Abiura di una
cristiana laica
Questo è un addio. A molti cari amici – in quanto cattolici. Non
in quanto amici, e del resto
sarebbe un fatto privato. E’ un addio a qualunque collaborazione che abbia una
diretta o indiretta
relazione alla chiesa cattolica italiana, un addio anche accorato a tutti i
religiosi cui debbo
gratitudine profonda per avermi fatto conoscere uno dei fondamenti della vita
spirituale, e la
bellezza. La bellezza delle loro anime e quella dei loro monasteri – la più
bella, la più ricca, e oggi,
purtroppo, la più deserta eredità del cattolicesimo italiano. O diciamo meglio
del nostro
cristianesimo. L’eredità di Benedetto, di Pier Damiani, di Francesco, dei sette
nobili padri cortesi
che fondarono la comunità dei Servi di Maria, di tanti altri uomini e donne che
furono “contenti nei
pensier contemplativi”. E anche l’eredità di mistici di altre lingue e radici,
l’eredità, tanto preziosa
ai filosofi, di una Edith Stein, carmelitana che si scalzò sulle tracce della
grande Teresa d’Avila.
Questo addio interessa a ben poche persone, e come tale non meriterebbe di esser
detto in
pubblico. Ma se oggi scrivo queste parole non è certo perché io creda che il
gesto o la sua autrice
abbiano la minima importanza reale o morale: bensì per un senso del dovere ormai
doloroso e
bruciante. Basta. La dichiarazione, riportata oggi su “Repubblica”, di Mons.
Betori, segretario
uscente della Cei, e “con il pieno consenso del presidente Bagnasco”, secondo la
quale, per quanto
riguarda la fine della propria vita, alla volontà del malato va prestata
attenzione, ma “la decisione
non deve spettare alla persona”, è davvero di quelle che non possono più essere
né ignorate né,
purtroppo, intese diversamente da quello che nella loro cruda chiarezza dicono.
E allora ecco: questa dichiarazione è la più tremenda, la più diabolica
negazione di esistenza della
possibilità stessa di ogni morale: la coscienza, e la sua libertà. La sua
libertà: di credere e di non
credere (e che valore mai potrebbe avere una fede se uno non fosse libero di
accoglierla o no?), di
dare la propria vita, o non darla, di accettare lo strazio, l’umiliazione del
non esser più che cosa in
mano altrui, o di volerne essere risparmiato. Sì, anche di affermare con
fierezza la propria dignità,
anche per quando non si potrà più farlo. E’ la possibilità di questa scelta che
carica di valore la
scelta contraria, quella dell’umiltà e dell’abbandono in altre mani. Ma
siamo più chiari: quella che
Betori nega è la libertà ultima di essere una persona, perché una persona, sant’Agostino
ci insegna,
è responsabile ultima della propria morte, come lo è della propria vita.
Fallibile, e moralmente
fallibile, è certo ogni uomo. Ma vogliamo negare che, anche con questo
rischio, ultimo giudice in
materia di coscienza morale sia la coscienza morale stessa? Attenzione: non
stiamo parlando di
diritto, stiamo parlando di morale. Il diritto infatti è fatto non per
sostituirsi alla coscienza morale
della persona, ma per permettergli di esercitarla nei limiti in cui questo
esercizio non è lesivo di
altri. Su questo si basano ad esempio i principi costituzionali che
garantiscono la libertà religiosa,
politica, di opinione e di espressione.
Oppure ci sono questioni morali che non sono “di competenza” della coscienza di
ciascuna
persona? Quale autorità ultima è dunque “più ultima” di quella della coscienza?
Quella dei medici?
Quella di mons. Betori? Quella del papa? E su cosa si fonda ogni autorità, se
non sulla sua
coscienza? Possiamo forse tornare indietro rispetto alla nostra maggiore età
morale, cioè al
principio che non riconosce a nessuna istituzione come tale un’autorità morale
sopra la propria
coscienza e i propri più vagliati sentimenti? C’è ancora qualcuno che ancora
pretenda sia degna del
nome di morale una scelta fondata sull’autorità e non nell’intimità della
propria coscienza? “Non
siamo per il principio di autodeterminazione”, dichiara mons. Betori, e lo
dichiara a nome della
chiesa italiana. Ma si rende conto, Monsignore, di quello che dice? Amici, ve ne
rendete conto? E’
possibile essere complici di questo nichilismo? Questa complicità sarebbe ormai
– lo dico con
dolore – infamia.
Roberta de Monticelli Il
Foglio 2 ottobre 2008