A proposito del
crocifisso. In gioco non è Gesù, ma la nostra identità
La recente sentenza con la quale la Corte europea ha dato ragione (a differenza
dei tribunali italiani)
alla famiglia ricorrente contro l’esposizione dei crocifissi nelle scuole
statali, ha sollevato, da parte
non solo di esponenti e fedeli della chiesa cattolica, ma anche di politici,
giornalisti, rappresentanti
della pubblica opinione, un’ondata di reazioni, anche argomentate, ma
soprattutto molto
emotivamente cariche, talora polemiche e aggressive. E’ comprensibile la
preoccupazione della
Chiesa di non veder semplicemente vietare lo spazio pubblico ai simboli
religiosi: un domani
qualcuno potrà chiedere che spariscano dalle città le chiese, le edicole e dalle
montagne o dalle
grotte marine le croci e le statue di santi? E’ anche comprensibile che tanti
abbiano potuto sentirsi
offesi e feriti. Non tanto dal fatto che in un’aula scolastica o ufficio
pubblico non ci sia un crocifisso
(i cattolici vivono serenamente e liberamente, non da perseguitati o
emarginati, la loro fede in
tantissimi paesi in cui tali segni non vengono esposti), quanto dalla
motivazione che ha richiesto di
toglierli: turbamento dei giovani, violazione dei loro diritti. Per un
cristiano, la Croce rappresenta
l’abisso dell’amore di un Dio fino in fondo umano e che si abbassa fino a morire
da schiavo in
favore dell’uomo e per riscattare tutti a libertà. E’ il simbolo massimo di
un Dio che non esclude,
che abbraccia tutti; simbolo della vittoria delle vittime della storia, tanto
che i fratelli protestanti
preferiscono la Croce vuota, senza il crocifisso, per indicare che la
Resurrezione è avvenuta. Come
potrebbe un tale simbolo offendere qualcuno, ledere la sua libertà di coscienza
e di religione?
Perché voler bandire Gesù?
Questo però lo vede la fede. Al di fuori di essa, il
crocifisso, come è stato rivendicato e sostenuto,
diventa una ‘espressione culturale’. In gioco non è Gesù, ma la
nostra ‘identità’. I cristiani non
dovrebbero pensare a questo come un buon riparo, giacché stravolge il senso del
simbolo,
esprimente la fede nel Crocifisso risorto. Esporlo allora vuol dire
soprattutto “in questo territorio ci
siamo noi, e non altri”: infatti, gli stessi che ora insorgono in difesa
della esposizione del crocifisso,
spesso si oppongono a che vengano costruiti edifici di culto per altre
religioni, in favore dei quali si
sono più volte espresse le autorità ecclesiastiche cattoliche. Né vale la
logica: «ma che fastidio vi
dà?». Il preteso ‘diritto della maggioranza’ a mettere il proprio sigillo
religioso su uno spazio che
deve essere egualmente accogliente nei confronti di tutti, ha molto poco a che
fare con la
confessione dell’amore gratuito di Dio per l’uomo e per il benevolo rispetto
della libertà di religione
e dalla religione che la Costituzione italiana sancisce e il Concilio afferma.
Chi prospetta la
possibilità di una pluralità di simboli mediti sull’esito grottesco: una parete
con un crocifisso, una
croce, una croce a tre braccia (ortodossa), una stella di Davide, una mezzaluna
islamica, un
triangolo massonico, un cartello “Dio non c’è” dell’Unione Atei, e i simboli di
religioni orientali!
Non si tratta di negare una identità, ben rappresentata dalla bandiera e
dalla fotografia del
Presidente della Repubblica.
Si può dubitare della saggezza di una battaglia contro il crocifisso, quando ci
si dovrebbe unire per
rispondere a tanti gravi problemi, ma se il crocifisso è inviso a tanti, la
colpa è degli abusi che i
cristiani ne hanno fatto: per opprimere, perseguitare, affermare sé stessi.
In questione c’è la
obbligatorietà della affissione dei crocifissi nelle scuole statali, come
‘complementi d’arredo’.
L’esposizione nelle scuole, dice la Corte, inoltre viola l'obbligo dello Stato
di astenersi da imporre,
anche indirettamente, credenze, nei luoghi in cui le persone sono a suo carico o
nei luoghi in cui
queste persone sono particolarmente vulnerabili, come è il caso di menti
giovanili in formazione.
Altro è che in singole scuole genitori, insegnanti, alunni si accordino per
esporre un simbolo
religioso (o per fare il Presepe). Né si tratta quindi dello spazio pubblico in
genere, in cui tutte le
espressioni religiose e culturali debbono potersi rappresentare.
E i cristiani italiani dovrebbero ricordare altre cose.
Quest’obbligo deriva, con varie tappe e svolte,
dal riconoscimento della religione cattolica come religione di stato (salvo
tollerare le altre), ormai
non più vigente, del che i cattolici dovrebbero per primi rallegrarsi, così
come, dopo decenni, hanno
riconosciuto come benedizione per la Chiesa la fine del potere temporale.
Quando, con le infami
leggi razziali del 1938, ne furono scacciati gli ebrei, nelle aule scolastiche
italiane rimase l’ebreo
Gesù, ma solo perché inchiodato. Se ne sarebbe andato volentieri.
E certo vorrebbe andarsene da
dove, a torto o a ragione, la sua presenza è vissuta come una imposizione,
soprattutto da parte di chi
non lo riconosce in ogni essere umano, specialmente se povero, migrante,
rifugiato, ‘diverso’,
oppresso, perseguitato, umiliato, carcerato. Lasciamolo andare dalle
pareti e ripetiamo invece il suo
gesto di inginocchiarsi a lavare i piedi all’umanità sofferente.
Maria Cristina Bartolomei in “Jesus”
n. 12 del dicembre 2009