Alla sorgente nascosta della politica papale

I primi mesi del 2009 hanno messo in piena luce una crisi. Quella del pontificato di Benedetto XVI.
Non se ne possono ancora misurare le conseguenze, ma i sondaggi realizzati in Francia sulle
eventuali “dimissioni” del papa sono incontestabilmente il segno di una desacralizzazione in corso
della funzione papale, e questo in una misura mai conosciuta dai suoi predecessori, da Leone XIII
nel XIX secolo fino a Giovanni Paolo II.
Sia all'interno della Curia romana che all'esterno, ci si interroga per sapere se un intellettuale come
Joseph Ratzinger abbia la tempra di uomo di Stato. Ma è piuttosto nel sistema di pensiero
dell'attuale papa che bisogna cercare le radici di questo vicolo cieco.
Dato che, dopo tutto, non c'è
differenza di linea tra lui e Giovanni Paolo II su aborto, contraccezione, matrimonio, biogenetica,
omosessualità.
Ciò che si è rafforzato con Benedetto XVI è il carattere dottrinario del papato. Ricevendo, nel
marzo 2006, i parlamentari del Partito popolare europeo (PPE), il papa li ha invitati alla difesa attiva
di “principi non negoziabili”, principi “inscritti nella natura umana stessa, e di conseguenza
comuni a tutta l'umanità”. Che si tratti del no ai contraccettivi e al preservativo, del rifiuto della
legalizzazione dell'aborto, del veto messo alle coppie omosessuali o della proibizione della ricerca
sulle cellule staminali, Benedetto XVI è convinto che le leggi che reggono la società contemporanea
devono essere subordinate alla legge naturale che solo la Chiesa rappresenta. “Nessuna legge fatta
dagli uomini può sovvertire la norma scritta dal Creatore”, ama ripetere.
Sul piano teorico, il papa sottolinea spesso che la Chiesa non intende essere protagonista della vita
pubblica, che l'azione politica resta di competenza dei cattolici in quanto cittadini e si esercita sotto
la loro totale responsabilità. Ma che cosa resta di questa autonomia quando l'autorità ecclesiastica
determina lei stessa i principi supremi di tale legge naturale che si intende debbano valere per
l'umanità intera?

Perfino la ragione finisce per essere sottoposta al potere spirituale. “La fede cristiana, sostiene il
papa, purifica la ragione e la aiuta ad essere più consapevole di se stessa.” Perfino la laicità sarà
misurata secondo i criteri del papa. Una “sana” laicità, spiega il sovrano pontefice, è quella di uno
Stato che, nella sua legislazione, dà spazio ad una dimensione particolare: la Trascendenza.
Da tutti
questi interventi deriva l'immagine di un papato che impugna tutti gli scettri allo stesso tempo. Lo
scettro della fede, lo scettro della ragione, lo scettro della natura. La conseguenza politica: un
approccio neoteocratico – che, tuttavia, Benedetto XVI, in quanto filosofo, rifiuterebbe.
Questo approccio finisce per sminuire la portata della grande domanda che Benedetto XVI – il
teologo – ha posto ai cristiani in questo inizio del terzo millennio: quale posto per Dio nella società
occidentale contemporanea? Poiché, nonostante il revival religioso degli ultimi due decenni, il
processo di secolarizzazione è irreversibile.

Gli occidentali non ritmano più la loro esistenza in funzione di un calendario divino. Dio non è
morto, ma – per chi crede – bisogna riattualizzarlo ad ogni generazione attraverso nuove forme di
testimonianza. Certe persone che conoscono bene il modo di pensare di Benedetto XVI sostengono
che il suo pontificato si articola attorno ad un concetto: “Difendere l'integrità della fede e mostrare
che il cristianesimo è gioia.” Condurre a buon fine questa missione è un compito di ampio respiro.
Il cardinal Ratzinger aveva detto dialogando con il filosofo tedesco Jürgen Habermas, a Monaco di
Baviera (Germania) nel 2004, che la società moderna dovrebbe capovolgere il motto del filosofo
olandese Hugo Grotius (1583-1645) secondo il quale bisognava agire “etsi Deus non daretur”
(“come se Dio non esistesse”). Ciò poteva valere, sosteneva Ratzinger, in tempi in cui gli europei,
compresi i liberi pensatori, vivevano sulla base di un patrimonio di idee alimentato dalla cultura
cristiana. Nell'attuale disgregazione dei valori, afferma Benedetto XVI, l'obiettivo dovrebbe essere
vivere “veluti Deus daretur” (“come se Dio esistesse”).
La massima racchiude la seduzione di una fine provocazione filosofica e tuttavia, applicata alla
società pluralista europea, porta fatalmente ad un vicolo cieco. A quale divinità si chiede di fare
riferimento? Al Dio cristiano nella sua accezione protestante oppure cattolica, ortodossa o neoevangelica?
Al Dio degli ebrei? dei musulmani? Al non-Dio del buddismo? E come potrebbe un
agnostico essere costretto a riconoscere una Trascendenza nella quale non crede?
È sorprendente constatare fino a che punto la linea seguita da Benedetto XVI attinga alle riflessioni
del grande poeta romantico Novalis (1772-1801), suo compatriota. Dopo gli sconvolgimenti che
accompagnarono la Rivoluzione francese, Novalis considerò che fosse essenziale aggrapparsi ai
solidi rami rappresentati dalla Chiesa cattolica. Il poeta temeva il diffondersi negli anni successivi
alla Rivoluzione un “odio antireligioso”. Secondo lui, i suoi contemporanei erano occupati a “far
scomparire ogni traccia di sacro”, a sostituire il sapere alla fede, e l'avere all'amore.
“Là dove non ci sono dei, regnano gli spettri”, esclamava Novalis. Allo stesso modo, Ratzinger,
dopo il sisma della secolarizzazione e il trauma dei totalitarismi del XX secolo, non vede altra
salvezza per l'Occidente che il ritorno alle sorgenti cristiane.
In fondo, ma il papa non lo può dire, la
sua proposta sarebbe piuttosto di “vivere come se il Dio dei cattolici esistesse”, conformandosi alla
legge così come la enuncia la Chiesa apostolica romana, sicura interprete di Dio, della Ragione e
della Natura. Ora, è proprio ciò che da due secoli è diventato impossibile in Europa! Perseverare su
questa linea, significa trascinare la Chiesa sulla via di uno scontro con la società e con gli stessi
cattolici.

Marco Politi     in “Le Monde” dell'11 aprile 2009