IDENTITA'

Un ottimo articolo di Amartya Sen, premio Nobel per l'economia, pubblicato da La Repubblica del 20 Giugno 2006.

Una visione a 360 gradi, contro ogni presunzione ideologica e contro ogni preclusione aprioristica.

 

“Non sono ovviamente il primo a interrogarmi sui tratti caratteristici dell’identità europea. All’in­domani della prima guerra mondiale, il poeta e saggista francese Paul Valéry ne aveva proposto un’interpretazione che aveva conosciuto una grande notorietà. Io chiamo europei, diceva in sostanza Valéry, i popoli che nel corso della loro storia hanno subito tre grandi influenze: quelle che possono essere simboliz­zate dai nomi di Roma, Geru­salemme e Atene. Da Roma vengono l’impero con il po­tere statale organizzato, il di­ritto e le istituzioni, lo status di cittadino. Da Gerusalem­me, o per meglio dire dal cri­stianesimo, gli europei han­no ereditato la morale sog­gettiva, l’esame di coscienza, la giustizia universale. Atene, in fine, aveva lasciato in ere­dità il gusto della conoscenza razionale, l’ideale di armo­nia, l’idea dell’uomo come misura di tutte le cose”.

(Tzevan Todorov in un intervento a Genova il 9.6.06)

  

 Viviamo in un mondo diviso, disgregato dalla disuguaglianza economica e dalla disaffe­zione politica, ma anche, sempre di più, dalla coltiva­zione, a fini violenti, di siste­mi univoci di classificazione degli individui, che limitano profondamente la ricchezza degli esseri umani. Lo sfrut­tamento di un’identità con­flittuale si manifesta in mol­te forme diverse, in distinte aree dell’interazione socia­le. Gli individui combattono contro altri individui in no­me di ciò che la loro presun­ta identità unica esige da lo­ro, dividendosi rispettiva­mente secondo criteri di raz­za, di religione, di etnia o di nazionalità: tali divisioni si traducono in scontri razzia­li, massacri intercomunitari o stragi politiche.

In cui immancabilmente fini­scono con l’essere cancellate tutte le altre affiliazioni degli in­dividui diverse da quella specifica caratteristica in nome della quale viene combattuta un’artificiale battaglia ideologica. A livello globale, la forza divisoria della classi­ficazione univoca assume sempre di più la forma della difesa di una separazione rigida, e teoricamen­te impenetrabile, tra religioni, o comunque tra civiltà concepite su base religiosa. Il XX secolo, nella sua fase terminale, ha visto fiorire le teorie - formulate esplicitamen­te o avanzate implicitamente - sul cosiddetto “scontro di civiltà”. Spessissimo, ormai, gli aspetti po­litici dello scontro globale in corso sono considerati un corollario del­le divisioni religiose o culturali a li­vello mondiale, e il mondo è visto sempre più spesso, quanto meno indirettamente, come una collet­tività di religioni, o di cosiddette “civiltà” definite innanzitutto, in base alla religione, un’ottica che ignora tutti gli altri modi, e sono centinaia, attraverso cui gli indivi­dui vedono se stessi. Tutto questo è basato sul curioso presupposto che la popolazione mondiale pos­sa essere classificata esclusiva­mente in base a un sistema di sud­divisione unico e dominante.

Questa visione univoca dell’i­dentità, che attualmente è molto in voga, non è solamente incen­diaria e pericolosa, è anche incre­dibilmente ingenua. Nella vita quotidiana, noi ci consideriamo membri di una quantità di gruppi, e a tutti questi gruppi riteniamo di appartenere. La stessa persona può essere, senza che ciò rappre­senti la minima contraddizione, cittadina americana, di origine asiatica indocinese, con antenati vietnamiti, cristiana, progressista, donna, vegetariana, storica, insegnante scolastica, romanziera, femminista, eterosessuale, sostenitrice dei diritti dei gay e delle le­sbiche, amante del teatro, militan­te ambientalista, appassionata di tennis, velocista, musicista jazz e profondamente convinta che gli alieni, immigrati dallo spazio nel corso dei secoli, siano presenti in massa sulla Terra e che siano facil­mente identificabili in virtù della loro propensione a citare inces­santemente Shakespeare (che è materia di insegnamento comune nei licei spaziali). Una persona possiede molte affiliazioni diver­se, alcune abbastanza consuete (per molti versi assolutamente or­dinarie, come l’essere ricco o l’es­sere povero, l’essere donna o l’es­sere uomo), altre piuttosto parti­colari, perfino eccentriche (a volte estremamente eccentriche). Ma ognuna di queste collettività, a cui la persona in questione appartie­ne simultaneamente, le conferisce un’identità specifica che può ave­re grande importanza, a seconda del contesto e delle circostanze, per determinare il suo comporta­mento e le sue priorità.

Data la natura ineludibilmente plurale delle nostre identità, sia­mo chiamati a prendere decisioni (a scegliere) sull’importanza rela­tiva delle nostre diverse associa­zioni e affiliazioni in ogni determi­nato contesto. Se i terroristi e gli istigatori di violenza cercano di coltivare e sfruttare l’illusione di unicità, la classificazione a senso unico della popolazione mondiale in base a un unico criterio identi­tario dominante, legato alla civiltà di appartenenza, facilita loro il compito. Quelli che amano classi­ficare per civiltà possono usare questo metodo come base di partenza per ar­rivare a sostene­re la tesi dello “scontro di ci­viltà” (strada og­gi molto battu­ta), oppure pos­sono imboccare la via, conforte­vole e rassicu­rante, che porta a raccomandare il “dialogo tra ci­viltà”, che è un sentimento di gran lunga più bello (e non del tutto impopola­re anche nelle stesse Nazioni Unite): entram­bi gli approcci, tuttavia, sono accomunati dall’errata con­vinzione che le relazioni tra es­seri umani diffe­renti, con tutte le loro diverse di­versità, possano in qualche modo essere espresse sotto forma di rap­porti tra civiltà, invece che di rap­porti tra persone. Tutti e due que­sti approcci, in un modo o nell’al­tro, ci rendono più difficile adem­piere a quelle che sono delle ne­cessità, e cioè ragionare sulla va­rietà di affiliazioni e associazioni che ci caratterizza e assumerci la responsabilità delle nostre scelte. Un esempio dei danni che pro­voca un simile approccio è bene il­lustrato dal modo in cui il mondo occidentale si è appropriato del patrimonio storico mondiale in materia di scienza e matematica, arrivando a considerare la scienza e la matematica moderne come di­scioline occidentali per eccellenza (nonostante molti fondamentali concetti scientifici o matematici abbiano origine da tutt’altra par­te). Per fare un esempio, quando un matematico americano dei giorni nostri ricorre a un “algorit­mo” per risolvere un difficile pro­blema di calcolo, sta rendendo omaggio - di solito senza saperlo - ai contributi del matematico mu­sulmano del IX secolo al-Khwariz­mi, dal cui nome deriva lo stesso termine di algoritmo (il termine “algebra” viene dal libro arabo Al­Jabr wa-l Muqabalah). Ignorando l’importanza di questa tradizione storica araba e musulmana, le grossolane classificazioni per ci­viltà tendono a mettere la scienza e la matematica nel paniere della “scienza occidentale”, lasciando le altre civiltà a cercare motivi d’orgoglio nella profondità delle dottrine religio­se. E il risultato è che i militanti non occidentali concentrano la loro attenzione sulle tematiche che li differen­ziano dall’Occi­dente (come i credi religiosi particolari, le usanze locali ca­ratteristiche e le specificità cul­turali), invece che su quegli ar­gomenti che ri­specchiano le interazioni globali (e che includono la scienza, la matematica, la letteratura, la musica, la nar­razione, la li­bertà di espressione e così via). La compatibilità tra oltranzisti occi­dentali ed estremisti islamici - né agli uni né agli altri, per fare un esempio, importa granché di un al-Khwarizmi – è una delle più per­niciose alleanze di fatto di questo nostro inizio di secolo.

Qualcosa di analogo si può dire del modo in cui l’oltranzismo occidentale si è appropriato del fondamentale concetto dell’assumere le decisioni attraverso il dibattito e il confronto pubblico, concetto che può essere considerato la base della democrazia deliberativa nel mondo moderno. La lunga tradi­zione di esempi di questo genere di processo deliberativo in Africa, in India, in Iran e nell’Asia occiden­tale, in Cina, in Giappone e nell’A­sia orientale, viene totalmente ignorata allo scopo di creare la tesi peculiare dell’ “eccezionalismo” occidentale. I fautori di questa vi­sione della storia un tantino su­perficiale spesso ricorrono a ogni possibile diversivo per distogliere l’attenzione dai numerosi esempi di tolleranza e dialogo presenti nella storia mondiale, altrettanto diffusi degli esempi di intolleran­za. La tesi dell’origine esclusiva­mente occidentale della democrazia deliberativa può essere soste­nuta a partire da una curiosa, dop­pia rimozione: da un lato la rimo­zione degli esempi di tolleranza nelle culture non occidentali, dall’altro la rimozione dei casi di ma­nifesta intolleranza all’interno della tradizione occidentale.

Non si dà alcuna importanza, ad esempio, al fatto che quando l’ere­tico Giordano Bruno veniva bru­ciato sul rogo a Roma con l’accusa di apostasia, l’imperatore indiano Akbar, un musulmano, aveva ap­pena portato a termine il suo pro­getto di tradurre in legge il diritto di ogni cittadino a professare libera­mente la propria fede, e aveva ap­pena completato una serie di in­tensi incontri di discussione che avevano coinvolto le diverse co­munità religiose presenti in India: induisti, musulmani, cristiani, ebrei, parsi, giainisti e altri, inclusi gli atei. La persecuzione operata dalle inquisizioni europee, o dai nazisti, se è per questo, sono im­plicitamente considerati casi insi­gnificanti, mentre gli episodi di in­tolleranza nella storia islamica e nella storia di altre società non oc­cidentali sono visti come la prova evidente dell’onnipresente intol­leranza esistente in quelle società, svolgendo la funzione di fonda­mento empirico per lo sviluppo di una teoria monolitica sulla natura unicamente e intrinsecamente “occidentale” della tolleranza e del processo decisionale condivi­so.

­Le lezioni che traiamo dalla sto­ria non possono, naturalmente, non basarsi su un’elaborata sele­zione, e non c’è niente di strano nel fatto che i democratici abbiano ra­gioni a sufficienza per celebrare certe conquiste del passato e con­testualmente sminuire il pessimi­smo generato dalle infrazioni alla regola della tolleranza sociale e del dialogo pubblico. Questa selezio­ne distorta viene fornita come di­mostrazione della tesi, inspiega­bilmente dogmatica, della con­trapposizione tra il liberalismo dell’Occidente e l’intolleranza del resto del mondo, tesi che merite­rebbe un’analisi molto più ap­profondita di quanto non avvenga normalmente.

 

 

La grossolanità di questa “teoria delle civiltà” generata dall’illusione “solitarista”, oltre a menomare la nostra capacità di comprensione della storia mondiale e del mondo contemporaneo, e a impedire una comprensione adeguata­mente approfondita delle influen­ze causali che stanno dietro ai re­centi sviluppi del terrorismo glo­bale, confonde le idee su una serie di questioni politiche. Uno degli argomenti più penalizzati dalla re­torica riduzionistica è quello dell’individuazione dei modi e dei mezzi per contrastare il terrori­smo globale. Ma la ristrettezza del­la “teoria delle civiltà” rappresen­ta un ostacolo, un ostacolo artifi­ciale, anche in molte altre questio­ni di rilevanza politica, tra cui la va­lutazione dei problemi creati dall’immigrazione da un Paese a un altro.

Al di là della gravità dei problemi pratici di un flusso migratorio in entrata relativamente cospicuo (e non si fa fatica a concepire proble­mi di difficile soluzione che siano reali, e non immaginari), va anche tenuto conto del fatto che storica­mente le civiltà hanno tratto gran­de beneficio dall’immigrazione, sia l’immigrazione delle persone che quella delle idee. Anzi, la rapi­da diffusione delle idee spesso è stata merito dei movimenti delle persone. Non voglio dire che do­vrebbe prevalere una concezione ampia della positività dei movi­menti migratori, mettendo in se­condo piano tutti gli argomenti che possono essere avanzati a di­scapito, ma difficilmente potremo giungere a una soluzione adegua­tamente obbiettiva di determinati problemi se ci ostiniamo a non te­nere minimamente conto di con­siderazioni generali. La specificità di un problema consiste in una de­scrizione delle sue dimensioni e del suo ambito. Non consiste in un irresistibile invito a essere limitati, sia di spirito che di mente. La sto­ria dell’Europa, dell’Asia, dell’Afri­ca, dell’America, sarebbero al­quanto incomplete se le migrazio­ni fossero considerate ininfluenti. Poiché la tesi dello “scontro di civiltà” tende a promuovere, quan­tomeno implicitamente, una vi­sione estremamente limitata della storia delle civiltà, è particolar­mente importante esporre con chiarezza le tematiche generali.

Se la follia della “teoria delle ci­viltà” è un esempio efficacissimo del danno che produce un sistema di classificazione “solitarista”, esi­stono molte altre applicazioni, in altri ambiti dell’interazione socia­le, di quello che è fondamental­mente il medesimo, scarno ap­proccio. Lo stesso problema dell’immigrazione è caratterizzato da molte altre semplificazioni eccessive, legate alla tentazione di attri­buire un’importanza univoca a una determinata identità umana. Per illustrare l’ampiezza e la porta­ta del problema, mi soffermerò brevemente su alcune delle que­stioni che forse non sono affronta­te nel modo dovuto negli Stati Uni­ti, con i loro dibattiti sull’immigra­zione illegale e l’identità linguisti­ca e letteraria.

Pensiamo, ad esempio, alla strombazzatissima richiesta di espellere dagli Stati Uniti tutti gli immigrati illegali, proposta che ul­timamente sta guadagnando un certo seguito, nonostante la straordinaria storia di accoglienza ai nuovi arrivati che può vantare questo Paese. Gli immigrati clan­destini, questo è ovvio, hanno l’i­dentità di immigrati, oltre che quella di clandestini, e le autorità devono tenerne conto al momen­to di definire la linea politica da se­guire sull’argomento. Ma, con l’aiuto di una propaganda ad hoc, gli americani già insediati nel Pae­se possono venire persuasi a con­siderare l’identità di immigrato clandestino come una descrizione completa di questi individui. Ep­pure queste persone hanno anche altre identità, non semplicemente quelle, che li accomunano a tutti noi, relative alla loro natura di es­seri umani e al loro impegno per la loro famiglia e la loro comunità, ma anche quelle identità relative alla professione che svolgono, al ruolo particolare che interpretano nel sistema economico e alla pro­spettiva globale che apportano - direttamente o indirettamente - al dibattito pubblico americano.

L’identità ha un ruolo impor­tante anche riguardo al trattamen­to di coloro che già sono immigra­ti e si sono stabiliti qui, negli Stati Uniti, oggi, a prescindere dal fatto se abbiano già acquisito o no la cit­tadinanza americana. In questo contesto, la questione della lingua è importante. L’apprendimento dell’inglese dovrebbe essere im­posto a tutti? Certo, è evidente l’importanza che riveste la padro­nanza dell’inglese per chiunque venga a stabilirsi in questo Paese, e quello di cui si può fruttuosamen­te discutere sono i modi e i mezzi per ottenere questo risultato.

La cosa particolarmente nociva, però, è la proposta, di cui si è par­lato molto, che mira a cancellare il diritto a ricevere spiegazioni sulle leggi federali e altri strumenti lega­li in una lingua che non sia l’ingle­se. La proposta ha senso soltanto in un contesto di profonda confu­sione tra il tipo di identità lingui­stica che una persona dovrebbe idealmente avere (in particolare essere in grado di parlare inglese, oltre a qualsiasi altra lingua che l’individuo in questione può aver imparato da piccolo) e l’identità linguistica che una persona effet­tivamente ha, che può essere ben lontana dall’ideale, in qualsiasi frangente, se quella persona, ma­gari nonostante tutto l’impegno possibile, non possiede un’ade­guata padronanza dell’inglese. Poter avere accesso alle leggi e alle normative è parte dei diritti fonda­mentali dell’individuo, e l’impor­tante identità degli esseri umani in quanto persone in possesso di questi diritti fondamentali non può essere arbitrariamente rimos­sa adducendo punitive motivazioni di insufficienze linguistiche.

C’è poi una considerazione molto generale da fare, che si ag­giunge alle tematiche che ho trat­tato in questi ultimi minuti. Una quota importante della violenza presente nel mondo in questo mo­mento nasce dalla focalizzazione sull’identità religiosa degli esseri umani, come se nient’altro avesse importanza. In questo contesto, sostenere la rilevanza di un altro strumento di classificazione, di­verso dalla religione, vale a dire le lingue che parliamo e con cui ci troviamo a nostro agio, contribui­sce, secondo me, a neutralizzare l’artificiosa brutalità dei conflitti interreligiosi.

La lingua ha interpretato un ruolo simile in molti movimenti politici. Un esempio è la secessio­ne del Bangladesh, dove la rilevan­za attribuita alla lingua bengalese ha avuto l’effetto di rendere più semplice, al nuovo Stato, svilup­pare una politica non religiosa - per non dire laica - e ha aiutato la consistente popolazione non isla­mica del Bangladesh a integrarsi meglio con la comunità maggiori­taria, a cui era accomunata dalla lingua bengalese, a prescindere dalla fede religiosa. Di più: lo spo­stamento dell’attenzione dalla re­ligione alla lingua ha avuto un grande effetto lenitivo, contrib­uendo a seppellire il ricordo degli scontri degli anni 40 tra induisti e musulmani in quello che oggi è il Bangladesh (analogamente a quanto accadeva nel resto del sub­continente): un processo costrut­tivo che è cominciato quasi subito dopo la divisione del subconti­nente, avvenuta nel 1947 (molto prima della nascita del Bangladesh, nel 1971).

Il punto da affermare riguardo all’identità è il seguente: concen­trare l’attenzione su un altro ele­mento di identificazione, diverso dalla religione, rappresenta un passo avanti, nel mondo di oggi, perché toglie centralità ai conflitti religiosi. La tendenza, nel mondo contemporaneo, a privilegiare un’identità in particolare rispetto a tutte le altre ha già fatto grandi danni, fomentando violenze raz­ziali, conflitti intercomunitari, ter­rorismo religioso, repressione de­gli immigrati, negazione dei diritti umani fondamentali e via discor­rendo. Mentre il nuovo secolo si dipana, è importante riaffermate la pienezza di esseri umani non miniaturizzati nella gabbia di un’unica identità. Non ci dobbia­mo far rinchiudere in tanti piccoli compartimenti, come vorrebbero gli artigiani del malcontento e del terrore. Un unico, limitato sistema di classificazione non è in grado di cogliere la grandiosità dell’essere umano. Questa, a mio parere, è la sfida centrale del pensiero identi­tario all’inizio del XXI secolo.

(Traduzione di Fabio Galim­berti)

 

Amartya Sen         La Repubblica del 20.06.06