Al di fuori della «funzione dio»
Fintantoché si proclama come fonte di «verità divina» un
libro con 50mila varianti testuali, ci meritiamo le situazioni che abbiamo -
Arno Schmidt
Secondo Régis Debray, versione francese dei nostri atei devoti, gli dei possono
nascere e morire, ma la religione è indispensabile per la coesione sociale. Da
Jacques Bouveresse a Arno Schmidt, un sentiero di lettura sulle basi non
negoziabili di una democrazia laica, fuori dalle presunte leggi di natura
A seguire i dibattiti di questi ultimi anni, si ha
l'impressione che il XXI secolo sia stato inaugurato, tra le altre sventure,
all'insegna di un «ritorno del religioso», soprattutto in quell'Europa che aveva
avviato (sembrava) un irreversibile processo di secolarizzazione. Da una
prospettiva esclusivamente italiana, si potrebbe avere l'impressione non tanto
di una svolta ma di una continuità, caratterizzata semmai da una crescente
invadenza mediatica della Chiesa intorno a temi di carattere politico. A porre
il problema da noi, non sarebbe dunque un imprevisto rafforzamento delle
credenze religiose nelle giovani e meno giovani generazioni, ma un infittirsi di
argomenti teologici nello spazio pubblico di discussione.
L'ingerenza del clero
Nulla di nuovo, insomma, se non la constatazione di un vecchio guasto italiano,
oggi semplicemente aggravato: la latitanza di una diffusa e radicata cultura
laicista. A tal punto latitante, notava Carlo Augusto Viano in Laici in
ginocchio (Laterza 2006), da bandire il termine «laicista» a favore di «laico».
Con quest'ultima parola, ricorda però Viano, «si indica una condizione, che
tutti identificano nel medesimo modo, mentre con "laicista" si designa la
disposizione di chi approva la separazione della sfera politica da quella
religiosa e pretende che il potere politico protegga i cittadini dall'ingerenza
del clero, che non dovrebbe disporre di poteri coercitivi, né diretti né
indiretti».
Se si getta un occhio alla Francia, il laicismo è sinonimo di laïcité almeno
dalla legge del 1905 sulla separazione delle Chiese e dello Stato. Ma anche la
repubblica francese è oggi in qualche modo coinvolta dal «ritorno del
religioso». Si tratta di un fenomeno meno direttamente politico, che attraversa
però il dibattito intellettuale e influisce sull'opinione pubblica. Un grande
esperto di questa faccenda è Régis Debray, ex comunista e mediologo, dalla
fisionomia intellettuale ambigua, che richiama quella dei nostri atei devoti.
Nel passaggio al nuovo secolo, soprattutto, Debray si è fatto prolifico in
analisi del fenomeno religioso e in reprimende contro i danni dell'illuminismo.
Il nocciolo della sua dottrina è però abbastanza semplice: gli dèi possono
nascere e morire, ma la «funzione dio» è indispensabile dal punto di vista della
coesione sociale, dunque immortale.
Una tradizione secolare
La problematica del laicismo, tipicamente italiana, e quella della «funzione
dio», che si affaccia ora in Francia e in altri paesi occidentali, sono in
realtà strettamente intrecciate, e per nulla nuove. Un classico del pensiero del
primo novecento, come L'avvenire di un'illusione di Sigmund Freud, apparso nel
1927, ce ne fornisce un esempio chiarificatore. In questo testo si incontrano
tre filoni di pensiero distinti: il primo viene dal passato, dalla denuncia
illuministica contro «l'impostura dei preti»; il secondo è specifico
dell'attività di Freud, in quanto psicologo in senso ampio, e possiamo definirlo
«ateismo scientifico»; il terzo è quello che ha caratteri pedagogici e risvolti
politici, e si proietta nel futuro ipotizzando una società compiutamente
laicista. Questi tre elementi li ritroviamo grosso modo anche oggi, in tutte
quelle forme di reazione intellettuale ai nuovi paladini della fede e
dell'inevitabilità della religione. Sono il lascito di una tradizione che nel
corso di oltre due secoli è passata dalla critica morale e politica
dell'istituzione religiosa all'analisi filosofica e scientifica del concetto di
dio e della funzione sociale della religione.
Al culmine di questo percorso abbiamo non tanto una scelta individuale (credere
o meno), ma un'appartenenza culturale (riconoscersi o meno in una certa
tradizione o famiglia intellettuale). La credenza in dio, o i dubbi su di essa,
sono fin dal Vangelo («Mio Dio perché mi hai abbandonato?») un dilemma tipico di
chi già crede. Il non credente o ateo si pone semmai un problema di saperi: con
quale strumentazione intellettuale illumino il fenomeno religioso? È il problema
di Freud nell'Avvenire di un'illusione, e in generale di ogni ateismo
scientifico. Non si tratta di annientare dio o la religione, ma di rovesciare la
gerarchia dei valori: analizzare le rappresentazioni religiose sulla base di una
realtà esclusivamente umana - in questo caso, la psiche. Ci si potrebbe
chiedere, a questo punto, perché mai una tale prospettiva si sia così spesso
intrecciata, nel Novecento, con un atteggiamento invece «militante», tanto in
senso anticlericale quanto antireligioso.
Una prima risposta ci potrebbe venire dal pamphlet sulfureo di Arno Schmidt
Ateo?: Altroché! apparso nel 2007 per la Ipermedium libri a cura di Dario Borso
e Domenico Pinto. Il testo di Schmidt appare per la prima volta nel 1957, in un
volume curato da Karlheinz Deschner che raccoglieva i contributi di diciotto
scrittori a partire dalla domanda «Lei cosa pensa del Cristianesimo?». Schmidt
non solo ha il physique du rôle per interpretare l'ateo, ma anche per
interpretarlo alle alte temperature richieste dal genere prescelto. Erede dei
grandi maestri dell'irriverenza, da Rabelais e Swift a Karl Kraus e Joyce, egli
coniuga nel suo scritto indignazione, collera, derisione con l'acume
dell'intelligenza e la nettezza dell'idea.
In soli tredici paragrafi, non risparmia sferzate alla Bibbia, alla personalità
di Cristo, e agli effetti del cristianesimo sulla tre sfere umane del buono, del
vero e del bello. Ogni frase è un gioiello d'arguzia e impertinenza:
«Fintantoché si proclama come fonte purissima di "verità divina", come norma
sacra della "perfettissima morale!", come pilastro di religioni di Stato un
libro con, a star bassi, 50.000 varianti testuali (dunque in media 30 luoghi
controversi a pagina!) (...) fino ad allora ci meritiamo i regimi e le
situazioni che abbiamo!». E l'autore sa di cosa sta parlando: innanzitutto del
«regime» di Adenauer, che all'insegna di un'alleanza tra Stato e Chiesa
cattolica, impone al paese un moralismo gretto, di cui Schmidt è già stato
vittima. Nel 1955 gli è stato intentato un processo per blasfemia e pornografia,
per via del racconto Seelandschaft mit Pocahontas (Paesaggio lacustre con
Pocahontas) e nel 1956 il suo romanzo di satira politica sulle due Germanie, Das
steinerne Herz (Il cuore di pietra), esce per l'editore Stahlberg Verlag con
tagli preventivi «approvati» dall'autore, per evitare censure e denunce. Vi è,
insomma, una legge di proporzionalità diretta tra il tasso di influenza
ecclesiastica nella politica di un paese, e il tasso di anticlericalismo
espresso da scrittori e intellettuali non credenti di quello stesso paese.
Di tutt'altro tono è il libro di Jacques Bouveresse Peut-on ne pas croire? Sur
la verité, la croyance & la foi («Possiamo non credere? Sulla verità, le
credenza e la fede») uscito in Francia nel 2007 per Agone. Bouveresse è un
filosofo noto per essere uno dei maggiori studiosi francesi di Wittgenstein,
oltre che ottimo interlocutore della filosofia analitica anglosassone e studioso
del crocevia viennese del primo Novecento (da Freud a Musil e Kraus).
Il suo saggio svolge un'ampia disamina concettuale sullo statuto delle credenze
alla luce della filosofia e dell'epistemologia degli ultimi due secoli. E ciò
che subito stigmatizza è l'uso quasi sempre improprio di termini quali «sacro»,
«religioso», «fede», che acquistano oggi un'estensione semantica talmente ampia
e sfumata, da perdere quasi di senso.
Fondamenti non contrattuali
A un esame approfondito, più che di un rinnovato senso religioso, con relativa
adesione a pratiche confessionali specifiche, ci troviamo di fronte a una
nostalgia di credenze. L'esperienza religiosa è sempre più soft o, come direbbe
Bauman, «liquida», individualizzata, ma quello che si rimpiange è tutt'altro: un
legame forte, una sorta di collante sociale incrollabile, sul tipo di quello che
Debray sembra invidiare agli Stati Uniti di Bush. Bouveresse dubita che una
miscela di fervore religioso, nazionalismo ottuso e di cinismo politico sia la
ricetta adatta per trarre fuori l'Europa dallo smarrimento in cui sembra
trovarsi.
E tocca qui il nodo della questione, che possiamo formulare in questi termini:
una forma di «religione civile», all'interno di democrazie individualistiche
come le nostre, è indispensabile? E se lo è, quale sarebbe la sua forma più
adeguata? Tema già freudiano, ma anche di Durkheim, e tipico dell'ateismo
scientifico più consapevole. Affinché in una democrazia laica, ogni individuo
possa partecipare in modo autonomo ai dibattiti di interesse pubblico, è
necessario che vi sia un terreno condiviso che non ha carattere «contrattuale» o
«negoziabile». Tale terreno costituisce quella che Debray chiama «funzione dio»,
che però l'ateismo scientifico ha pensato al di fuori di ogni riferimento sia a
verità teologiche sia a presunte leggi di natura.
Il problema dei fondamenti non negoziabili della democrazia individualistica
emerge anche nei passaggi cruciali di Atei o credenti? Filosofia, politica,
etica, scienza che raccoglie un dialogo a tre voci di Paolo Flores d'Arcais,
Gianni Vattimo e Michel Onfray (Fazi 2007). Il titolo rinvia a una falsa
alternativa, in quanto sembrerebbe mettere faccia a faccia un filosofo ateo e un
teologo, ad esempio. Cosa che non sarebbe priva d'interesse, ma non è questo il
caso.
Il principio del libero esame
Vattimo, nel ruolo di credente, ha già concesso ai due atei tutto quanto questi
potrebbero sperare: ossia la credenza religiosa individuale deve sottrarsi a
ogni monopolio dottrinario da parte della Chiesa istituzionale. D'altra parte, è
proprio Vattimo che coglie i limiti del razionalismo nell'accezione rigidamente
individualista difesa da d'Arcais. Certi nostalgici della religione pongono oggi
una domanda cruciale: che cosa, nella nostra democrazia, non può avere natura
contrattuale?
Se a questa domanda rispondono Chiese e religioni, siamo già al di fuori della
democrazia. La risposta di Bouveresse, sulla scorta di Durkheim, è il principio
del «libero esame» di ogni verità, inteso non come un dato naturale della
ragione, ma come un atteggiamento da sviluppare, trasmettere e salvaguardare
come valore indiscutibile. Su questo punto, che tocca poi la preoccupazione
laicista fondamentale - l'istruzione dello stato - convergono alla fine anche i
tre autori di Atei o credenti?
Andrea Inglese Il manifesto 14/2/08