A tutela di tutti
«È una sentenza sorprendente», dice Alfano ministro di Giustizia. Sarà
sorprendente per lui. Non per i milioni di italiani che ancora credono nella
giustizia nonostante la provvisoria presenza di Alfano. Un ministro passa, la
Costituzione resta. Questo ci dice la sentenza di ieri: tranquilli, la
Costituzione resta. La legge è ancora uguale per tutti. Più di
sessant’anni dopo è ancora a quei signori i cui volti sono ingialliti nelle
foto che dobbiamo dire grazie: ai padri costituenti che avevano previsto tutto
senza immaginare niente. Quella era politica. Saremo capaci, prima o dopo,
di ritrovare l’umiltà, la ragionevolezza, la lungimiranza, la passione civile,
l’amore per lo Stato dei nonni che hanno costruito la democrazia che oggi
abitiamo violentandola come fosse una palestra di periferia, teatro di privati
interessi e corporali bisogni? La nostra Costituzione è nata dalla
Resistenza: è stata scritta per tutti, anche per quelli che alla Resistenza non
hanno partecipato. Ieri come oggi.
«La Consulta è di sinistra», dice Berlusconi presidente del Consiglio. Bisogna
avere pazienza, non paura né rabbia ma pazienza. Vede comunisti dappertutto. La
Consulta non è di sinistra, è composta da giuristi che hanno a lungo esaminato
le carte, a lungo hanno discusso e infine hanno democraticamente votato: nove
contro sei. I soldi, il potere che ne deriva non comprano tutto.
Anche questa è una buona notizia per il Paese intero, berlusconiani compresi:
arriverà un giorno in cui non ci sarà più chi paga e anche loro dovranno
ringraziare che le regole comuni siano state da altri conservate intatte.
«Porteremo il popolo in piazza», dice Bossi l’azionista di maggioranza del
governo. Questo il vero pericolo. Che si voglia trasformare una battaglia per il
rispetto delle regole in una guerra civile. Non c’è da scendere in piazza coi
forconi, nessuno cada nel tranello. Non è questa una vittoria di nessuno
contro alcuno. È un argine, una prova di equilibrio. È un passaggio solenne a
tutela di tutti. Restiamo nel solco tracciato dai Padri.
Esercitiamo la parola e il pensiero, facciamolo ancora, mettiamo in
minoranza coi fatti, coi progetti, con la proposta politica chi cerca di
trascinare il paese nella polvere e nel fango. Questa parola si è sentita ieri:
guerra. Non siamo in guerra, invece. Siamo un grande paese capace di reagire con
gli anticorpi della democrazia alla deriva e alla tentazione dispotica.
Ritroviamo il desiderio di aver cura di noi stessi, non lasciamoci distrarre
dalle ronde dai dialetti e dal colore, oggi verde, delle camicie. Abbiamo
sconfitto quelle nere, il verde non può far spavento.
Del povero Mavalà Ghedini («La Corte rinnega i suoi principi») non
sarebbe da dire se non per compiangere un dipendente del Sovrano costretto a
giocare quindici parti in commedia, un uomo di legge che rinnega lui sì il
mandato del popolo in favore dell’interesse del suo principale. Un triste
spettacolo. La Corte sta lavorando anche per lui, pazienza se gli risulta
impossibile capirlo. Lo capiranno i suoi e i nostri figli, sarà scritto nei
libri di storia. In prima pagina trovate un numero dell’Unità del ’47.
Conservate quello di oggi, servirà tra vent’anni.
Concita De Gregorio l’Unità 8.10.09
La forza della
democrazia
Era dunque incostituzionale il lodo Alfano, come abbiamo sempre sostenuto, in un
Paese dove è saltata l´intercapedine liberale, e l´estremismo del potere viene
benedetto da un finto establishment e dai suoi cantori, incapaci di richiamare
il rispetto delle regole perché incapaci di ogni responsabilità generale. Ecco
dunque il risultato. Il presidente del Consiglio, insofferente dell´autonoma e
libera pronuncia di un supremo organo di garanzia, che opera a tutela della
Carta fondamentale, dà fuoco alla Civitas e al sistema dei poteri che la
regola, travolgendo nelle sue accuse la Corte, la magistratura e persino il capo
dello Stato. Un gesto certo di disperazione, ma anche la prova dell´instabilità
istituzionale di questo leader che nessuna prova di governo, nessun picchetto
d´onore, nessun vertice internazionale è riuscito a trasformare, quindici anni
dopo, in uomo di Stato.
Terrorizzato dai suoi giudici, e più ancora dal suo passato, il premier non si è
accorto di reagire pubblicamente alla sentenza della Corte come se fosse una
condanna. Prima che la grande mistificazione d´abitudine cali sui cittadini dal
kombinat politico-mediatico che ci governa, è bene ricordare due aspetti.
Prima di tutto, la Corte ha sollevato un problema di merito e uno di metodo,
combinandoli tra di loro, e nel farlo ha guardato soltanto alla Costituzione,
com´è sua abitudine e suo dovere. Nel merito, il lodo Alfano viola l´articolo 3
della Costituzione, che vuole tutti i cittadini uguali di fronte alla legge,
qualunque sia il loro incarico, il loro potere, la loro ricchezza. Proprio per
questa ragione – e siamo al metodo – se si vuole sottrarre alla legge il
Presidente del Consiglio occorre adottare una norma di revisione costituzionale,
e non una norma ordinaria. Dunque il Lodo è illegittimo, perché viola gli
articoli 3 e 138 della Costituzione.
Il secondo aspetto riguarda il clima di lesa maestà
che ha incendiato la serata della destra, dopo la pronuncia della Corte, come se
il Capo del governo fosse stato consegnato dalla Consulta ai carabinieri. In
realtà, anche se nessuno lo ricorderà oggi, è doveroso notare che il Primo
Ministro attraverso questa sentenza costituzionale viene restituito allo status
di normale cittadino, con la piena titolarità dei suoi diritti e naturalmente
dei doveri: semplicemente, e com´è giusto e doveroso, dovrà rispondere ai
giudizi che lo riguardano pendenti nei Tribunali, che il lodo aveva
provvidamente sospeso. Con questo status e in quelle sedi, uguale a tutti gli
altri italiani che sono chiamati in giudizio per rispondere di reati, potrà far
valere le sue ragioni, nel rispetto della legge ordinaria: che intanto – e non è
cosa da poco – torna da oggi uguale per tutti.
Il puro riferimento alla Costituzione rende limpida la decisione della Corte. Ma
oggi che cade il privilegio regale attribuito dal Premier a se stesso (rex è
lex, anzi "non c´è limite legale al potere del re, vicario di Dio sulla
terra", come diceva Giacomo I nel 1616) bisogna pur notare che quella
specialissima guarentigia non era una norma esistente nel nostro ordinamento, ma
una legge apposita costruita dal Presidente del Consiglio in fretta e furia per
sfuggire al suo giudice naturale e alle sentenza ormai prossima per un reato
commesso quando ancora era un semplice imprenditore, lontano dalla politica. In
una formula – aberrante, e salutata con applausi soltanto in Italia – si
potrebbe dire che il Capo dell´esecutivo ha in questo caso usato il legislativo
per sfuggire al giudiziario, fabbricando con le sue mani e con quelle di una
maggioranza prona un salvacondotto su misura per la sua persona, in modo da
mantenere il potere senza fare i conti con la giustizia.
La Corte non ha ovviamente considerato questo aspetto che è rilevante dal punto
di vista della morale pubblica, della coscienza privata, dell´autorevolezza
politica, ma non ha valore Costituzionale. Alla Corte è bastato rilevare ciò che
il Paese (e anche alcuni giornali) non volevano vedere: e cioè che attraverso
questa procedura d´eccezione, proterva e insieme impaurita, il Premier violava
il principio fondamentale del nostro ordinamento che vuole i cittadini uguali di
fronte alla legge. Nel ribadirlo, la Corte ha fatto semplicemente
giustizia costituzionale. Ma non si può tacere che per giungere a questa
pronuncia i giudici della Consulta hanno dovuto nella loro coscienza individuale
e di collegio dare prova di libertà intellettuale e personale e di autonomia
istituzionale: perché in questo sfortunato Paese sulla Corte Costituzionale,
prima della pronuncia, si è abbattuta una tempesta di intimidazioni, di
preavvisi e di minacce che tendeva proprio a coartarne la libertà e l´autonomia.
Se è ancora consentito dirlo, in mezzo agli
strepiti, la democrazia ha invece dimostrato ieri la sua forza di libertà.
Non tutto si lascia intimidire dalla violenza del potere e dei suoi apparati,
nell´Italia 2009, non tutto è ricattabile, non tutto è acquistabile. Pur
in epoca di poteri che si sentono sovraordinati a tutti gli altri, fuori
dall´equilibrio istituzionale della Carta, pur in anni sventurati di unzione del
Signore, pur davanti a legali-parlamentari che teorizzano per il Premier lo
status nuovissimo di "primus super pares", vige ancora la
Costituzione nata con la libertà riconquistata dopo la dittatura, e vige la sua
trama di equilibri tra i poteri di una democrazia occidentale. Esistono ancora,
anche in questo Paese che ha cupidigia di sovrani e di dominio, gli organismi di
garanzia, essenziali nel loro equilibrio e nella loro responsabilità super
partes, nonostante gli attacchi irresponsabili dei qualunquisti antipolitici
e di quelle opposizioni interessate a lucrare soltanto qualche decimale
elettorale in più.
E infatti la reazione rabbiosa del Presidente del Consiglio è tutta contro gli
organi supremi di garanzia. La Corte, ridotta per rabbia iconoclasta a congrega
di uomini di sinistra. E soprattutto il Capo dello Stato, additato al Paese e al
popolo di destra – aizzato irresponsabilmente – come un uomo di parte ("sapete
tutti da che parte sta") in uno sfogo sovraeccitato in cui tornano tutti i
fantasmi fissi del berlusconismo sotto schiaffo, i magistrati, il Quirinale, la
Consulta, i giornali, in un crescendo forsennato di "sinistre", "rossi" e
"comunisti": per concludere con il titanismo spaventato di un urlo ("Viva
l´Italia, viva Berlusconi") che rivela la concezione grottesca di un Premier che
vede se stesso come destino perenne della Nazione.
Napolitano ha risposto ribadendo prima il rispetto per la pronuncia della Corte,
poi ricordando che il Capo dello Stato sta, molto semplicemente, con la
Costituzione. Viene da domandarsi piuttosto dove sta il Capo del governo,
rispetto alla Costituzione, cioè al regolare gioco democratico tra le
istituzioni. Ieri ha detto che il modo in cui i giudici costituzionali vengono
designati altera l´equilibrio tra i poteri dello Stato: proprio lui che in pochi
minuti ha tentato di delegittimare tre magistrature, attaccando i giudici, il
Quirinale e la Corte. E siamo solo all´inizio.
Il peggio, infatti, deve ancora accadere. Altro che andare alle urne,
come minacciavano nei giorni scorsi gli uomini di destra per far pesare il
rischio di ingovernabilità e instabilità sulla Corte. Ieri Berlusconi si è
affrettato a dire che il governo è solidissimo come la sua maggioranza, e andrà
avanti. In realtà il Premier soffre il suo indebolimento progressivo, sente il
rischio dei processi sospesi che tornano a pretendere il loro imputato, avverte
soprattutto il peso della corruzione che la sentenza civile sulla Mondadori gli
ha scaricato addosso, è consapevole di aver politicamente azzerato negli
scandali dell´estate la forza della sua maggioranza parlamentare, sa che il suo
sistema non produce più politica da mesi, prigioniero com´è di una vicenda di
verità e di libertà. Non è la Corte che lo denuda: è l´incapacità politica
di fronteggiare la sua storia personale, nel momento in cui nodi grandi
e piccoli vengono al pettine e l´unica reazione è la furia contro certi
giornali. Il futuro del Premier dipende proprio da questo, dalla capacità di
un´assunzione convincente di responsabilità, di fronte alla giustizia, al
parlamento, alla pubblica opinione: finora non è stato capace di farlo, o forse
non ha potuto farlo. Ed è per questo che con tutta la propaganda dei sondaggi
che lo circonda, il Capo del governo sente che tutto il sistema politico è al
suo capezzale, e ogni giorno gli tasta il polso politico.
Tutto è possibile, in questo quadro, soprattutto il peggio. Ma intanto
ieri quindici giudici hanno ricordato al Premier che pretende di rappresentare
il tutto, in unione col popolo, che esiste ancora la separazione dei poteri:
quando non c´è più, avvertiva Norberto Bobbio quindici anni fa, ciò che comincia
è il dispotismo.