L'EDITTO DI RATISBONA
Molti pensano che se si dà torto al Papa si prende una posizione antireligiosa e
si manca di rispetto al suo magistero. È una posizione tanto più irriguardosa
per chi non si sente subordinato a quel magistero.
Molti pensano che il Papa non abbia mai torto, non solo perché non si può e non
si deve mai dire, ma anche perché è inconcepibile che abbia torto.
Molti pensano che il Papa non possa avere torto, tanto che si espone
immediatamente al torto la persona, il gruppo, la parte politica che decidano di
esprimere un giudizio negativo su un atto o una parola del Papa. Tale giudizio
viene considerato in sé, invade il campo di un'au-torità di altra natura che non
si può coinvolgere in una polemica, meno che mai se quella polemica ha a che
fare con la dottrina.
Infatti chi sta criticando, anche animatamente, il Papa dopo le cose dette a
Ratisbona su Maometto? Solo persone-guida del mondo islamico e masse del mondo
islamico di cui avevamo già detto noi, l'Occidente, tutto il male possibile. E
dunque sono schedati per quello che sono: nemici. Volete associarvi ai nemici
che uno di questi giorni potrebbero incoraggiare un gesto violento, dicendo male
del Papa?
Per proseguire in questa analisi di una situazione mai prima accaduta (il Papa
parla e una parte del mondo è in rivolta) occorrono due precisazioni.
La prima è che la grande polemica è esplosa dopo dettagliate argomentazioni di
un docente di teologia - Joseph Ratzinger - nel corso di una sua lezione. Non in
un discorso del Papa.
La seconda è che molti di coloro che da questa parte del mondo sono stati colti
di sorpresa dalle parole del docen-te-Papa e intendono esprimere il proprio
dissenso, non lo fanno per riguardo alla parte del mondo che si sente offesa né
per unirsi al clamore delle proteste che potrebbero diventare violenza. Lo fanno
perché essi pensano (e pensa anche chi scrive) che un errore è un errore. E
questo errore è stato commesso dalla nostra parte, ciò che chiamiamo cultura
occidentale. Dunque è dal punto di vista della cultura in cui viviamo - e non in
cavalleresca difesa di altre culture - che l'errore va definito. Per definire un
errore è necessario un contesto. Il contesto qui, è: guerra e pace, potere e non
potere, religione e politica.
Nel contesto si situa il fatto. Parlando dalla sua cattedra di teologia
all'Univer-sità di Ratisbona, Joseph Ratzinger ha svolto considerazioni storiche
sul rapporto Cristianesimo-Islam, e ha usato come documento citazioni e
testimonianze (autorevoli nella cultura cristiana) sulla cattiva qualità della
visione teologica islamica.
Ha dunque aperto una disputa aspra ma che sarebbe solo di scuola se il docente
non fosse anche il Papa, dunque capo della Chiesa cattolica e capo di Stato. La
brusca variazione di livello porta le parole del teologo Ratzinger dalla disputa
di scuola al contesto pace-guerra. E infatti una parte del mondo islamico ha già
dichiarato di considerarsi in guerra con il mondo cristiano. E una parte del
mondo cristiano ha già accolto e ricambiato con altrettanta determinazione
quella dichiarazione di guerra.
Il teologo Ratzinger, nel pronunciare il suo duro giudizio su Maometto, sia pure
come citazione storica nel corso di una lezione, ha chiamato in causa
Ratzinger-Papa, dunque il potere. Non solo il potere come peso mondiale della
Chiesa cattolica. Ma il potere anche più grande, anche materiale che viene
evocato all'istante nel momento in cui una voce così alta, che di solito si
frappone ai conflitti, in questo caso si fa componente importante di una delle
parti in conflitto.
Quello che vedono molti nel mondo è un potere morale grandissimo che si schiera
con un potere materiale grandissimo. Quegli occhi sono, in molti casi, occhi di
chi si sente senza potere e percepisce dunque come offesa la voce religiosa
della Chiesa cattolica che era abituata a conoscere e a rispettare come «non
combattente».
Impossibile negare, poi, che il teologo, essendo Papa, ha condotto, persino
senza volerlo, la sua escursione storica fuori dal territorio della disputa
religiosa e dentro le mura della politica. Ciò avviene non solo perché per
convenienza, storia o ragione, la bandiera islamica sventola ormai su quasi
tutti i conflitti nel mondo, ma anche perché rafforza e conferma la definizione
«cristiana» che i più estremi combattenti islamici amano dare del nemico.
Una volta che tutto ciò è avvenuto, occorre riconoscere due conseguenze. La
prima è un peggioramento delle condizioni del conflitto. Sembrano favoriti, da
una parte e dall'altra, coloro che raccomandano di credere nello scontro di
civiltà e dunque nella prova finale del confronto fra il bene e il male.
La seconda è la disattivazione (momentanea, dobbiamo disperatamente sperare) di
quella forte voce cattolica che, a differenza del fondamentalismo protestante,
non solo non si è mai prestata alla cupa profezia del confronto finale tra il
bene e il male, non solo non ha mai preteso rese e abiure per accettare gli
islamici (immigrati o governi) nel club dei buoni, ma ha sempre teso la mano,
alla pari alle altre fedi.
Dunque è alla parte del mondo in cui il teologo Papa insegna e governa che
importa decidere in che modo tener conto delle sue parole. Non tanto, non solo,
non ancora per le reazioni e le proteste (molte, come sempre, strumentali,
molte, a quanto pare, spontanee, in varie parti del mondo islamico) ma per
l'improvviso cambiamento di immagine del mondo a cui apparteniamo, di cui siamo
voce, e sul quale il Papa della Chiesa di Roma ha un'influenza grandissima. Ecco
perché ci riconosciamo in ciò che ha scritto sabato il New York Times, forse il
più autorevole quotidiano del mondo democratico: «Le parole del Papa sono
tragiche e pericolose». È ciò che è avvenuto ed è giusto dirlo.
Furio Colombo l'Unità - 17 settembre 2006