Anche la fede ha
bisogno del dubbio
L’accusa più rilevante che può venire dal ragionamento filosofico e teologico è
quella del
relativismo. Difendendo la libertà incondizionata dell’opinione contraria alla
mia, affermo infatti
qualcosa di pericoloso: dico, in sostanza, che le più svariate e contrastanti
opinioni si equivalgono,
che non esiste la possibilità di una verità e convinzione morale
sufficientemente solide. Espongo
ambedue – verità e convinzione – ad attacchi periodici e logoranti.
La verità ha uno splendore che rischia di spegnersi, se messa in
competizione con altre che aspirano
a eguale splendore e per di più scintillano in maniere intensamente diverse.
È un’obiezione molto seria e ha molti alleati, non solo appartenenti alla sfera
religiosa. Grande è la
paura, sia nelle Chiese sia nella pólis laica, di vivere in un mondo – i
Dizionari dei Luoghi Comuni
sono monotoni lungo i secoli – senza punti di riferimento stabili, fissi.
Qui, in questa paura di
smarrirsi e cadere nel vuoto, senza reti di sicurezza che raccolgano l’acrobata
troppo audace, è il
filo sottile che lega le due obiezioni, quella democratica e quella
antirelativista: il timore di un
collasso dei princìpi-guida le affratella, e le spinge a spostare l’obiettivo
della ricerca da quel che è
vero a quel che viene ritenuto utile o nocivo per la società o l’individuo,
indistintamente. Nell’ottica
di chi è preso da simili paure non è conveniente che il punto di riferimento
stabile venga a mancare,
dentro l’animo del cittadino, anche se il punto di riferimento non è pienamente
dimostrabile e
neppure tanto veridico.
Accade in tal modo che l’individuo libero venga due volte
sopraffatto: come essere umano che
cerca il vero, e come essere umano che con proprie risorse e un proprio metro
tenta di far cose utili
a sé e agli altri. Tedium vitae, appassire della passione politica,
indifferenza s’insediano nella sua
mente. Il principio che dovrebbe servire a orientarsi diventa valore cui
urge conformarsi, ordine
dall’alto che azzittisce la coscienza invece di tenerla in stato di veglia: che
le addita, come vedremo
nel paragrafo sulla battaglia dei valori, la via da seguire. C’è, in
questo sovrapporsi dell’utile al
vero, una dose cospicua di anti-intellettualismo: non spacchiamo il capello in
quattro, col rischio di
perdere tempo in ricerche non necessariamente proficue e forse anche parecchio
dannose. Contro
queste scorciatoie intimidenti si erge Mill quando cita la definizione che
Thomas Carlyle dà
dell’anti-intellettualismo in epoca vittoriana: una passione triste che dilagava
in un’«età al tempo
stesso priva di fede e terrorizzata dallo scetticismo».
Quel che conta, per chi cerca il vero nel solo orizzonte dell’Utile o del
presunto Bene della Società,
è avere opinioni cui appoggiarsi come ci si appoggia a una salda roccia:
opinioni che agli esordi
hanno magari conosciuto il fervore immaginifico dei tempi fondatori, ma che con
l’andare del
tempo vengono adottate non per intima persuasione ma per fiducia o fede,
delegando ad altri il
compito di spaccare – se proprio vogliono buttarsi in questa spericolata
avventura di acrobati – il
capello in quattro. Per i tutori del Bene le opinioni valide sono quelle
in cui si crede, e che è dunque
pericoloso esporre oltremisura al contraddittorio, alla miscredenza e perfino
alla conversazione.
Ma il ragionamento non tiene: né dal punto di vista del vero,
e neppure se quel che si cerca è la
mera utilità. Se non viene confrontata con un parere altrettanto poderoso
e argomentato, nessuna
opinione morale o religiosa riesce a mantenere, alla lunga, la propria facoltà
di persuasione e
diffusione. Viene come prosciugata, svuotata, e quel che resta è un insieme di
formule aride: che
diventano insignificanti per i più, e che ineluttabilmente si fossilizzeranno in
dogmi. La ragione non
può che patirne, scrive Karl Popper in Conoscenza oggettiva: un punto di vista
evoluzionistico, nel
1972: «Ogni qualvolta una teoria ti sembra essere l’unica possibile, prendilo
come un segno che non
hai capito né la teoria né il problema che si intendeva risolvere».
Ma il vero precursore in materia resta John Stuart Mill, che già nel 1859
insorge contro
l’aspirazione all’infallibilità, quale che sia il pulpito da cui proviene.
Esclusa è solo la matematica:
chi sostiene che due più due fa cinque cade manifestamente in errore e l’errore
di questo tipo è, sì,
una verità difficilmente oppugnabile. Non sono invece verità inoppugnabili
quelle riguardanti la
morale, la politica, la religione, la società, e in particolare i privati stili
di vita (compreso il modo in
cui ci si prepara alla propria morte), su cui anche oggi, come ai tempi di Mill,
tanto si sorveglia e si
legifera. Qui vale solo la coscienza della fallibilità, e solo la
fallibilità consente di acquisire opinioni
magari non ultime, magari non valevoli per l’eternità, ma abbastanza tenaci
perché verificate
razionalmente e via via corrette in modo da divenire princìpi di orientamento
negli ambiti della
politica, della morale, del costume o della religione.
Mill ricorda come la stessa Chiesa cattolica romana, quando
decide di canonizzare un fedele
trapassato, intenti nei suoi confronti un processo (un processo di trial and
error, direbbe Popper, di
prova ed errore) e giunga persino a istituire la figura, contrapposta al
relatore, dell’avvocato del
diavolo e delle sue animadversiones. Anche se travestito da diavolo, il
pubblico ministero ha il
diritto di cercare ogni possibile falla nel discorso dominante – nel caso
specifico sulla santità
ipotetica del defunto – concentrandosi su ciascun dettaglio ed esplorando ogni
anfratto della sua vita
e delle sue opere che dovesse contraddire quella che viene congetturata come
giusta dottrina.
L’invenzione dell’advocatus diaboli conferma come il dubbio penetri fin
dentro il tabernacolo delle
fedi assolute. Penetra fin dentro la religione cattolica, che nel momento
decisivo non esita a
mostrare diffidenza verso le congetture considerate infallibili dai più e dalle
stesse massime
autorità. Che dà uno spazio ampio e ufficiale a chi potrebbe smontare
tali congetture, lasciandogli
indossare la veste diabolica dell’Avversario: per raggiungere il vero, le
argomentazioni giuste
occorre saggiarle, provarle nel crogiolo della tribolazione che è il
contraddittorio. Dio stesso
«saggia i cuori e le reni dell’uomo» (la formula è ricorrente nell’Antico
Testamento), prima di
forgiarne il destino o lasciare che sia l’uomo stesso a forgiarlo.
L’avversario è il nostro saggiatore, il nostro
verificatore, nel conflitto militare e ancor più nella disputa dialettica: è «la
forma che assume il nostro problema», scrive Carl Schmitt. È il pubblico
ministero che mette in causa quello che Giovanni Paolo II, nell’enciclica del
1993, chiamò Splendore della Verità. Anche quando l’intenzione è quella di
preservare un’unica consistente verità, la prudenza è d’obbligo e dello
scetticismo non c’è da avere terrore: se la verità viene fatta
propria senza un convincimento profondo, essa diventa una fede ereditata anziché
conquistata, che
s’impone con l’ortodossia e con l’uso del potere politico necessario a ogni
ortodossia. Occorre che
esistano almeno due ragioni contrastanti perché una verità possa apparire
superiore: nessuna può
esserlo in assoluto, e forse per ciò bisognerebbe rinunciare a questo aggettivo
troppo usato –
assoluto – sia quando si parla di una verità o di un bene, sia quando si
denuncia un male o una
contro-verità.
Barbara Spinelli La Stampa 17
settembre 2009