A ciascuno il suo dio
Rivoluzione americana. Dalle guerre di religione alla libertà di culto
Il primo emendamento della costituzione americana ha stabilito una novità
assoluta. La libertà religiosa appartiene agli individui senza interferenza
dello Stato e senza che ci sia una confessione riconosciuta
I paesi europei hanno fatto una gran fatica ad accettare di vivere con chi prega
uno stesso dio in una maniera diversa da quella della maggioranza. I
cristiani si sono massacrati tra loro per disaccordi su che cosa fossero i
sacramenti e se credevano o no nel mistero della transustanziazione o della
trinità. Nel Cinquecento, dopo la grande disubbidienza di Lutero,
teologi riformati e cattolici si impegnarono in diversi concilii a ristabilire
la concordia, a superare cioè tutte le divisioni per non aver più bisogno di
tollerarsi a vicenda. Tolleranza era una parola negativa come il
"sopportare" chi era nel torto. La verità era una e una doveva essere la
religione praticata in un paese: si tollerava provvisoriamente, in attesa della
nuova grande unità cristiana.
Ma mentre i teologi cercavo invano di superare i loro dissidi dogmatici con
l´arte della parola, i monarchi e i principi dovevano in qualche modo impedire
le violenze tra cattolici, calvinisti e protestanti. Con editti provvisori
l´autorità secolare concedeva ai fedeli di un credo minoritario di comunicarsi a
loro modo, di sposarsi e di partecipare alle funzioni religiose, di essere cioè
non soltanto credenti in cuor loro, ma anche praticanti. Era il primo passo
verso il riconoscimento della libertà religiosa – un passo molto incerto e che
non riuscì a scongiurare il massacro di San Bartolomeo e le guerre religiose.
La formula "un re, una fede" (cuius regio, eius religio), coniata a metà
Cinquecento proprio per giustificare una politica di pacificazione in attesa di
ristabilire l´unita cristiana, fu per almeno due secoli e mezzo la migliore
soluzione che gli stati europei escogitarono per non massacrarsi nel nome
di un dio o di un dogma.
La formula
escludeva mescolanza di credenti e divideva territorialmente le religioni:
ciascuna chiesa nel proprio fazzoletto di terra e con un proprio re. La libertà
e la pace potevano esistere solo tra eguali. Dio segnava i confini degli
stati – chiese cattoliche non erano ben viste in terra protestante e viceversa.
Questa idea è stata messa in crisi dalla Rivoluzione americana che con il primo
emendamento alla costituzione riconosceva la libertà religiosa come libertà
degli individui, escludendo sia l´interferenza dello stato sia il
riconoscimento di chiese e confessioni. La tolleranza del diverso
lasciava il posto al diritto di essere come si sceglieva purché si rispettasse
la libera scelta altrui. La ben nota teoria del "muro" di divisione tra
stato e chiesa era la grande innovazione americana.
A leggere le cronache di questi giorni sembra di essere ritornati al
Cinquecento: appartenere ad un credo diverso da quello della maggioranza è
rischioso. La differenza è che mentre nel Cinquecento la furia di omogeneità si
abbatteva sulle denominazioni cristiane oggi si abbatte su alcune religioni non
cristiane. In Svizzera, dove per anni gli italiani sono stati paria e
ghettizzati, oggi è la volta dei mussulmani: la divinità politica del
popolo (vox populi, vox dei) ha decretato per referendum come chi vive
sul suolo svizzero può o non può pregare (si comprende bene perché le
autorità cattoliche si siano schierate con la libertà di religione; mentre si
deve apprezzare la loro solidarietà ai mussulmani non si può però non far loro
presente che esse stesse si fanno complici di questa logica quando accettano che
dei politici decidano che il crocifisso è un simbolo culturale della nazione
italiana). Questo brutto giuoco alla pulizia religiosa piace molto ai
leghisti nostrani, i quali vorrebbero inseguire il sogno di "tutti uguali in
questo paese": "una fede, un re". Non per devozione ma per fanatica
interpretazione dell´identità collettiva. Quattro secoli e mezzo fa questa
ubriacatura di omogeneità religiosa fece del vecchio continente un mattatoio.
Nadia Urbinati Repubblica 3.12.09