Allarme violenza. Donne all’inferno
Nel mondo 140 milioni di vittime. Da Occidente a
Oriente stupri e molestie senza confini. La famiglia continua a essere luogo di
orrori e umiliazioni: 50mila omicidi all’anno commessi da parenti stretti.
L’Italia maglia nera: in sette milioni hanno subito abusi. I racconti drammatici
delle afghane
Picchiate, terrorizzate, vendute, violentate, umiliate. Un mondo rosa segnato
dai più terribili crimini. Spesso impuniti, se non giustificati da codici
vergognosi e da società patriarcali che considerano la donna molto meno di un
oggetto. Dati agghiaccianti, testimonianze sconvolgenti, denunce argomentate:
sono il sale della Conferenza internazionale sulla violenza contro le donne
promossa dall’Italia come presidente di turno del G8 apertasi ieri alla
Farnesina. I dati, innanzitutto: ripresi nel suo intervento dalla ministra per
le Pari Opportunità Mara Carfagna. Centoquaranta milioni: sono le donne
vittime nel mondo di abusi fisici, psicologici e sessuali. Una violenza diffusa,
un terribile filo rosso-sangue che unisce Oriente a Occidente, democrazie
«evolute» a regimi teocratici e sessuofobici. E non è certo
l’istituzione-famiglia a far argine alla violenza contro le donne. È vero il
contrario.
Non solo cifre. Violenza e orrori si consumano nella maggior parte dei casi
tra le mura domestiche: 50mila donne sono uccise ogni anno da parenti
stretti, molti dei quali riescono a farla franca perché coperti da codici
retrivi, come quello sui «delitti d’onore» che vige ancora in decine di Paesi in
Africa, Asia, Medio Oriente.
Dietro ognuna delle 140 milioni di donne vittime di abusi e violenze, di stupri
domestici e di stupri di guerra, c’è un volto, una storia, spesso il
tentativo eroico, pagato con la morte, di ribellarsi ai propri aguzzini.
Il loro sacrificio ha generato ribellione, ha portato altre donne, in Africa, in
Asia, nella civilizzata Europa, a essere protagoniste di straordinarie battaglie
di libertà. Alcune di loro sono presenti a Roma. Presenti anche per quelle donne
che sono divenute il simbolo di una battaglia di civiltà e che hanno pagato per
questo un prezzo altissimo: con gli arresti domiciliari che si protraggono da
anni, la premio Nobel birmana Aung San Suu Kyi, o ancor peggio con la morte,
Neda Salehi Agha-Soltani, la studentessa iraniana uccisa dai miliziani, divenuta
il simbolo dell’«Onda verde» di Teheran. Il loro vissuto, la loro determinazione
sono una goccia di speranza. Una goccia in un mare putrido. Quello che
l’Organizzazione Mondiale della Sanità sintetizza in questo dato: almeno
una donna su cinque nel mondo è stata vittima di abusi fisici o sessuali; una su
quattro è stata maltrattata da un partner o ex partner; quasi tutte le donne
hanno subito una o più molestie di tipo sessuale: telefonate oscene,
esibizionismi, molestie sul lavoro. Statistiche della Banca Mondiale
segnalano che per le donne da i 15 ai 44 anni, il rischio di subire violenze
domestiche o stupri è maggiore del rischio di cancro, incidenti o malaria.
La famiglia è un luogo a rischio per le violenze
alle donne, ma il 93% degli abusi sessuali perpetrati dai partner (il 67%) non
sono denunciati. Si tratta di un fenomeno in crescita, come in crescita
è il numero delle spose bambine (8-14 anni): oggi sono oltre sessanta milioni.
Un universo di dolore e di rivolta che ha il volto, le parole, le lacrime di
Isoke Aikpitanyi, nigeriana, 30 anni. Alla platea della Conferenza di Roma,
Isoke racconta la drammatica esperienza del terribile viaggio dalla Nigeria, del
suo arrivo in Italia, delle violenze di cui è oggetto da parte di donne
connazionali (maman) e di uomini che la impongono sulla strada. «La prima
violenza che si subisce dice è proprio quella delle maman che trattano le
altre donne come serve. In Africa fra le donne c’è solidarietà, in Europa
diventano carnefici». Isoke parla delle violenze subite, della famiglia che «fa
finta di niente e che ci chiede soldi. Spesso si scappa da un inferno che non è
peggiore di quello che si trova. Ciò che pesa tanto è il giudizio pubblico, il
fatto che vedendoci sulle strade, magari mezze nude, si pensi che tutto ciò sia
voluto da noi». La storia di Isoke Aikpitanyi è a lieto fine. Nel 2003 incontra
un cliente che poi l’aiuterà a trovare il coraggio di scappare dai suoi aguzzini
e che diventerà suo marito. Ma per una storia a lieto fine ve ne sono mille
altre dall’esito opposto.
L’Italia alla sbarra. Di questo universo di violenza sopraffazione, abusi
contro le donne, l’Italia è parte integrante. Nel nostro Paese sette milioni di
donne hanno subito violenza fisica o sessuale nel corso della vita. Di
queste (dati Istat) 2 milioni e 938 mila hanno subito violenza dal partner o
dall’ex. Il rapporto dell’Istat sottolinea come «nella quasi totalità dei casi
le violenze non sono denunciate; il sommerso è elevatissimo e raggiunge circa il
93% delle violenze da un partner, ed inoltre, è consistente anche la quota di
donne che non parla con nessuno delle violenze subite (33,9% per quelle subite
dal partner)».
Storie personali s’intrecciano con la tragedia di un popolo. È il caso
dell’Afghanistan: «Le donne sono le vere vittime della guerra che da decenni
sconvolge il mio Paese e sono state discriminate sia sotto il governo dei
talebani che, precedentemente, dei mujahiddin». Due movimenti estremisti, che
«impedivano con la forza alle ragazze di frequentare le scuole», denuncia Nasima
Rahmani, coordinatrice del programma ActionAid per i diritti delle donne in
Afghani-
stan. «Io stessa racconta non ho potuto studiare fino all’età di nove anni e ho
impiegato ben 13 anni per potermi laureare in legge perché i talebani ci
obbligavano a rimanere in casa». Con la caduta del regime del mullah Omar,
aggiunge Nasima, «l’accesso all’istruzione è diventato più facile, anche se
ancora oggi meno di un terzo degli iscritti a scuola in Afghanistan è donna». La
violenza contro le donne è anche questo: negar loro il diritto all’istruzione. A
ricordarlo è anche la yemenita Shada Nasser, l’avvocata che ha difeso le «spose
bambine» nelle cause di divorzio: il problema dello Yemen, dice, «è la povertà e
l’analfabetismo. Rivendicazioni di libertà che cominciano a far breccia anche
nelle realtà più chiuse. Samar Al Mogren, giornalista dell’Arabia Saudita,
sottolinea che nonostante nel suo Paese il percorso per l’emancipazione sia
partito tardi ora sta andando avanti in modo spedito. Lì le donne non possono
ancora guidare l’auto e per recarsi all’estero hanno bisogno del permesso
scritto del marito (come è capitato a lei) ma, ad esempio, sul fronte
dell’informazione, rileva, «si iniziano a vedere spiragli interessanti». «La
violenza contro le donne è un fenomeno trasversale a tutti i Paesi e a tutte le
classi sociali» sostiene con decisione Mufuliat Fijabi, rappresentante dell’Ong
nigeriana Baobab. «Ci sono violenze in presenza di tutte le religioni, in tutto
il mondo – le fa eco Sayran Ates, avvocata turca che vive in Germania dove
ricopre incarichi direttivi nella Conferenza islamica tedesca. Il problema viene
dal fondamentalismo. L’Islam ha bisogno di una rivoluzione sessuale. Bisogna
dare alle donne i propri diritti e parlare di sessualità, libera e non
discriminata».