A chi piace il diritto all'aborto?
Un primo risultato la lista per la vita di Giuliano Ferrara
l'ha già ottenuto, quello di far dire a Silvio Berlusconi e a Gianfranco Fini
che la 194 è una buona legge e loro non intendono toccarla. Buono. Il secondo
risultato lo sta ottenendo in queste ore, ed è di far calare la battaglia per la
vita dall'empireo delle guerre culturali al sottoscala dello scambio politico:
altro che i valori, l'amore e sant'Agostino, il problema è l'apparentamento col
Pdl e i sondaggi sul comune di Roma. Ottimo. Un terzo risultato è anch'esso già
all'incasso, ed è l'involgarimento sopra le righe del lessico politico,
giornalistico e satirico: si veda la prima pagina (e le successive) dell'inserto
dell'Unità di domenica, con un Casini in forma di «feto abortito» da
reimpiantare nell'utero di un Berlusconi «partoriente». E poi il Foglio si
lamenta se sospettiamo che ci sia qualcosa da mandare in analisi
dell'immaginario maschile sulla maternità e l'aborto che si sta scatenando di
questi tempi. Pessimo.
Su tutto - guerre culturali, guerriglie di potere, minuetti fra opinion makers
(esemplare il dialogo Ferrara-Merlo dei giorni scorsi) - aleggia il fantasma del
«diritto all'aborto». Con una nobile gara - maschile - a prendere le distanze da
quello che sarebbe un dissennato e gaudente slogan femminista, anzi «delle
femministe», di ieri e di oggi. E quando mai? Qui non si tratta di un
immaginario perverso, ma di una proiezione in piena regola. La traduzione del
problema dell'aborto in termini di diritto (da ridurre) è tutta loro oggi, così
come fu dei Radicali (per conquistarlo) negli anni 70. Ma sfidiamo i Ferrara, i
Merlo e quant'altri, a trovare nella letteratura femminista in materia un solo
riferimento all'aborto come diritto. Disgrazia, lapsus, incidente, effetto dello
squilibrio fra sessualità maschile e sessualità femminile: l'aborto è da sempre,
nel vocabolario femminista, un'eccedenza irriducibile al linguaggio del diritto
e dei diritti.Non credere di avere dei diritti si intitola, significativamente,
il volume della Libreria delle donne di Milano che ricostruisce questa eccedenza
dell'aborto dal linguaggio del diritto e dei diritti. Noi sull'aborto facciamo
un lavoro politico diverso, si intitolava un famoso documento del '75 che
spostava il fuoco dalla richiesta di una legge all'analisi della sessualità e
del desiderio (o non desiderio) di maternità sostenendo fra l'altro: «L'aborto
di massa negli ospedali non rappresenta una conquista di civiltà perché è una
risposta violenta e mortifera al problema della gravidanza e colpevolizza
ulteriormente il corpo della donna». «Mentre chiediamo l'abrogazione di tutte le
leggi punitive dell'aborto e la realizzazione di strutture dove sostenerlo in
condizioni ottimali, ci rifiutiamo di considerare questo problema separatamente
da tutti gli altri, sessualità, maternità, socializzazione dei bambini»,
scriveva un altro testo del '73. E sono di Carla Lonzi le seguenti parole del
1971: «L'uomo ha lasciato la donna sola di fronte a una legge che le impedisce
di abortire: sola, denigrata, indegna della collettività. Domani finirà per
lasciarla sola di fronte a una legge che non le impedirà di abortire. Ma la
donna si chiede: per il piacere di chi sono rimasta incinta? Per il piacere di
chi sto abortendo?». Non per caso né per scelta, ma per via di questa eccedenza
dell'aborto dal campo della giuridificazione, una parte significativa del
femminismo degli anni '70 era più favorevole alla semplice depenalizzazione che
non alla legalizzazione dell'aborto. E la 194, che oggi viene attaccata da un
lato come una legge permissiva e difesa dall'altro come una trincea
irrinunciabile, fu una legge di compromesso: fra patriarcato e libertà
femminile, fra cultura laica e cultura cattolica, fra de-criminalizzazione e
statalizzazione dell'aborto. Un compromesso nel quale - e oggi si vede - molto
sapere femminista restò fuori dalla codificazione. Ma che ha funzionato - anche
questo oggi si vede, dai dati - non come legge abortista, ma come cornice di
regolazione e limitazione degli aborti. Come mai questa storia e questa
elaborazione restino sistematicamente fuori dal campo della discussione
pubblica, tradotte e tradite nello scontro violento e riduttivo «diritto
all'aborto sì-diritto all'aborto no», è questione da interrogare. Di certo essa
rivela un'incompetenza maschile pari all'ostinazione con cui gli uomini tentano,
in modo ritornante e oggi più violento di altre volte, di reimpadronirsi della
parola decisiva sulla procreazione e del potere di colpevolizzazione
dell'esperienza femminile. Di certo essa rivela altresì che quel «lavoro
politico diverso» sull'aborto è da riprendere da parte delle donne, a lato e
oltre la difesa della 194. Le stesse cose ritornano, ma non ritornano mai le
stesse. Sessualità, desiderio e non desiderio di maternità, relazione fra i
sessi, rapporto fra libertà femminile e legge e fra esperienza femminile e
sapere medico-scientifico restano e tornano, in condizioni diverse dagli anni
70, campi da indagare. Con le parole di verità che lo scontro politico non sa
pronunciare.
Ida Dominijanni Il manifesto 18/2/08