Addio consumismo,
riscopriamo le cose
Tutto cominciò, credo, verso l'inizio degli anni cinquanta. Allora, un noto
specialista americano in
pubblicità venne incaricato di studiare il comportamento delle massaie nei nuovi
supermarket. In un
angolo, nascose una macchina da presa che avrebbe registrato i movimenti delle
palpebre delle
massaie mentre si aggiravano tra i reparti. Dal ritmo dei battiti egli poteva
desumere la tensione
interna di ognuna di loro: tenendo conto che la media si aggira attorno ai
trentadue battiti al minuto.
Quando una massaia metteva piede nel supermarket, veniva inquadrata
dall'obbiettivo, che la
seguiva passo dopo passo. Il numero dei battiti scendeva rapidissimamente, fino
a raggiungere la
media di quattordici al minuto: una media subumana, come quella dei pesci; tutte
le signore
precipitavano in una forma di trance ipnoide. Molte erano così ipnotizzate, che
a volte incontravano
vecchi amici e conoscenti senza riconoscerli e salutarli. Alcune procedevano con
gli occhi sbarrati.
Altre si aggiravano tra i banchi come automi, pescando a caso dagli scaffali, o
inciampando negli
ostacoli senza vederli: spesso non scorgevano la macchina da presa, sebbene
fosse a mezzo metro.
Quando avevano riempito il carrello, si avviavano verso la cassa. In quel
momento, il numero dei
battiti cominciava a risalire. Appena trillava il campanello del registratore e
la voce del cassiere
chiedeva il denaro, il ritmo delle palpebre raggiungeva, all'improvviso, i
quarantacinque battiti al
minuto.
In questi quasi sessant'anni gli americani e gli europei hanno vissuto in una
condizione di trance
ipnoide, come le massaie del 1952.
Abbiamo consumato, sempre più velocemente, sempre più istericamente, senza
che nessuna
necessità ci costringesse a comprare. Conosco un bambino di otto anni:
ama piantare sul terrazzo di
casa i peperoni e i pomodori e vederli crescere: ma, a Natale, padre, madre,
nonni, nonne, zii, cugini
e cugine gli regalano trenini elettrici, automobili modernissime, aerei
teleguidati, animali mostruosi,
che il bambino guarda con disgusto per qualche minuto e poi butta via. Non vedo
perché uomini
adulti debbano possedere otto telefonini, quaranta paia di scarpe, tre macchine
velocissime, due
televisori portatili, uno yacht con i rubinetti d'oro: né perché da qualche anno
le contadine toscane
comprino due cucine complete, una delle quali serve da salotto: né perché
cinquanta milioni di
persone visitino le Gallerie Vaticane o l'Ermitage, senza capire niente di
quello che intravedono nel
delirio; né perché, dopo sei mesi, una ricca signora milanese cambi il suo
frigorifero bianco con un
frigorifero rosa.
Negli ultimi anni, il cosiddetto consumismo ha fatto crescere rapidamente
l'imbecillità degli italiani.
Un mio amico, che per molti mesi insegna Dante, Chaucer, Pindaro e Virgilio in
un'università
americana, è ritornato ieri a Roma. Mi ha detto che, in soli quattro mesi, la
sciocchezza italiana è
aumentata del trenta per cento, almeno nelle persone che occupano ruoli pubblici
e appaiono in
televisione. Quando li ha lasciati, erano individui quasi normali; dicevano
sciocchezze pressappoco
come le diciamo lui ed io. Ora aprono la bocca solo per pronunciare grandiose
idiozie: ciò è
divertentissimo per lui e per me, ma meno utile per il funzionamento dello
stato.
Mi ha ricordato due casi, che mi erano sfuggiti. Gli studenti dell'Onda, cioè il
cuore e il fiore del
nostro futuro, hanno appena preparato un piano sull'università: dove sostengono
che l'elemento
decisivo per la sua e la nostra salvezza è che gli studenti possano andare
gratis al cinema. Lella e
Fausto Bertinotti hanno assistito al trionfo di Vladimir Luxuria, già
deputato-deputata di
Rifondazione comunista, in una trasmissione fondamentalissima come L'isola
dei famosi. Marito e
moglie si sono commossi e hanno pianto, lasciando una piccola pozza salata di
lacrime sul tappeto
persiano. "Luxuria ? ha detto Lella Bertinotti al marito ? è una personalità di
grande spessore. Si è
messa alla prova ed ha vinto. Non ha sbagliato una risposta. Se l'è meritata,
una affermazione così.
Potrebbe essere il nostro Obama".
* * *
Non so nulla di economia; e mi conforto leggendo su Il Sole. Ventiquattro ore un
intelligente
articolo di Roberto Perotti, dove sostiene che quasi tutti gli economisti
italiani ed europei
ignoravano le tecniche finanziarie diffuse negli Stati Uniti. E non sono un
profeta. Non saprei
nemmeno lontanamente prevedere se le misure dei governi modereranno la
recessione di questi
mesi. O se, invece, piomberemo in una crisi peggiore di quella del 1929.
Credo che la crisi americana distruggerà due modi di pensare diffusissimi. In
primo luogo, la fede
nel progresso ininterrotto. Per quasi quarant'anni, banchieri, industriali,
politici, economisti, saggisti
di terz'ordine hanno immaginato che la storia moderna sia dominata dal progresso
ininterrotto,
come un jet che sfonda l'infinito. Ogni anno il Prodotto Interno Lordo
aumentava, la scienza faceva
scoperte, la fratellanza universale cresceva, l'intelligenza si liberava dal
peso dell'empio passato, e i
banchieri giocavano con la carta, dove qualcuno aveva scritto cifre irreali,
come in una partita di
Monopoli. Un noto scrittore italiano ha detto: "Noi, genitori progressisti"; una
razza certamente
superiore, alla quale mi duole di non appartenere.
Come quasi tutti gli storici sanno, nella storia non c'è nemmeno un'ombra, o un
barlume, di
progresso ininterrotto. Quando sembra sul punto di giungere alla meta, la storia
si ferma, bivacca
per qualche tempo in un bosco o in una palude, si addormenta, produce
catastrofi, ripercorre la
strada che ha già percorso, procede a zig-zag. Credo che avesse ragione
Leopardi, quando nel
maggio 1833 scriveva a una sua amica fiorentina, Charlotte Bonaparte. "Quanto a
me, cara signora,
voi sapete bene che lo stato progressivo della società non mi riguarda per
niente. Il mio stato, se non
retrogrado, è eminentemente stazionario".
Quindi entrerà in crisi il cosiddetto consumismo. Non sarà più possibile
consumare, consumare,
consumare: comprare una Bentley quando basta una bicicletta. Mi auguro che
gli uomini ritrovino
un giusto rapporto con le cose, che abbiamo comprato, ingoiato, sciupato,
gettato con incredibile
leggerezza per tanti anni. Oggi, sono troppe. Si accumulano da tutte le
parti, l'automobile e la
lavatrice, il quadro e il tappeto, cinquecento cravatte e quaranta paia di
scarpe nell'armadio. Siamo
ricoperti dagli oggetti: nascosti dagli oggetti; stanchi di quello che
produciamo. Abbiamo smarrito
la sensazione di come è fatta una cosa: del suo peso, del suo spessore, dei suoi
colori, delle sue
ombre, e del valore simbolico che può avere nella nostra vita. Non le amiamo
più. Non possiamo
amarle, visto che oggi sono diventate infinitamente sostituibili.
Tutti gli oggetti del mondo hanno diritto alla nostra attenzione e al nostro
rispetto. Non ci sono cose
sostituibili. Tutto ciò che esiste, sebbene fabbricato in serie, è unico. Anche
una vecchia giacca, o
una vecchia automobile, o una lavatrice che cade a pezzi chiedono il nostro
riguardo. Dobbiamo
recuperare le virtù della civiltà contadina, ritrovando la parsimonia, la
sobrietà e quasi l'avarizia
all'inizio del ventunesimo secolo. Non c'è da possedere nulla, perché il
possesso è una qualità che
apparteneva ai tempi di Balzac, non a quelli moderni. Vorrei essere Virgilio, o
Orazio, o Ariosto, o
Manzoni nelle loro case di campagna. Amavano poche cose, le accarezzavano con la
mente e la
mano, contemplavano un grappolo d'uva, un albero, o un tramonto, abituandosi
alla precisione, che
noi abbiamo perduto.
Certo, la Cina continuerà a consumare. Aumenterà ogni anno il Pil del dodici per
cento,
moltiplicherà le fabbriche, i porti, gli aeroporti, si coprirà di gioielli e di
vestiti acquistati a Parigi,
mentre le ciminiere e le automobili sporcheranno il cielo di un nero
incancellabile, e i tibetani
verranno offesi e uccisi. Preferisco l'Europa: gli olivi e i cipressi delle
colline toscane, le campagne
francesi dove le cuspidi delle cattedrali forano il cielo rosa, le foreste di
rododendri della Scozia; o
gli agilissimi, delicatissimi grattacieli di Manhattan, con i vetri che
riflettono l'Hotel Plaza. Non mi
importa nulla se conosceremo la decadenza: se non cambieremo frigorifero ogni
settimana: se
saremo più poveri e consumeremo meno; e se i nostri regimi politici sembrano ai
Cinesi lievemente
anacronistici. Mi importa soltanto che gli Stati Uniti e l'Europa
continuino a capire il mondo, ad
accoglierlo e a trasformarlo, conservando quel prodigioso dono di metamorfosi,
che ha permesso a
tanti popoli, tanti dèi, tanti libri di penetrare nelle nostre terre.
Pietro Citati la
Repubblica 3 dicembre 2008