Ad elezioni avvenute vi proponiamo questa lettera di Ettore Masina . Perchè ormai conta cosa faremo d'ora in poi nel campo della democrazia e della laicità. Tutti. (GLR)
Davanti al seggio
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Ho (quasi) ottant’anni. Di tutte le mie facoltà una mi sembra ancora integra – e non sempre, purtroppo, mi dà gioia: quella facoltà è la memoria. Mi capita di ricordare, per esempio, che il mio compagno di seconda elementare Martin Bascià mi confidò un giorno che il suo grande sogno era quello di poter tornare a casa, almeno una volta, con due chili di pane e mangiarne a volontà; accadeva nella Valcamonica del 1937, ma certamente milioni di bambini italiani condividevano allora quel sogno. Nello stesso anno venne a salutarci un cugino che partiva per la guerra di Spagna; era un giovanissimo ufficiale e ci raccontò che il suo plotone era formato da cafoni e tarlucchi, analfabeti, vale a dire contadini disoccupati. Cinquantamila di quegli italiani andarono allora a combattere in un paese non loro e dalla parte sbagliata, senza sapere perché, se non che era un lavoro duro, col fucile al posto della zappa, un lavoro per il quale si poteva anche uccidere o morire ma che intanto sfamava la famiglia.
Cominciano da quegli anni i miei ricordi “politici”; ed essi sono andati poi accumulandosi mentre crescevo: durante la guerra in cui i più poveri degli italiani furono mandati al macello dal fascismo, e poi durante la cosiddetta “ricostruzione” e i tentativi di occupazione delle terre incolte, con i carabinieri spediti da governi “moderati” a difendere la cieca avarizia dei proprietari terrieri, e con la mafia che perfezionava impunemente il suo potere. Ci furono le lotte operaie per uscire da una condizione di miseria e di diritti negati; il padronato creava i sindacati gialli e assumeva ex ufficiali e graduati dell’Arma per lo spionaggio nelle fabbriche e decretava i reparti-confino o il licenziamento per i sindacalisti veri che apparivano troppo zelanti. Poi ci fu il “miracolo italiano” che modernizzò il nostro Paese ma a prezzi durissimi per la povera gente: un tragico esodo di intere popolazioni, lo scardinamento di centinaia di migliaia di famiglie, nella disperata “spontaneità” di una migrazione lasciata a se stessa dall’incapacità dei governi e dal cinismo dei padroni. Qui i miei ricordi si fanno più precisi: ero diventato un giornalista, indagavo sulle conquiste (e le sconfitte) della democrazia italiana (di qualcuna di quelle mie inchieste c’è traccia nei libri di Crainz, di Murialdi, di Ada Giglio Marchetti). Quando venimmo ad abitare a Roma, nel 1964, lessi un rapporto della Pontificia Opera di Assistenza: testimoniava che in alcune parrocchie di periferia, al momento della distribuzione dell’ eucarestia, si formavano due file: prima andava all’altare la gente “bene”, poi i sottoproletari delle baracche e delle case “improprie”. Naturalmente nessuno aveva disposto questo orribile rituale. Il fatto è che quindici anni dopo la proclamazione della Costituzione repubblicana vi era in molti poveri la convinzione di essere cittadini e persino “credenti” di razza inferiore. (erano, in gran parte, persone cche avevano obbedito, spesso, all’esortazione di votare al centro perché grandi pericoli incombevano sull’Italia).
In quegli anni, del resto, gli azionisti della Fiat si dividevano utili pari alla somma di tutti i salari e gli stipendi dei dipendenti dell’azienda. L’idolatria alto-borghese per le rendite strangolava la ricerca scintifica e gli investimenti produttivi. Nel Sud il clientelismo avvelenava i partiti.
Attento a quelle realtà, diventai, spero di poterlo dire, uomo “di sinistra”. “Sinistra” non significava per me materialismo dialettico, tanto meno marx-leninismo, voleva dire, piuttosto, necessità di impegno per la giustizia sociale, scelta di civiltà, umanesimo. “Sinistra”, all’inizio, erano stati per me “La condizione operaia” di Simone Weil e “La battaglia”, il grande romanzo di Steinbeck sugli scioperi dei raccoglitori di frutta in California, e, prima ancora (naturalmente!) Tolstoj.Poi lessi Rosa Luxemburg e Piero Gobetti (non ancora Gramsci, quello venne più tardi) e insieme Léon Bloy e Peguy e Bernanos e Mounier e i documenti dei preti-operai francesi e il Voillaume dei Piccoli Fratelli. Se ripenso alla mia “sinistra”, però, più che a libri, torno a volti, a persone, alcune conosciute da vicino, qualcna amata da lontano: La Pira, Lazzati, Dossetti. Mazzolari, Balducci, Lelio Basso, Berlinguer, Ingrao, Zaccagnini, Turoldo,, Pintor, Danilo Dolci, Natalia Ginzburg, don Milan, Paul Gauthier... Il matrimonio con Clotilde e l’esplosione del Concilio come “Chiesa dei poveri” resero le mie scelte più chiare e definitive. La fondazione della Rete Radiè Resch mi donò la gioia di un grande gruppo di amici (per lo più cristiani, ma non solo) e la possibilità di venire in contatto con le eroiche avanguardie di quelli che Fanon definiva “i dannati della Terra”: i poveri del cosiddetto Terzo Mondo, con le loro lotte, le loro sconfitte, le terribili torture, le canzoni, le indomabili speranze: e l’autentica lotta di classe con la quale i ricchi schiacciano i poveri. Più tardi - nel 1983, nel 1987, nel 1992 - accettai di candidarmi deputato nelle liste del PCI (poi PDS). Vissi mesi entusiasmanti in un’ampia zona del Nord: le province di Bergamo, Brescia. Varese, Lecco, Como, Sondrio, Padova, Verona, Vicenza e Rovigo. Erano luoghi in cui le sinistre erano minoritarie e la marea del razzismo localistico andava silenziosamente crescendo, e infettando anche gli ambienti “progressisti”; trovai spesso funzionari ottusi e, alcuni, ignorantissimi. ma la grande massa degli iscritti e dell’elettorato mostravano un’Italia di grande e generoso impegno. Scoprivo, fra l’altro – e non potrò mai dimenticarle – la settarietà, la paura micragnosa, la stoltezza, l’incapacità di sperare con le quali la mia Chiesa, con le sue scomuniche, aveva sbarrato le porte a un popolo in grande maggioranza naturaliter christianus.
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Ho rivisitato i miei ricordi, in queste settimane, mentre riflettevo sul voto che andrò a deporre nelle urne domenica prossima. Ho sentito, dapprima, una grande voglia di starmene a casa per esprimere il mio schifo per una legge elettorale che, se non altro, getta in stato confusionale, programmaticamente, la nostra democrazia. Ho concluso che avrei guardato con rispetto chi, condividendo il mio risentimento, avrebbe non già disertato i seggi (che sarebbe complicità con il potere, comoda, pigra, rancugnosa viltà) ma vi sarebbe andato per far verbalizzare, secondo ciò che la legge prevede, la sua decisione di non votare. Ma ho sentito che neppure quella poteva essere la mia scelta, che ogni volta che ci è concessa qualche opportunità di lotta ai nemici della democrazia non si possa rispondere: “Sono troppo indignato per farlo”. Quella dell’Aventino è una lezione terribile.
Condivido la convinzione che queste elezioni ci pongono davanti a un mutamento radicale della vita politica italiana. Innanzi tutto, penso, a uno spaventoso decadimento culturale ed etico. Scrivo queste righe il 9 aprile, 53.mo anniversario del martirio di Bonhoeffer, il grande teologo luterano impiccato dai nazisti; e traggo da lui la descrizione di quell’asfissia del pensiero creativo e dell’etica che oggi devasta tanta parte dell’Italia: "Si ha l'impressione che la stupidità non sia un difetto congenito, ma piuttosto che in determinate circostanze gli uomini vengano resi stupidi, ovvero si lascino rendere tali. Osservando meglio, si nota che qualsiasi ostentazione di potenza, politica o religiosa che sia, provoca l'istupidimento di una gran parte degli uomini. La potenza dell' uno richiede la stupidità degli altri". Vale per gli elettori berlusconiani, i quali, però, più che stupidi sono desiderosi di raccogliere le briciole dei pasti che il Monarca (la definizione è sua) consumerà a spese della Costituzione, della legalità e del senso dello Stato. Vale per gli elettori di Casini e dei suoi transfughi che hanno osato scippare lo stendardo della Rosa Bianca. Quasi ossessionati dalle denunzie vaticane e dalla consapevolezza delle proprie tentazioni, questi “cattolici” cercano di dar vita a una lobby di “fedeli” con la quale sbrecciare la laicità dello Stato per bloccare a termini di legge la secolarizzazione della nostra società. Nella loro sessuofobia e omofobia rappresentano il versante ecclesiale del razzismo leghista. E’ facile prevedere che dopo le elezioni Casini e la minidestra di Storace ritorneranno alla reggia di Arcore, esattamente come Bossi e Fini che pure quella reggia definirono, in altri tempi, “porcilaia”.
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Molte e molti dei miei amici più cari mi hanno detto che voteranno PD. Guardo con grande rispetto alla loro scelta e so bene che alcuni lo faranno con spirito critico e lucida cognizione dei difetti di quella formazione. Con lo stesso animo voterei come loro, se avessi la loro convinzione che il successo di Berlusconi è l’unico pericolo che sovrasta la democrazia italiana. Di questa minaccia, grave, anzi gravissima, io non discuto l’importanza, ma penso che i pericoli siano due e che il secondo, non minore del primo, sia quello di una definitiva scomparsa della sinistra.
Fra le poche certezze che la mia lunga vita mi ha dato, c’è quella che niente è stato regalato alla povera gente, che tutto è stato ottenuto, con fatica e pericoli, non soltanto fisici, dalla sinistra: dai lavoratori e dagli intellettuali che con essi si sono schierati. E’ una storia non priva di errori, di settarismi, di inadeguatezza, di colpe, di violenze; ma è anche una vicenda che ha dato dignità a masse che non ne avevano mai avuta o l’avevano persa, per sproporzione di forze, E’ stata movimento di popolo, con varie anime: marxista, cristiana, liberale. Si è spontaneamente unita ad esperienze che in altri luoghi della Terra miravano, anche quelle, a giustizia e libertà. Ha visto la concretezza dei problemi perché li ha esaminati, per così dire, dal basso. Le proprie ideologie hanno subito la verifica più dura perché misurate sulle necessità più dure della vita dei poveri. Per l’asprezza di quelle necessità la sinistra è stata la forza che ha sconfitto spesso la ideologia del moderatismo, quella avara delimitazione del “possibile” in cui il potere borghese è maestro.
Non è stata l’unica forza di progresso, naturalmente. Altri gruppi di persone oneste hanno lavorato per costruire un’Italia migliore. Ma è un dato di fatto che quando la sinistra è stata debole, il progresso si è come arrestato. Nella storia della Repubblica, la sinistra è stata la volontà realizzatrice della Costituzione. Non si può espellerla dalla lotta elettorale in nome della paura. Non si può negarle la dignità di protagonista in questo evento. A me pare che neppure in nome di un pericolo imminente si possa chiedere, a chiunque creda nella necessità della sinistra come forza storica di giustizia, di associarsi a uno schieramento che ne abbandona speranze e lotte, a un disegno moderato, il cui programma si distingue appena da quello degli avversari. Sconfitta nella sua esperienza di governo (soprattutto dalla violenza dei media che hanno sistematicamente enfatizzato come dirompenti le sue richieste a Prodi,, mentre sbiadivano le insidie dei Mastella, dei Dini, dei Bordon), la sinistra italiana ha bisogno di riprendere il suo coraggio e la sua fisionomia. Sta compiendo un lavoro di riaggregazione delle sue forze e la sua nuova unità è un evento che non può non essere riconosciuto e sorretto dal coraggio di chi ha sentito l’orgoglio di avere appartenuto, in altri tempi, alla sinistra come la definiva Norberto Bobbio: la sinistra è la scelta di chi privilegia il principio di eguaglianza fra le persone, la destra è la scelta di chi nega questo principio. E il “centro”, ma questo lo dico io, è spesso il biglietto da visita di una destra “moderata”:
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In queste ultime ore di campagna elettorale sono stato molto attento alle performances dei leaders dei vari partiti e ne ho provato nuova desolazione. La americanizzazione della campagna elettorale, con due soli Grandi Personaggi e, alle loro spalle, un pulviscolo di collaboratori, non pochi dei quali intercambiabili fra l’una e l’altra formazione, l’arroganza brutale di Berlusconi e la corsa al centro, il “nuovismo” di Veltroni, la sua meticolosa attenzione a negare ogni radice di sinistra al PD, mi hanno ulteriormente convinto che è indispensabile mostrare che molta gente, numerosa quanto più è possibile, rifiuta questa semplificazione. La cancellazione (temporanea?) della sinistra storica dal panorama italiano sarebbe il primo trionfo di Berlusconi.
Già per questo il voto alla Sinistra Arcobaleno sembra a me doveroso, ma poi chi ha saputo penetrare nella demenzialità del Porcelllum, sa bene che se la Sinistra raggiungesse l’8 per 100, la sconfitta di Berlusconi sarebbe quasi certa.
Care amiche, cari amici, vi chiedo di votare con me la Sinistra Arcobaleno. Sono già in buona compagnia (Ingrao, Castellina, Marco Revelli, Petrella, Eugenio Melandri, Perna etc. etc.) ma voi mi mancate, accidenti quanto mi mancate. O sbaglio?
Ettore Masina lettera 131 aprile 2008