdono: il mondo, la comunità ecclesiale, i condannati per eresia, i popoli colonizzati?

3. Quali sono i peccati di cui dovrebbe pentirsi il soggetto, soprattutto per quanto tocca i problemi interni alla Chiesa?

4. Che cosa resta e si ripete oggi delle radici che hanno portato a quegli errori di cui il papa, a nome della Chiesa cattolica, intende pentirsi (crociate, Inquisizione, conquiste coloniali, scismi, rifiuto della scienza e della democrazia…)?

Delle risposte pervenute pubblichiamo qui alcuni stralci.

"Sarebbe necessario - ha detto il biblista Giuseppe Barbaglio - che la richiesta di perdono per le infedeltà del passato sia abbinata a quella per le infedeltà del presente". Ad esprimere il pentimento dovrebbe poi essere "tutta la Chiesa, perché è essa che ha mancato gravemente al suo compito. Il papa potrebbe essere il portavoce della Chiesa in questo gesto di richiesta di perdono… Io sono molto favorevole a questo gesto, che però dovrebbe essere completato e dovrebbe mobilitare tutte le comunità cristiane cattoliche. Perché non si tratta tanto di chiudere un passato, quanto di aprire un futuro nuovo: chiedere perdono del passato vuol dire soprattutto impegnarsi a non ripetere quelle infedeltà".

Per don Carlo Molari (già docente alle Pontificie Università Urbaniana e Lateranense) "occorre ricordare che chiedere perdono significa riconoscere il male compiuto nel passato ed impegnarsi ad immettere nella storia dinamiche di bene opposte a quelle introdotte dalle scelte sbagliate del passato". Naturalmente, ha notato il teologo, "non è più possibile raggiungere direttamente le persone uccise secoli fa con la violenza, per chiedere loro perdono: così oggi si chiede perdono a Dio, e non certo ai calvinisti per la "notte di San Bartolomeo" [il 24 agosto 1572 a Parigi i cattolici massacrarono migliaia di ugonotti, i calvinisti francesi, Ndr]. Il perdono accolto da Dio, però, diventa atteggiamento di tenerezza del cattolico di oggi nei confronti del calvinista che incontra o con il quale prega".

"Oggi - ha aggiunto il teologo - la radice principale degli errori che la comunità ecclesiale commette e dei peccati che compie, è la superficialità della vita teologale. Si insiste molto sull’osservanza della legge, sulla disciplina e sull’ortodossia: cose sacrosante, ma insufficienti… Espressioni di questa insufficiente vita teologale sono le facili concessioni alle sicurezze del potere e del denaro, le presunzioni nel dialogo ecumenico, l’autosufficienza nei confronti delle altre religioni, il disprezzo delle espressioni marginali o minoritarie dell’umanità, la rassegnazione passiva nei confronti dell’ingiustizia dilagante, la mentalità consumista e borghese che caratterizza gran parte delle Chiese cristiane d’Occidente".

Giulio Girardi, teologo della liberazione, pur valutando l’importanza dei mea culpa fin qui pronunciati da papa Wojtyla, trova in essi dei limiti insuperabili: "L’autocritica, salvo qualche timida eccezione, non riguarda mai la Chiesa come tale, ma solo alcuni suoi "figli". Ancora, essa non riguarda mai l’attuale pontificato, né i pontificati recenti, ma si riferisce ad epoche remote della storia della Chiesa, di cui sembra supporre che non abbiano nulla in comune con l’epoca attuale. Il papa riconosce gli errori degli altri, e si pente dei loro peccati. Un limite particolarmente grave di queste autocritiche è che esse non risalgono mai alle radici ideologiche e strutturali, quali il costantinismo e l’assolutismo pontificio, delle colpe ammesse".

Ma forse il limite più "vistoso" delle autocritiche pontificie - secondo Girardi - è che queste vengono espresse mentre permangono nella Curia romana "comportamenti autoritari e repressivi il cui superamento sarebbe il segno credibile di un nuovo clima evangelico nella Chiesa cattolica: penso ad esempio alla rimozione di don Raúl Vera López dalla diocesi messicana di San Cristóbal, decisa in aperto rifiuto delle istanze di don Samuel Garcia Ruiz, vescovo uscente, degli agenti pastorali, dei popoli indigeni del Chiapas. Penso anche alle misure inquisitoriali che hanno colpito in questi giorni la teologa inglese suor Lavinia Byrne (sostenitrice dell’ordinazione sacerdotale delle donne)".

Sottolineato che una richiesta di perdono - da parte della Chiesa cattolica - ha senso solo se essa ha "il fermo proposito di non commettere più le stesse azioni", la teologa Maria Caterina Jacobelli si pone in particolare questo interrogativo: "È decisa, la Chiesa, a riesaminare i propri comportamenti tenendo ben presenti gli strettissimi limiti della infallibilità pontificia espressi nel 1870 dal Concilio Vaticano I, limiti che non soltanto sono troppo spesso violati, ma che, entrando nel merito (per esempio per quanto riguarda l’ordinazione sacerdotale delle donne), si pretende persino di estendere per tutti i secoli futuri?" Il riferimento è alla lettera apostolica di Giovanni Paolo II Ordinatio sacerdotalis (1994) ed a successivi documenti della Santa Sede che, di fatto, richiedono un assenso definitivo al "no" alla donna-prete, sostenendo che il "no" papale in merito è in pratica "infallibile".

A proposito del "soggetto"che dovrebbe pentirsi, il teologo Leandro Rossi risponde: "Il papato, certamente, perché ha avuto le redini del comando. Se ha lasciato fare troppo ai curiali, ha certo una responsabilità in causa. Ci sono tuttavia differenze da papa a papa. La responsabilità di Celestino V non è naturalmente quella di Bonifacio VIII, né quella di Giovanni XXIII quella di Alessandro VI". E sulle colpe che Wojtyla attribuisce ai "figli della Chiesa", Rossi nota: "Ciò vuol dire che noi figli abbiamo le colpe e loro, la gerarchia, i meriti che spettano alla Chiesa". Infine, per quanto riguarda le "colpe" di oggi, il teologo dice: "Abbiamo la presunzione di conoscere la Verità in modo compiuto e definitivo, mentre essa è da accogliere continuamente dallo Spirito in una ricerca che deve coinvolgere tutti i membri della comunità ecclesiale, e per alcuni aspetti tutti gli uomini".

Per Giancarla Codrignani, giornalista (tra l’altro impegnata in "Mosaico di Pace", rivista di Pax Christi, e in "Confronti"), "dovrebbe essere un Sinodo dei vescovi, di rappresentanza internazionale, congiuntamente con il papa ad esprimere il pentimento della Chiesa cattolica. Escluderei una rappresentanza di laici, se non simbolica, perché spetta ai detentori dell’autorità condannare comportamenti devianti propri di chi aveva il potere di assumere le responsabilità". Per quanto riguarda i "peccati" di oggi, la Codrignani elenca: "Il sabotaggio delle determinazioni del Concilio Vaticano II, la mancanza di collegialità e di rispetto della democrazia come valore valido non solo in sede laica; l’autoritarismo ed il verticismo che dalla Curia alle parrocchie tengono i fedeli costretti ad una obbedienza che non è una virtù; l’esistenza dell’Ordinariato militare e dei cappellani di carriera nell’esercito, l’irrilevanza dei laici nelle responsabilità della Chiesa; l’assenza di libertà di ricerca teologica; il ritardo notevole nella realizzazione dell’unità dei cristiani e di dialogo con le altre religioni monoteiste, segnatamente con l’Islam; la discriminazione delle donne davanti all’altare".

"Dichiarare il proprio pentimento - risponde da parte sua Giorgio Vecchio, professore di storia contemporanea all’Università di Parma - è compito di ciascuna cristiana e di ciascun cristiano, così come di ogni comunità più o meno ampia. Ne consegue che ciascuno (a livello personale e come membro di una comunità) è tenuto a pentirsi, a sollecitare una riflessione comune finalizzata al pentimento collettivo. Ha pienamente e doverosamente titolo il papato di riflettere sui propri comportamenti passati e di chiedere perdono, hanno titolo le singole diocesi, parrocchie, associazioni, laici singoli. Appare importante che il proclamato pentimento del papato non sia inteso come atto di vertice, ma anche come stimolo ad analoghe forme di pentimento nella Chiesa locale". Lo storico nota poi che "al momento sembra carente nella gerarchia della Chiesa cattolica una riflessione sui limiti non solo dei singoli cattolici che hanno sbagliato (come viene spesso ricordato anche da Giovanni Paolo II a proposito della Shoah), ma della istituzione Chiesa in quanto tale. Quali abitudini, norme, insegnamenti all’interno della istituzione Chiesa hanno facilitato/provocato/non condannato per tempo gli errori dei singoli? Quale spinta al conformismo, alla paura di esporsi, al silenzio comodo hanno aiutato a commettere gli errori di cui oggi ci si vuole pentire?".

"In una prospettiva di fede - afferma nella sua risposta a Imwac-Italia Nicola Colaianni, giurista - il pentimento è ineludibile perché è anzitutto un esercizio di memoria: non mnemonica, come quella dei ragazzi a scuola, o archivistica, come quella del computer, ma selettiva, ricercatrice, capace di sottrarre all’oblio gli eventi del passato per ricusarli se negativi o ripeterli se positivi. Il ricordo - scriveva Giuseppe Dossetti con riferimento anche ai silenzi ecclesiastici sui delitti commessi dai nazisti - deve essere continuato, divulgato e comunitario per "conservare una coscienza non solo lucida, ma vigile, capace di opporsi ad ogni inizio di sistema del male, finché ci sia tempo"". "Che poi a dichiarare il pentimento nella e per la Chiesa cattolica cominci il papa mi sembra inevitabile e giusto. Innanzitutto per le ripercussioni a cascata che in un organismo gerarchicamente ordinato, come la Chiesa cattolica, può avere il pronunciamento del papa: ed in realtà gli effetti si vedono nelle Chiese locali, anche nel senso di far venire allo scoperto posizioni contrarie perché tributarie di una diversa concezione del rapporto con la società e con la storia (penso a dichiarazioni del card. Biffi arcivescovo di Bologna, o di Sandro Maggiolini, vescovo di Como)". Per quanto riguarda l’Inquisizione, rileva Colaianni, "confessare l’errore di questo sistema è gran cosa, ma forse ancor più grande sarebbe che all’atto fosse allegata una lista di tutte le persone che l’Inquisizione ha incarcerato o mandato al rogo". In conclusione, "se c’è un limite nelle attuali dichiarazioni di pentimento è che esse riguardano prevalentemente il passato remoto, come se la Chiesa d’oggi - anzi a partire, diciamo, dalla Rivoluzione francese in poi - non abbia nulla di cui pentirsi: sensazione avvalorata dalla prossima elevazione agli onori degli altari [la beatificazione è prevista il 3 settembre 2000, ndr] di un papa storicamente quanto meno controverso come Pio IX, che pure nel 1868 non seppe trovare la forza di concedere la grazia ai due patrioti condannati a morte, Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, opponendo un secco rifiuto - non diverso da quello opposto frequentemente in questi anni dai governanti alla analoghe istanze rivolte da papa Wojtyla - perfino all’intervento in loro favore di re Vittorio Emanuele II".

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La solidarietà di Dio

Chiamati a celebrare il Sabato di Dio

"Passai vicino" - a te dice il Signore parlando ad Israele schiavo in Egitto –" ti vidi mentre ti dibattevi nel sangue …". (Ez 16) E’ il Signore che si accorge del grido degli schiavi forzati a costruire i palazzi imperiali del faraone. E’ il Signore che manda Mosè a salvarli. Mosè, venduto al sistema iperiale, è convocato dal Signore a ritornare in Egitto (da dove era fuggito) per il suo popolo. E Mosè ci ritorna portatore di un sogno. Il sogno di Dio. Un sogno che cozza sulla realtà dell’impero, di ogni impero (da Faraone a Clinton!) che poggia su tre pilastri: una economia di opulenza, che sottende una politica di oppressione, che esige una religione dove Dio è prigioniero del Sistema. Una economia di opulenza che permette a pochi (10% allora, oggi 20%) di vivere da nababbi a spese di molti morti di fame. Non ci può essere un’economia di opulenza, senza una economia di oppressione, dove gli apparati amministrativo - politici sono usati per opprimere. Tutto questo sottende una religione dove Dio è prigioniero del Sistema, benedice il Faraone come Clinton. Mosè è invitato a sfidare l’impero, a proclamare che Dio sogna qualcosa d’altro per l’uomo.

L’Esodo è la proclamazione che Dio ha vinto Faraone, il suo esercito, il Mare. Il Signore è Dio degli schiavi fuggiaschi, che dopo le meraviglie della liberazione iniziarono il loro cammino nel deserto. E’ interessante che la prima lezione che Israele riceve dopo la liberazione è sulla nuova economia. Una economia di uguaglianza. Dobbiamo ricordarci che il concetto fondamentale di economia di Dio è basato sulla chiamata ad osservare il Sabato. La prima volta che la parola Sabato appare è nel racconto della Creazione. "Il settimo giorno Dio si riposò" (Gen 2,2). La seconda è proprio nel capitolo della Manna. Israele deve scoprire come sopravvivere nel deserto. Un’economia altra da quella imperiale egiziana. La storia della manna, infatti non è un bel miracolino, ma una parabola che illustra l’economia alternativa del Signore: la dipendenza umana dalla economia della grazia! "La prima lezione data da Dio al suo popolo, dopo la liberazione, è sulla produzione economica" scrive il biblista Ched Meyers (a cui mi ispiro per queste note). Tre la caratteristiche di questa pratica economica alternativa :

    1. Ogni famiglia è invitata a raccogliere quanto basta per i propri bisogni. "Colui che ne aveva preso di più, non ne aveva di troppo, colui che ne aveva di meno, non ne mancava" (Es16,18);
    2. Il pane non può essere ammassato, accumulato. In Egitto ricchezza e potere sono equivalenti all’accumulo di beni, che diventa idolatria. Israele è invitato a far si che la ricchezza circoli attraverso nuovi canali di distribuzione;
    3. La pratica del Sabato (Es 16,22-30) "sei giorni la raccoglierai ma il settimo è sabato: non ce ne sarà. Il Sabato non è un pezzo d’antiquariato ma è centrale alla fede di Israele, alla nostra fede. "Se il popolo non pratica il sabato morirà". (Es 31, 11-17).

Il giorno di riposo(Sabato) è imposto alla terra e agli uomini allo scopo di sferzare i tentativi umani di "controllare" la natura e di "massimizzare" le forze di produzione. Dato che la terra è di Dio e i suoi frutti sono un dono, l’uomo deve distribuirli equamente invece di capitalizzarli e di ammassarli.

L’osservanza del Sabato significa ricordare ogni settimana i due principi fondamentali dell’economia di Dio: il fine del "sufficiente" per tutti e la proibizione dell’accumulo. Una visione, questa, radicalmente contraria all’economia dominante, all’impero del denaro. Era una lezione talmente fondamentale che agli ebrei fu prescritto di conservare un’anfora di manna davanti alle Tavole della Legge, per non dimenticare l’economia del Sabato (non è forse analoga la conservazione del Pane Ecauristico nelle nostre chiese ?) .

E’ interessante notare infine che il codice di giustizia sociale (Es 23) estende il ciclo del Sabato a un settimo anno. "Per si anni seminerai la terra e ne raccoglierai il prodotto. Ma nel settimo anno non la sfrutterai e la lascerai incolta: ne mangeranno i poveri del tuo popolo (Es 23,10). Il Giubileo (Jovel, il corno della memoria suonato per indire la remissione ) aveva lo scopo di smantellare le strutture di diseguaglianza socio-economica attraverso la remissione del debito contratto da un membro della comunità (Lev 25, 35-42) , la restituzione della terra persa ai proprietari originari (Lev 25,13,25-28) la liberazione degli schiavi (Lev 25,47-55). Il tutto per ricordare ad Israele che la terra è di Dio (Lev 25,23) e che Israele è il popolo dell’Esodo, che non può ritornare ad un sistema di schiavitù (Lev 25,42).

Se questo è fare Giubileo, se questa è la nostra fede, appare sempre più chiaro che noi la proclamiamo oggi scegliendo o l’impero del denaro o il Sogno di Dio. Viviamo un sistema economico che permette al 20% della popolazione di utilizzare l’85% dei beni di questo mondo, mentre il 20% dei più poveri riceve meno del 2% ! E’ un sistema che uccide per fame 20-30 milioni di persone all’anno e dichiara inutili oltre un miliardo di esseri umani. La professione di fede non è fatta recitando il credo, ma dicendo con le nostre scelte economiche quotidiane da che parte stiamo.

"Tutti gli eccellenti discorsi sul primato dell’essere sull’avere - ci ricorda il moralista Chiavacci – sono assolutamente vani e moralmente inefficaci, se non sono concepiti come aperta critica alla nostra cultura occidentale". Dobbiamo introdurre tale primato nella nostra logica economica di ogni giorno

. Quanti di voi giovani oggi scelgono una professione a basso reddito ma alto contenuto umanizzante o caritativo ? Chi non si consulta con l’esperto per collocare i risparmi al massimo interesse? Quanti con stipendio sufficiente rifiutano straordinari o doppi lavori per dedicarsi ad attività senza reddito, ma comunitarie o umanizzanti?

Quanti giovani ritengono che sia perfettamente normale che i soldi producano i soldi ? Quanti giocano senza il minimo scrupolo di coscienza all’enalotto ? Occorre una rivoluzione culturale capillare. Il dovere di testimonianza è urgente !

p. Alex Zanotelli

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GIORDANO BRUNO:
la libertà di essere eretico

Giordano Bruno nolano. Chi era costui, definito mago o scienziato o filosofo o politico, ma certamente accusato di essere eretico “impenitente”?

Perché muore in maniera feroce giustiziato sul rogo il 17 febbraio 1600 a soli 52 anni?

Sono le domande che si addensano su un uomo che fu, soprattutto, un uomo libero. Libero di cercare, di capire, di provare strade nuove in un tempo oscuro di controriforme e di intolleranza. Libero anche di diventare eretico per amore del pensiero.

Dalla mattina del 9 giugno 1889, quando in Campo di Fiori viene inaugurata la statua a lui dedicata, Bruno diviene un po' il simbolo di coloro che sono martiri dell'intolleranza in ogni tempo e luogo ed anche il simbolo degli spiriti inquieti e mai completamente appagati dall'esistente, convinti che il “tempo migliore” deve essere ancora realizzato.

Era il giorno di Pentecoste quel 9 giugno: la festa dello Spirito creatore nel mondo cristiano: lo Spirito che fa parlare molte lingue ed apre strade diverse ai discepoli asserragliati impauriti dentro il Cenacolo. Questo racconta il libro di Luca degli Atti degli Apostoli. Forse accostamento migliore non vi poteva essere: Bruno avrebbe voluto una Chiesa che ritrovava la forza delle Pentecoste che porta ad uscire, a confrontarsi per le strade di Gerusalemme e a non creare chiusi cenacoli o controriforme contro tutti

Ma chi segue questa impostazione di vita, chi vorrebbe una Chiesa così, spesso viene bruciato. E non solo ieri. Infatti sarebbe bello poter fare del 17 febbraio solo una semplice ricorrenza storica. Non è possibile. Martiri dell'intolleranza sono in ogni dove, nella Chiesa e nei vari mondi politici e sociali. Quindi occorre continuare a scoprire statue ai martiri dell'intolleranza, come in quel 9 giugno 1889 e a dire che Pentecoste significa festa di uno Spirito che dona ad ogni uomo la capacità d'inseguire la Verità e che solo la libertà di pensiero e di confronto potrebbe permettere il fiorire della Verità. Attraverso il faticoso cammino del tempo.

“ La religione del pensiero non chiede vendetta. Chiede la tolleranza di tutte le dottrine… e culto massimo la giustizia.”: così diceva il filosofo Giovanni Bovio, deputato della sinistra, inaugurando quel 9 giugno la statua del domenicano. E quel monumento diveniva il simbolo della tolleranza sempre cercata ma anche un potente atto d'accusa non vendicativo verso tutti i poteri religiosi e politici che da sempre reprimono la libertà di ricerca e di pensiero.

La stampa cattolica del tempo non seppe altro fare che giudicare il monumento a Bruno “strumento del diavolo” o “causa di disgregazione sociale”. Papa Leone XIII minacciò scomuniche e interdetti. Era la stessa Chiesa del tempo del Nolano, la stessa Chiesa che aveva perso da tempo le strade della Pentecoste e il coraggio della strada fuori del Cenacolo e del confronto senza pensare di essere i padroni della verità. Altri uomini di Chiesa e credenti avrebbero seguito la sorte del pensatore prima che anche nel cattolicesimo cominciasse una seria riflessione di novità e di confronto sereno con il mondo.

Sarebbero arrivati negli anni 60 un papa tollerante come Giovanni XXXIII e lo sforzo magnifico del Concilio Vaticano II e la Chiesa avrebbe cominciato a sentire suoi dolori, speranze e attese del mondo, come si esprime uno dei più importanti documenti conciliari, la “Gaudium et Spes”. Poi , in questi ultimi anni, dei decisi ritorni al passato sulle piste del l'atteggiamento trionfale clericale e della chiusura alla ricerca teologica.

Ben venga, quindi, nelle atmosfere mondane del giubileo di questi giorni la memoria di un altro giubileo, quello del 1600 che, invece d'insegnare come rimettere debiti o costruire giustizia e speranza per i poveri, attuando l'idea di giubileo biblico del libro del Levitico, bruciava eretici e dissidenti. Clemente VIII Aldobrandini, il papa regnante di allora, pensò, infatti, che il rogo di un eretico fosse il miglior modo di dare inizio all'anno giubilare. Tant'è…

Ben venga questo 17 febbraio a ricordare le strade della Pentecoste a chiese rinchiuse nei cenacoli o a progetti economici mondiali che vorrebbero serrare tutti dentro la logica violenta del mercato come nuovo dogma.

Giordano Bruno fu soltanto un uomo libero che voleva cercare, capire e avere anche la libertà di sbagliare e che desiderava avere in ogni modo diritto al rispetto di una propria idea senza essere perseguitato. In questo senso il 17 febbraio 2000 non è una ricorrenza ma è ancora una speranza per cui lottare insieme.

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ALLONTANAMENTO DI DON RAÚL VERA LÓPEZ
DALLA DIOCESI DI SAN CRISTÓBAL DE LAS CASAS

Siamo dei cristiani che stanno riflettendo, alla luce della fede, sulle prospettive del nuovo millennio. Come tali siamo particolarmente attenti alle sorti che il futuro riserva ai più poveri ed oppressi tra i nostri fratelli e le nostre sorelle, quali sono i popoli indigeni. Per questo seguiamo con viva attenzione la mobilitazione degl’indigeni del Chiapas, schierati in difesa dei loro diritti, ma allo stesso tempo dei diritti di tutti gli emarginati del Messico e del mondo. Per questo siamo particolarmente sensibili alla testimonianza di solidarietà cristiana con questi popoli che  la chiesa locale di San Cristóbal de Las Casas ed il suo vescovo Don Samuel Ruiz García offrono da quarant’anni ; testimonianza arricchita, in questi ultimi anni, dal contributo del vescovo coadiutore Don Raúl Vera López.

E’ giunta quindi come un fulmine a ciel sereno, per noi come per tanti cristiani e non cristiani di tutto il mondo, la notizia dell’allontanamento di Don Raúl dalla diocesi di San Cristóbal e del suo trasferimento alla diocesi di Saltillo. Secondo il comunicato uficiale diffuso dalla nunziatura apostolica del Messico, la decisione è stata presa dal Papa per ragioni "puramente ecclesiali", per "il bene spirituale dei fedeli". "dopo aver pregato ed aver proceduto alle consultazioni opportune". Non si precisa nel comunicato quali siano le "ragioni ecclesiali" che hanno indotto il Papa ed i suoi consiglieri ad ignorare totalmente il parere del vescovo uscente, degli agenti pastorali della diocesi, dei popoli indigeni della regione, in merito al "bene spirituale dei fedeli". Tutti, in effetti, avevano auspicato la conferma di Don Raúl alla diocesi di San Cristóbal come garante di continuità nella pastorale, in particolare nell’impegno coraggioso al fianco dei popoli indigeni.

Evidentemente su queste opinioni è prevalsa quella di alcuni potenti, esponenti della chiesa gerarchica e dello Stato repressivo messicano, ostili a questa continuità, preoccupati anzi per il profondo rinnovamento che la scelta di campo dalla parte degl’ indigeni sta suscitando nella chiesa locale e per i problemi che ne derivano nei rapporti fra stato e chiesa nel paese. Nel momento in cui più acuta è la tensione tra i popoli indigeni da un lato, i grandi capitalisti , lo stato e l’esercito messicano dall’altro, la gerarchia cattolica si schiera ancora una volta dalla parte dei potenti, indebolendo il più forte alleato dei popoli indigeni, la chiesa locale di San Cristóbal. Per quanti hanno seguito da vicino in questi anni, appassionatamente , la vicenda di questa chiesa, è evidente che la "promozione" di Don Raúl Vera alla diocesi di Saltillo è in realtà una punizione per il fatto che, nominato coadiutore con diritto di successione per rettificare l’orientamento pastorale della diocesi, ha creduto di dovere invece , obbedendo a Dio ed alla sua coscienza, appoggiare quell’orientamento, condividendone la responsabilità ed i rischi.

I due vescovi della diocesi, pur esprimendo disciplinatamente la loro obbedienza alla decisione del papa, non mancano di ricordare, in un comunicato congiunto, tutto ciò che avevano fatto per evitare tale decisione. "Noi vescovi, scrivono essi, consapevoli della gravità della situazione, abbiamo moltiplicato i tentativi di far conoscere alle diverse istanze della curia romana e allo stesso Santo Padre, soprattutto in tempi recenti, le implicazioni negative che deriverebbero da decisioni prese con serie lacune informative." I due vescovi non possono evidentemente parlare delle implicazioni negative che deriverebbero da scelte ecclesiali e politiche sbagliate; ma noi possiamo e dobbiamo farlo.

Dal canto loro, gli agenti pastorali della diocesi, pur facendo proprio l’atteggiamento di sottomissione dei vescovi, non mancano di rilevare quanto "dolorosa" e "sconcertante" sia per loro la decisione vaticana; la quale, affermano essi, "mette alla prova la nostra fede e il nostro senso ecclesiale."; anzi, "ci espone alla tentazione di sentirci abbandonati". Inoltre, il segretario del segretariato internazionale di solidarietà con l’America Latina. (SICSAL) parla del "dolore", della "frustrazione" e del senso di "oscurità" provocati da quella decisione.

Quanto a noi, vogliamo esprimere anzitutto la più profonda solidarietà ai nostri fratelli ed alle nostre sorelle della diocesi di San Cristóbal, e l’ ammirazione per la dignità con cui hanno accolto una decisione che rappresenta, a nostro parere, un " grave errore pastorale, dottrinale e di governo" da parte della Santa Sede. Ci sembra cioè che le accuse rivolte in altri tempi a Don Samuel Ruiz debbano essere rivolte con molto maggiore fondamento ai burocrati vaticani e messicani che le avevano formulate.

Noi consideriamo questo segnale lanciato dalla gerarchia cattolica alle soglie del terzo millennio e del giubileo 2000 come tremendamente negativo. Esso significa infatti che la chiesa non ha nessuna intenzione di rivedere i metodi autoritari e repressivi con cui ha soffocato lungo i secoli e particolarmente nel secolo XX, tante iniziative e tanta creatività del popolo di Dio. Significa che la contraddizione tra scelta dei poveri e obbedienza alla gerarchia ecclesiastica continuerà ad ostacolare l’impegno di tanti cristiani nel mondo ed a lacerare il tessuto della chiesa. Significa che l’autocritica della chiesa annunciata per il giubileo avrà forse come oggetto errori e colpe del passato, non invece errori e colpe di questo pontificato; e che comunque di errori e colpe del passato non verranno denunciate le cause, molte delle quali rimangono operanti nella chiesa di oggi. Quale credibilità potrà avere un’autocritica che ha come oggetto solo errori e colpe degli altri?

Se la chiesa cattolica intendeva con il giubileo riavvicinare persone e popoli al messaggio di Gesù, essa rischia invece, ostinandosi in questi metodi, di diventare un grave ostacolo alla riscoperta del messaggio. Questo riconoscimento, doloroso ma doveroso, degli errori e delle colpe della chiesa attuale, impone a noi, membri del popolo di Dio, di percorrere le vie di un giubileo penitenziale, che non si proponga l’esaltazione della chiesa di Roma, ma la riscoperta del messaggio liberatore di Gesù e della testimonianza dei suoi primi discepoli.

 

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-"il manifesto" del 08 Marzo 2000

    VATICANO

Il manto imbiancato del pentimento

ENZO MAZZI

Il pentimento e la richiesta di perdono espressi dalla gerarchia cattolica attuale per i misfatti compiuti in passato dai figli della Chiesa in nome di Dio e in difesa della verità, misfatti ritenuti capaci di deturpare obbiettivamente il volto della Chiesa stessa, sono un gesto apprezzabile e anche coraggioso, sebbene dovuto e in grave ritardo.

Ma il pentimento è molto rischioso se rimane solo e non è accompagnato dalla conversione. Pentirsi può essere un alibi per non convertirsi. Sono certamente buone intenzioni gli sforzi dei vertici della gerarchia cattolica per pulire la propria veste dal sangue versato. Ma sotto questo manto imbiancato e lucente covano nell'intimo della Chiesa-istituzione quasi intatti i germi mortiferi della violenza: l'assolutismo del potere monarchico del papa il quale è legge a se stesso e a nessun'altra legge umana è sottoposto, la capillarità planetaria della diramazione del potere gerarchico, la immensa ricchezza mai sazia che rende la Chiesa corresponsabile dell'impoverimento delle grandi maggioranze, la certezza che la gerarchia cattolica è depositaria infallibile sia della verità etica sulla natura sia della verità soprannaturale e quindi anche dei mezzi per la salvezza del mondo e di ogni singola persona. Non è credibile la gerarchia ecclesiastica se piange per la violenza inflitta nelle varie epoche agli eretici, alle streghe, ai dissidenti, alle culture e religioni diverse, ma continua a condannare chi cerca di riappropriarsi oggi e di attualizzare l'anima creativa delle vittime di tale violenza.

Quando diciamo "anima creativa" non intendiamo mitizzare l'eresia. Intendiamo piuttosto rilevare e valorizzare il carattere dinamico, positivo e costruttivo di tante e tante esperienze e idee, represse come eretiche, che si sono intrecciate o succedute in questi duemila anni, tese ad annunciare il tempo della liberazione. Quanta ricchezza umana, non solo in senso religioso ma anche laico, è stata perduta a causa dei roghi! Se non vediamo il fiume di sangue versato come un sentiero ininterrotto di riscatto non riusciamo a collocare in una linea di positività la quantità immensa di fatti e persone che hanno animato in particolare il millennio che muore. Restano fatti e persone staccati, isolati, povere vittime su cui piangere. No, gli eretici o le streghe bruciate, i "diversi" variamente repressi e annullati non sono episodi separati, fanno parte di un processo di liberazione e salvezza.

Non serve pentirsi di averli fatti soffrire, bisogna piuttosto recuperare e valorizzare i loro messaggi e idee, le loro esperienze e intuizioni. La gerarchia potrà anche fermarsi al solo pentimento. La Chiesa che è il Popolo di Dio vive già la sua conversione nelle tante esperienze di chiese attive in tutto il mondo, talune chiamate "comunità di base", esperienze povere, precarie, prive di visibilità e di appartenenza forte, creative, relativamente autonome rispetto alla ubbidienza gregaria, intrecciate con i "cantieri sociali" sparsi nel mondo, aperte a tutte le donne e uomini in cammino, capaci di profezia, radicate nel Vangelo e nelle fonti di etica dell'amore scaturite nella storia di tutte le culture.

 

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Solo retorica deludente   nomini i papi colpevoli

Kung: cerimonia vuota e barocca
La provocazione del teologo tedesco: in Vaticano ci vuole un Gorbaciov


dal nostro corrispondente ANDREA TARQUINI

BERLINO - "E' una deludente cerimonia pomposa e barocca. Nel suo confiteor deplora ma non chiama niente per nome". Così parla il professor Hans Kueng, teologo e docente a Tubinga, massima voce del pensiero critico nella cultura cattolica europea.
Professore, molti elogiano la presa di posizione come "Pietra miliare". E' d'accordo o no?
"Che per la prima volta da Alessandro VI un Papa pronunci una vera confessione di colpa è lodevole. Ma sarebbe una pietra miliare solo se non fosse pronunciata in modo così troppo generico e senza trarre conseguenze. Se per esempio si denuncia solo l'Inquisizione ma senza abrogarla, è come un pentimento senza riparazione. Anche secondo il Nuovo Catechismo Romano alla confessione deve seguire la riparazione, per esempio restaurare la buona fama dei calunniati".
Dunque è deluso?
"Sì. Come moltissimi cattolici. Da tre anni una commissione di teologi era al lavoro, l'aspettativa era enorme. Se avesse detto cose concrete avrebbe potuto essere un passo importantissimo come fu il riconoscimento dei peccati della Chiesa, da parte di papa Adriano VI il quale, ai tempi di Lutero, affermò chiaramente le responsabilità centrali del papato e della Curia. Ma questo confiteor che omette la colpa dei papi e della Curia romana è per molti cattolici una delusione immensa".
Cosa avrebbe dovuto dire con più chiarezza?
"Un confiteor retorico non parla al cuore e non può liberare la coscienza. Questo riconoscimento delle colpe è vago, nulla viene chiamato per nome: né lo scisma d'Oriente né la riforma, né gli eretici e i roghi delle streghe né l'Inquisizione, né, purtroppo, l'Olocausto. Né si parla delle grandi voci critiche".
Perché secondo Lei la Chiesa sceglie tale vaghezza?
"Sarebbe stato nell'interesse della Chiesa e del papa fornire un franco, chiaro riconoscimento delle colpe. Ma sullo sfondo c'è un'assunzione teologica errata: solo alcuni membri della Chiesa, solo figli e figlie della Chiesa avrebbero sbagliato. Non la Chiesa come istituzione, che resta santa e innocente. I papi erano i responsabili principali di scelte erronee".
Quali, per esempio?
"Urbano II lanciò la prima Crociata, Innocenzo III creò l'Inquisizione e scatenò guerre contro altri cristiani, Innocenzo IV legittimò la tortura, Innocenzo VIII giustificò il rogo per le streghe, Leo X promulgò la Bolla contro Lutero che giustifica il rogo per gli eretici, Gregorio XIII celebrò con un Te Deum la strage della notte di San Bartolomeo, Pio XII tacque sull'Olocausto ed epurò i teologi critici. Davvero sono solo "errori di alcuni"?".
Il Papa però deplora e denuncia i cristiani che tradirono il Vangelo, scelsero violenza e intolleranza...
"Giusto. Ma perché non si chiede se anche egli stesso ha fatto errori? Ad esempio con la predica "crescete e moltiplicatevi" davanti agli slum di Nairobi, con l'intransigenza contro la contraccezione, la direzione autoritaria e centralistica della Chiesa in spregio della collegialità affermata solennemente dal Concilio Vaticano II".
Il problema resta l'assunto dell'infallibilità papale?
"E' lo sfondo. E invece proprio alla luce di una simile Storia di colpe bisognerebbe riflettere sull'infallibilità di quelli che si mostrarono così fallibili".
Paul Spiegel, capo degli ebrei tedeschi, loda il papa ma deplora la mancanza di parole chiare sull'Olocausto. Che ne pensa?
"Sono d'accordo. Primo, perché l'Olocausto che fu il maggior crimine della Storia umana non viene nemmeno nominato a chiare lettere. Secondo perché non si parla del silenzio di Pio XII sull'Olocausto".
Cosa dovrebbe dire la Chiesa?
"Nulla giustifica quel silenzio sul piano diplomatico. E non è giusto sostenere che i nazisti sarebbero stati ancor più crudeli se il papa avesse parlato. Si sarebbe prodotto un effetto enorme se Pio XII avesse scomunicato i responsabili dell'Olocausto, alcuni dei quali erano cattolici: Hitler, Goebbels... Perché non li scomunicò?".
Per paura del comunismo?
"E' chiaro: Pio XII riteneva il comunismo un pericolo maggiore del nazismo. Ma neanche questo può giustificare il silenzio del Vaticano sui mostruosi crimini dei nazisti. E sullo sfondo si staglia l'antiebraismo ben chiaro in Pio XII. Dopo la guerra si guardò bene dal riconoscere lo Stato d'Israele".
Questa Chiesa è capace di superare l'antisemitismo?
"Sarebbe possibile se si prendesse sul serio la verità storica e si lasciasse parlare il cuore".
Il sistema della Curia è impossibile a riformabile come il comunismo sovietico?
"Molti lo pensano, io credo che invece riforme siano possibili. Ma solo con un papa che dall'inizio imprima alla Chiesa un altro corso. Da noi e in altri paesi vocazioni e partecipazione alla messa da noi sono crollati. E' un segnale d'allarme".
Fa pensare all'Urss tra il Rapporto di Krusciov al Ventesimo congresso e di dopo... ci vuole un Gorbaciov a San Pietro?
"L'esempio è fuorviante. Però è vero, il Vaticano ha bisogno urgente di un Gorbaciov che introduca glasnost e perestrojka nel pietrificato sistema vaticano. Si può solo sperare di trovarne uno tra i cardinali".

REPUBBLICA - 13 marzo 2000

  

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Il discorso della montagna del dialogo interreligioso

 

Quando entri in un dialogo intrareligioso, non pensare prima ciò che tu devi credere.

Quando tu dai testimonianza della tua fede non difendere te stesso o i tuoi interessi costituiti, per quanto ti possano apparire sacri. Fa come gli uccelli del cielo che cantano e volano e non difendono la loro musica e la loro bellezza.

Quando dialoghi con qualcuno, guarda il tuo interlocutore come una esperienza rivelativa, come tu guarderesti – o ti piacerebbe guardare – i gigli dei campi.

Quando intraprendi un dialogo intrareligioso cerca di rimuovere la trave dal tuo occhio, prima di rimuovere la pagliuzza dall’occhio del tuo vicino.

Beato te quando non ti senti autosufficiente mentre sei in dialogo.

Beato te quando credi all’altro perché tu credi in Me.

Beato te quando affronti incomprensioni da parte della tua comunità o di altri a causa della tua fedeltà alla verità.

Beato te quando non attenui le tue convinzioni e tuttavia non le presenti come assolute.

Guai a voi, teologi ed accademici, quando trascurate ciò che gli altri dicono perché lo considerate imbarazzante o non sufficientemente "scientifico".

Guai a voi, praticanti delle religioni, quando non ascoltate il grido dei piccoli.

Guai a voi autorità religiose, perché impedite il cambiamento e la (ri)conversione.

Guai a voi, gente religiosa, perché monopolizzate la religione e soffocate lo Spirito che soffia dove vuole e come vuole.

Raimundo Pannikar  teologo (Il dialogo intrareligioso, Cittadella Editrice)

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