Laicità del Trattato europeo: quando ci
si mette il diavolo
«Il rifiuto dei valori cristiani è
apostasia». Questa è stata la reazione di Benedetto XVI al mancato riferimento
alle radici cristiane dell'Europa nella Dichiarazione di Berlino, il documento
con cui i leaders europei si impegnano a rilanciare il processo di unificazione
politico-istituzionale dei 27 paesi membri. Per capire la ragione che ha spinto
il Papa a tale pronunciamento è utile ripercorrere le varie tappe dell'offensiva
teocratica diretta alle istituzioni europee.
Ne risulta una strategia deliberata volta a fare
indietreggiare l'Europa rispetto al principio di laicità da tutti gli stati
membri proclamato e considerato elemento imprescindibile della democrazia dalla
Corte europea dei diritti dell'uomo. La riconquista di una Europa dai valori
morali labili è già l'obiettivo di Giovanni Paolo II e lo persegue appoggiandosi
non tanto sulla religione quanto sulla «morale naturale». È una scelta acuta che
si colloca fra il religioso e il culturale e può permettere alle chiese di
ottenere il sostegno anche di elementi non religiosi. La riconquista morale deve
riguardare tutti, mentre l'adesione alla religione è in declino nella
popolazione e non costituisce più un motore sufficiente per sviluppare i
«diritti della persona», i principi morali e i «valori universali» che la chiesa
difende quando si tratta della famiglia, delle questioni etiche,
dell'omosessualità, della riproduzione umana, dell'inizio e della fine della
vita. L'impresa è a vasto raggio e la Chiesa cattolica, forte della sua lunga
esperienza di braccio di ferro con il potere, sa piazzare i suoi servitori più
fedeli nei posti chiave. Con grande abilità queste persone vigileranno sulle
posizioni delle chiese in generale e su quelle della Chiesa cattolica in
particolare e sapranno far valere le esigenze delle gerarchie religiose con
tenacia e discrezione.
Già nel 1970, la Santa Sede aveva affidato la propria
rappresentanza presso le istituzioni comunitarie alla nunziatura belga ma presto
questa non basta più ad assicurare al Vaticano la vigilanza quotidiana sugli
affari interni dell'Unione, sicché nel 1980 viene creata la Comece (Commissione
dei vescovi della comunità europea) con il compito di fungere da esecutivo
comunitario. Ma neanche questa basta e, nel 2005, Giovanni Paolo II nomina un
nunzio apostolico presso l'Unione europea.
L'inizio degli anni '90 è segnato dal dialogo e
dall'apertura. Nel Libro bianco del 1993, a proposito di democrazia
partecipativa il presidente Delors ricorda che le chiese hanno un'«identità» e
sono un «contributo specifico» da apportare e, prima della scadenza del suo
mandato nel 1994, istituisce un gruppo di lavoro chiamato «Un'anima per
l'Europa» allo scopo di «estendere il dialogo con le chiese all'insieme delle
tradizioni religiose e filosofiche presenti in Europa». Ne fa parte anche la Fhe,
Federazione umanista europea, unico membro non religioso.
Ma nel 2002, all'insaputa della Fhe, le chiese vengono
invitate a presentare delle proposte volte a stabilire «un dialogo strutturato
fra le chiese e la commissione europea». In giugno, arriva la proposta congiunta
della Comece e della Cec (Conferenza delle chiese europee) i cui punti salienti
sono: la messa a punto di una procedura di consultazione prelegislativa, con la
partecipazione di consiglieri del presidente della Commissione; sessioni di
lavoro regolari con obiettivi e su argomenti specifici previsti in progetti
legge che costituiscono fonte di particolare preoccupazione per le chiese;
riunioni di lavoro occasionali fra il presidente della Commissione e
rappresentanti di alto livello delle chiese; un ufficio di collegamento che
sviluppi un partenariato con la Commissione. Tale ufficio di collegamento, in
seno alla Commissione, consentirebbe la consultazione delle chiese e delle
comunità religiose sulle leggi in corso di preparazione.
Per il Vaticano questo è un grosso passo avanti rispetto al
1996, quando il Consiglio europeo di Torino aveva respinto la richiesta della
Comece di riconoscere un ruolo pubblico alle chiese con la motivazione che la
Santa Sede non era uno stato membro dell'Unione. La Comece ci aveva riprovato
nel 1997, in occasione del Trattato di Amsterdam, ma il testo era stato relegato
fra le Dichiarazioni aggiuntive al Trattato.
Nel 2002, si prepara il Trattato costituzionale europeo. La
Comece rende noto un testo dove si legge che le chiese «hanno il potenziale
dell'innovazione a livello delle società e dei governi» e vi si enuncia un
obiettivo concreto: «Un futuro Trattato costituzionale dovrebbe incorporare la
dichiarazione n. 11 dell'Atto finale del Trattato di Amsterdam, il quale
assicura il rispetto dello status delle chiese e delle comunità religiose
stabilito in ogni paese».
Così sarà. L'articolo 52 del Trattato costituzionale
riprende tale e quale il testo della Dichiarazione di Amsterdam. Alcuni
parlamentari europei, fra i quali gli italiani Elena Paciotti e Lamberto Dini,
ne chiedono la soppressione, osservando tra l'altro che: (...) L'Unione non ha,
e la Convenzione non ricerca, una competenza nel settore della teologia o della
filosofia. (...)Questo titolo riguarda la democrazia e non la teocrazia».
Il titolo del Trattato che accoglie l'articolo 52 è infatti
dedicato alla democrazia partecipativa e al dialogo, due concetti largamente
accettati e che nessuno si sogna di rimettere in questione. Sulla democrazia
partecipativa, l'articolo 46 recita: «Le istituzioni dell'Unione danno ai
cittadini e alle associazioni rappresentative (...) la possibilità di far
conoscere e di scambiare pubblicamente le loro opinioni su tutti i settori di
azione dell'Unione». Le parole chiave sono: associazioni «rappresentative»,
scambiare «pubblicamente», «tutti i settori di azione». Quindi non sono previsti
settori riservati che sfuggirebbero allo scambio pubblico e le associazioni
devono essere «rappresentative».
Un bell'ostacolo, dato che le chiese insistono sempre sulla
propria appartenenza alla società civile, però non adempiono certo al criterio
di rappresentatività. Inoltre preferiscono trattare determinate questioni in
camera caritatis, lontano da occhi e orecchie indiscreti. L'ostacolo si supera
ricorrendo a due articoli identici, uno per la società civile e un altro
riservato alle chiese in virtù della loro «identità» e del loro «contributo
specifico», due termini che nessuno si cura di definire e che si prestano alle
interpretazioni più creative. Dunque, utilizzando il canale della democrazia
partecipativa le chiese si assicurano un accesso diretto e privilegiato presso i
servizi della Commissione europea senza soddisfare il criterio di
rappresentatività. Non può non venire in mente la «sana laicità», cara a
Ratzinger, ovvero la separazione fra sfera ecclesiastica e sfera statale in
tutto «salvo che per le questioni morali».
Quando la bozza del Trattato costituzionale europeo viene
adottata dai capi di stato e di governo nel novembre 2003, l'articolo 37 (poi
52) passa quatton quattoni grazie al polverone sulle radici cristiane alzato
dalle gerarchie cattoliche e da Papa Wojtyla in persona. Ma una volta adottato
il Trattato, Ratzinger afferma che esso «garantisce» i «diritti istituzionali»
delle chiese. Nessuno ne aveva parlato prima. Insomma la tattica scelta dalle
gerarchie vaticane è stata duplice: chiedere due cose per ottenerne una e non
parlare di diritti istituzionali se non dopo la loro approvazione. E comunque
tenere aperta la partita. L'occasione si ripresenta con il rilancio del
Trattato, Angela Merkel si dichiara subito favorevole a un riferimento alle
radici cristiane nel preambolo e chiede alla Comece di collaborare alla
revisione del testo mentre fa sapere ai parlamentari europei che è meglio che se
ne stiano alla larga. Tuttavia, la pressione congiunta dei paesi a forte
immigrazione extracomunitaria e a quelli più laici fa sì che nella Dichiarazione
di Berlino di radici non si parli. «Apostasia verso se stessa», dichiara
Ratzinger. Ma come si spiega tanta veemenza? Qual è la vera posta in gioco? Ce
lo spiega il giurista Giuseppe Ugo Rescigno: (...) una costituzione non è un
libro di storia, ma un documento che prescrive qualcosa ad altri, e dunque,
qualunque parola ne venga immessa diventa fondamento possibile di una qualche
prescrizione: parlare di radici cristiane dell'Unione significa dare fondamento
costituzionale alle pretese di chi, in nome di tali radici, vuole introdurre
anche a livello dell'Unione poteri, privilegi e immunità per le confessioni
cristiane; in secondo luogo (...) la tutela specifica della libertà religiosa
non serve a tutelare la libertà ma il potere o il privilegio o l'immunità di
alcune confessioni religiose, così a livello di Unione questo richiamo non
necessario alla libertà religiosa domani, o forse già oggi, potrà servire per
giustificare la concessione di particolari poteri o privilegi o immunità ad
alcune o anche a tutte le confessioni religiose.(...) (in La laicità
indispensabile, vedi www.uaar.it).
Alle gerarchie cattoliche ovviamente non bastava ottenere
dei «diritti istituzionali» sulla carta. Il nulla osta di Bruxelles faceva
comodo per potere intervenire sulla scena politica a piacere, ma bisognava
scegliere il momento e il luogo più idonei per mettere in pratica i nuovi
diritti. La scelta cade sull'Italia in occasione del referendum sulla
procreazione assistita ed è un successo. Le gerarchie cattoliche contribuiscono
al fallimento del referendum senza sollevare troppe proteste. Poi viene la legge
sui Dico che il Vaticano segue con una puntigliosità degna di un governo ombra,
indicando ai parlamentari quali sono i «valori non negoziabili» e Papa Ratzinger
ingiunge ai cattolici di trasgredire le leggi dello stato italiano contrarie
alla dottrina morale cattolica. Se domani servirà intervenire in altro luogo,
sarà possibile farlo in piena legittimità europea e ci sarà già stato un
precedente.
E il «principio supremo della laicità dello stato» sancito
dalla Corte costituzionale? Chi lo difende? Il presidente della Repubblica
invita a cercare «soluzioni condivise» con la Chiesa cattolica sui temi di
bioetica e il capo del governo precisa che non va più bene parlare di
«separazione» fra chiesa e stato. È meglio la parola «dialogo». Sono forse tutti
intimoriti dal monito lanciato ieri l'altro dal fine teologo Ratzinger e cioè
che «l'inferno esiste ed è eterno»?
Le informazioni relative alla Comece sono tratte dall'articolo di Georges Liénard in «Actes du 18è colloque de la laïcité», sous la direction d'Eric Remacle, éd Cedil, Bruxelles 2006
Vera Pegna Il manifesto 28/3/2007