Allarme siam razzisti: paura e viltà

Lettera aperta di un antropologo a un bambino rom: perché tanti italiani, a lungo stranieri nel mondo, respingono l'altro

 Anticipiamo qui alcuni passi dal capitolo finale del libro di Marco Aime La macchia della razza in uscita da Ponte alle Grazie (pp. 96, euro 8): in forma di lettera aperta a un bambino rom, uno di quelli cui si vogliono prendere le impronte digitali, spiega come e perché si è diffuso nella nostra società il pregiudizio contro gli stranieri. Di Aime, docente di antropologia culturale all’Università di Genova, è in libreria anche «Il diverso come icona del male», un dialogo con Emanuele Severino (Bollati Boringhieri, pp. 53, euro 8).



La solitudine fa crescere la paura, Dragan, e ci inventiamo un nemico comune per credere di essere uniti e solidali. In realtà siamo solo capaci di un individualismo collettivo. Più ci sentiamo soli e più ci aggrappiamo a idee astratte e vaghe come identità, altra parola divenuta buona per nascondere tutte le avarizie, tutti gli egoismi. L’identità la pensiamo, ma poi non la pratichiamo. La impugniamo come un bastone contro gli altri, ma non la frequentiamo nemmeno con quelli come noi. Identità significa pensarsi uguali a qualcun altro. Ma facciamo di tutto per essere diversi gli uni dagli altri.

Anche identità è una parola ambigua, non ha plurale, si presenta come portatrice di un’idea solitaria. Eppure il plurale ce l’ha: abbiamo un’identità di genere, religiosa, politica, di fede calcistica... siamo portatori multipli di identità. Ne possediamo un mazzo e giochiamo di volta in volta quella che scegliamo o che ci è concessa. Però oggi, quando pronunciamo la parola identità, pensiamo subito a quella etnica. Oggi, identità significa terra e sangue.

Siamo diventati «tribali», ci siamo stretti attorno al totem della nostra cultura, pronti a difenderlo. In realtà vogliamo difendere i nostri soldi, la nostra abitudine, non la nostra cultura. Non sapevamo nemmeno di averla, non lo sappiamo nemmeno ora. Ce lo dicono. Lo fanno per farci credere che abbiamo qualcosa da perdere e che solo loro possono difenderci. Il sapere, la cultura sono le uniche ricchezze che possiamo condividere, senza che ci vengano meno, Dragan. «Se tu hai una mela, e io ho una mela, e ci scambiamo le mele, avremo sempre una mela ciascuno. Ma se tu hai un’idea e io ho un’idea, e ci scambiamo le idee, allora avremo entrambi due idee» ha detto George Bernard Shaw.

Abbiamo preferito tenerci ognuno la nostra idea e siamo diventati sempre più soli. E più poveri, di idee e nel linguaggio. Non riusciamo più a guardare lontano, che è ciò che ha fatto umani gli esseri umani. Animali stanziali nel pensiero, ecco cosa siamo oggi. Usiamo poche parole, sempre le stesse, perché abbiamo poco da dire, ripetiamo sempre le stesse cose. Aprirsi all’altro è il motore della cultura. La diversità offre nuove scelte, arricchisce il nostro mondo, arricchisce noi, fa entrare aria nuova. Ma abbiamo preferito chiudere le paratie e respirare l’aria stagnante della purezza. Piccolo non sempre è bello, se non sai cosa c’è fuori. Se non respiri ossigeno nuovo, che fertilizzi il tuo campicello. E’ sempre stato così, Dragan, gli uomini si sono scambiati merci e idee. Anche colpi di spada e di fucile, sì, è vero. Si incontravano e si scontravano. Nessuno è stato fermo, ancorato alle sue radici.

Quanta differenza possiamo sopportare? Non troppa, lo so, non troppa, ma molto più di quanto crediamo. E lo facciamo, tutti i giorni, ma non ce ne rendiamo conto. Sai, Dragan, cosa c’era scritto su un manifesto tedesco degli Anni Novanta? «Il tuo Cristo è ebreo. La tua macchina è giapponese. La tua pizza è italiana. La tua democrazia greca. Il tuo caffè brasiliano. La tua vacanza turca. I tuoi numeri arabi. Il tuo alfabeto latino. Solo il tuo vicino è uno straniero».

Sopportiamo tutta la differenza del mondo, se ci fa comodo, e nemmeno ce ne accorgiamo. Consumiamo cibi stranieri, usiamo oggetti di tutto il mondo, ma difendiamo la nostra terra, le nostre radici, la nostra tradizione, la nostra identità.

Fa paura, questo troppo parlare di identità, questo negare la natura multiforme delle nostre culture, delle nostre esistenze. Italianità, popoli padani... si sentono voci alle nostre spalle, Dragan, appena accennate, ma si fanno via via più forti. E’ una leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici, dice una. Cancelliamo il passato, neghiamo di avere preso e dato cultura, come tutti i popoli.

«Dobbiamo difendere la nostra cultura» dicono e le voci, le voci, Dragan... I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo.

Diciamo cultura, ma pensiamo razza. [...]

Sai, Dragan, anch’io avevo pensato, che certi atteggiamenti non fossero per forza razzisti. E lo penso ancora. Molte volte non è un problema di razza, ma di gente che lotta per le stesse, poche, scarse risorse. Odi l’altro non perché è altro, ma perché è o credi che sia contro di te. Accade spesso tra chi ha paura e può persino essere comprensibile. Ma ora non è così. Ora c’é anche odio fine a se stesso, c’è un bullismo razziale ignorante e senza alcuno scopo se non di riempire il vuoto emotivo di certa gente e le urne di schede per certi politici fomentatori. Il razzismo è una malattia sottile, scava nei cuori della gente, cancella pezzi di memoria, deforma lo sguardo.

Non è il razzista che mi spaventa, Dragan, sono gli altri a fare paura. Tutti quelli che sanno, che vedono e tacciono. I complici silenziosi. Guardano il tuo dito sporco di nero e... Nulla. Qualcuno tace, pensando che in fondo te lo meriti, ma non ha il coraggio di dirlo apertamente. Zingaro, ladro, in fondo cosa vuoi da noi? Altri pensano che sia sbagliato, ma tacciono anche loro. Perché complicarsi la vita? E poi, cosa ci posso fare io? [...]

Quando eravamo bambini, si faceva un gioco: se tu fossi il capo del mondo cosa faresti? E tu dovevi dire cova avresti voluto fare. Cosa farei ora? Sicuramente prenderei una spugnetta e ti pulirei il ditino, Dragan. E poi? Vorrei chiederti scusa, spiegarti che non siamo tutti così, ma servirebbe? E a chi? A te? No, cosa te ne fai delle mie scuse. Lo sai benissimo che non posso fare promesse a nome di altri. A me? Nemmeno, non mi sentirei migliore. Meglio tenersi ognuno ciò che prova, tu la tua rabbia e io la mia vergogna. Sono più sane di mille ipocrisie.

 

Marco Aime      La Stampa 23.5.09