IL "DIRITTO MITE" AD UNA
BUONA MORTE
Come
contributo all'attuale dibattito su etica, eutanasia, testamento biologico,
pubblichiamo (con un titolo redazionale) un testo inedito scritto da Gabriella
Caramore, che il quotidiano dei vescovi Avvenire avrebbe dovuto pubblicare
domenica 9 luglio 2006 nello spazio riservato alla rubrica "Sul confine", che la
Caramore curava dal settembre 2005. L'articolo, che contiene un approccio aperto
e problematico alla questione del testamento biologico, è stato bloccato prima
che venisse mandato in stampa, per esplicita volontà del direttore Dino Boffo.
In seguito a questa censura, la Caramore ha deciso di terminare la sua
collaborazione con Avvenire.
"Oh Signore, dai a ciascuno la propria morte, ma una morte che sia davvero una
morte…". Questa era la struggente invocazione di Rainer Maria Rilke, in uno dei
suoi sonetti più celebrati e più rivelatori, insieme, di una visione delle
malattie della modernità e della speranza di rinvenire comunque, in essa,
qualcosa che sia antidoto al disfacimento. Una supplica che per noi oggi ha il
sapore come di un sogno antico: chi di noi può pensare davvero di andare
incontro a una morte che sia "davvero" una morte, e cioè a un momento di congedo
che sia una ricapitolazione di senso, un meditato distacco dagli affetti, una
delega di eredità di ciò che in una vita abbiamo, eventualmente, costruito? Oggi
le nostre vite sembrano, per lo più, composizioni casuali di disgregati
frammenti, e le prefigurazioni della morte non possono che rifletterne, come in
uno specchio, il disordine e la vanità, il silenzio e il vuoto. Il timore di
ciascuno è, per questo, credo, di andare incontro a un precipitare buio dentro
la morte, nella privazione di ogni coscienza, in balìa di decisioni altrui, che
ci potrebbero far trascorrere mesi o anni della nostra esistenza biologica in
sofferenze non lenibili, o in stati prolungati di incoscienza o di demenza. Ed è
perciò che accade di sentire sempre più spesso persone che auspicano, per sé e
per i propri cari, una morte "rapida e improvvisa", come se soltanto un trapasso
di cui non ci si rende nemmeno conto possa essere "davvero una morte".
Credo che il dibattito intorno al testamento biologico, che, se non erro,
dovrebbe essere in discussione alle Camere proprio in questi giorni, abbia come
sua radice profonda un'esigenza che andrebbe presa in seria considerazione e
salvaguardata il più possibile, cioè quella di tentare di dare di nuovo un senso
al momento finale della propria vita, affidato non soltanto all'artificio della
tecnica, capace di prolungare l'esistenza biologica al di là di ogni umana
sopportazione, o al di là di ogni ragionevole parvenza di esistenza umana, ma
anche - come accadeva un tempo, nello spegnimento dei vecchi quando arrivava il
momento della "sazietà" dei giorni - al desiderio, se lo si può chiamare così,
di separarsi finalmente da una vita che non si può più chiamare tale, in virtù
di una sofferenza che cancella ogni sensazione, ogni affetto, ogni pensiero, o
di un azzeramento totale di ogni funzione umana. Come ha detto Ignazio Marino,
un medico di cui più volte abbiamo avuto modo, credo, di saggiare la delicatezza
intelligente nei confronti dei pazienti e la ragionevolezza nell'approccio ai
temi sollevati dalla medicina in relazione all'etica comune, e oggi Presidente
della Commissione Sanità al Senato, "come medico, so bene quale dramma possa
comportare l'assenza di un testamento biologico di un paziente per i familiari,
ma anche per i medici curanti, che oggi in Italia rischiano l'accusa di omicidio
volontario se decidono di sospendere le terapie ad un malato il cui corpo è
stato ormai abbandonato dalla vita".
Non si tratta, è ovvio, di voler cancellare dall'orizzonte dell'umano la
sofferenza, sia fisica che mentale, o la debolezza del corpo e della psiche, che
non solo fanno parte della condizione di noi creature, ma che sono la pasta in
cui, dolorosamente ma inevitabilmente, lievita la nostra statura umana. Si
tratta proprio del contrario. Non lasciare il patimento dei corpi e dei cuori
privato di un orizzonte di senso, non permettere che l'esperienza dello
spegnimento di quella straordinaria e irripetibile avventura che è ogni
esistenza umana rimanga nuda di uno sguardo compassionevole che l'accompagni.
Certo, non tutto è semplice, e comporta responsabilità gravi tracciare delle
linee di comportamento buone per ogni situazione specifica, perché nulla è
lineare nelle nostre intricate biografie. A volte, nella morte come nella vita,
è inevitabile assumersi il rischio di decisioni dure. Per questo è così arduo -
ma non impossibile - tracciare delle leggi che possano rispondere agli infiniti
"gesti" che ogni morte mette in scena. Per questo andrebbe, in questa come in
altre delicate materie, elaborato qualcosa che assomigli a un "diritto mite"
(Gustavo Zagrebelsky), un diritto che tuteli la dignità di ciascun essere, senza
nulla imporre e senza nulla impedire. Parlare di "libertà", nella scelta di
morire, non dovrebbe sembrare a nessuno una difesa arrogante del disprezzo della
vita indebolita. Ma un atto d'amore per un'esistenza che ci è stata data,
affinché, anche nel momento estremo, almeno in un barlume di coscienza,
rimaniamo "immagine e somiglianza" di chi ce l'ha donata.
di Gabriella Caramore, Curatrice e conduttrice di programmi radiofonici, tra cui, dal 1993, "Uomini e profeti", programma di cultura religiosa, in onda su Radio Tre - Adista Notizie n.69 2006