A piccoli passi
verso la barbarie
Più volte l’abbiamo ribadito su queste colonne e con forza l'abbiamo affermato
in più occasioni: ci
stiamo dirigendo a piccoli passi verso la barbarie. Negli ultimi tempi
l’andatura è sempre più
accelerata e l’emergenza di alcuni fattori deleteri ci porta a riconoscere che
ormai ci troviamo in una
barbarie diffusa.
Non si tratta solo di assenza o debolezza della cultura, ma di una ferita
alla civiltà inferta
dall’affermazione di comportamenti indegni dell’uomo che non cercano la qualità
della convivenza
ma la oltraggiano. Assistiamo non allo scontro di civiltà profetizzato
da Huntington, né alla fine
della storia ipotizzata da Fukuyama ma, in modo più tragicamente banale, al
piombare in un’epoca
oscura, in cui è minacciata di sparizione la stessa democrazia.
Quest’ultima, infatti, non può
sussistere in una società in cui si disprezza la politica, cioè la gestione del
bene comune, in cui non
si avverte più come necessaria alcuna convergenza sull’orizzonte di senso della
polis.
Nel Salmo 14 vi è un’amara constatazione: «tutti sono
corrotti, nessuno fa il bene!»: grido tragico
perché, se da un lato può essere denuncia di una situazione reale contingente,
d'altro lato può
attestare la presenza di una pandemia etica che dilaga e che perverte la
natura stessa della
convivenza civile. La violenza, l’aggressione innanzitutto verbale non è
forse un habitat al quale
oggi assistiamo attoniti, in un’impotenza a fare qualcosa che ci rende tristi e
amareggia i nostri
giorni? Basta accendere la televisione - cosa che personalmente mi capita assai
di rado e solo fuori
casa - per assistere a talk-show in cui si misura da subito il
sistematico non ascolto dell’altro mentre
il tono di voce gridato copre ogni opinione e passa sovente al disprezzo e
all'insulto che negano
l'altro nella sua soggettività e dignità. Così i telespettatori si abituano
progressivamente ad assumere
come propri nel quotidiano quegli atteggiamenti aggressivi. Questi divengono
così la modalità
consueta dei rapporti in famiglia, sul lavoro, nei luoghi di incontro:
tutti si sentono non solo
autorizzati, ma incoraggiati alla rissa, all’aggressione, al dileggio delle
regole comuni. I ragazzi e i
giovani, invece di essere contenuti e corretti nelle intemperanze proprie
dell’età, di essere condotti
alla consapevolezza di limiti e di freni essenziali e decisivi nei rapporti e
nella comunicazione, si
sentono stimolati a emulare i modelli di comportamenti incivili offerti dagli
adulti: se incrociano un
senzatetto lo scherniscono quando non lo malmenano, alla vista di una persona di
colore partono
insulti e sputi, gli immigrati sono oggetto di minacce e di intimazioni a
tornarsene a casa loro...
Anche certa stampa ormai è divenuta palestra di combattimento,
in cui non ci si arresta neppure
davanti al mistero e alla dignità della persona, con accuse che vogliono solo
distruggere il bersaglio
preso di mira. Questi sono anni in cui molti italiani si sentono autorizzati
dagli esempi provenienti
da quanti occupano posizioni di rilievo anche istituzionale a far uso non solo
di espressioni violente,
volgari, offensive dell’altro, ma di un profondo disprezzo per qualsiasi
regolamentazione.
L’egolatria dominante reclama che i bisogni soggettivi siano accolti da tutti
come diritti, anche se
contro gli altri e contraddicenti l'umanizzazione, dimentica che accanto ai
diritti ci sono sempre dei
doveri, sembra negare ogni responsabilità personale per inquadrare il male
compiuto in una
fisiologia della vita umana personale e sociale: tutto questo fa sì che la
barbarie avanzi e che la
stessa democrazia sia erosa.
In questo quadro sconsolante la società risulta afflitta da una progressiva
perdita di memoria, e un
paese senza memoria non ha passato, non riconosce l’eredità che gli è propria e
perde così la
capacità di vivere il presente con consapevolezza e il futuro con speranza e
progettualità.
Per ogni cultura, la memoria dei momenti e delle forze che
l’hanno generata è essenziale: è proprio nella
memoria degli eventi fondatori che la democrazia si afferma e si manifesta come
valore. Ora, un
individuo sradicato dal proprio passato, senza vera appartenenza che non sia
quella localista o
quella dettata da meri interessi economici, non può essere un cittadino di una
società autenticamente
democratica. Quando l’identità è negata a livello di polis ed è
valorizzata solo con atteggiamenti
etnicistici, innesca infatti una regressione alla dimensione tribale, alla
tirannia di gruppi
«consanguinei» e autoreferenziali che minano lo spazio della communitas.
Va invece spezzata la
contrapposizione tra cittadino e Stato, tra individuo e società e riscoperta la
dialettica tra queste due
polarità perché l’«io», il «noi» senza «gli altri» depersonalizza e immiserisce:
il «noi» assume la
forma incontenibile dell’esclusione e, di conseguenza, l’altro assume i
tratti della minaccia da
scongiurare o da distruggere preventivamente. A questo punto la strada verso il
razzismo è
spalancata.
Non si dimentichi che le parole quando si caricano di odio
diventano armi, che le accuse reciproche
senza più limiti né rispetto spingono alla negazione e alla distruzione
dell’avversario, che il
continuare ossessivamente a indicare nell’avversario il Male genera a poco a
poco una violenza che
può arrivare ad assumere persino le forme del terrorismo più o meno elaborato
ideologicamente.
Saremo capaci di un soprassalto di dignità umana e di etica democratica?
Sapremo riscattare il
senso alto della politica, oggi pesantemente affetta da una malattia autoimmune
di svilimento? Non
si tratta tanto di auspicare una tregua verbale posticcia, di aggiustare i toni
di un confronto che da
tempo ha cessato di essere tale ma, ben più in profondità, di favorire il
passaggio dall’individuo al
soggetto politico, innescando una logica non solo di diritti ma anche di
doveri verso gli altri e con
gli altri. Ritrovare la propria qualità di cittadini significa sentirsi
attori di una storia collettiva,
capaci di immaginare se stessi assieme agli altri, tesi a riscoprire valori
comuni e principi etici
condivisi attraverso i quali edificare la polis, rifiutando che sia la
forza a prevalere. Certo, questo
richiede volontà, assunzione della responsabilità comunitaria, senso dello Stato
e capacità di
elaborare, mantenere e alimentare un quadro sociale e istituzionale che
garantisca a tutti la libertà
nella giustizia. Ma è l’unico percorso per uscire dalla barbarie e rientrare
nella civiltà.
Enzo Bianchi La Stampa 18 ottobre 2009