L’offesa svizzera
con il topo anti italiano
«Noi lombardi e voi ticinesi parliamo la stessa lingua. Tutti e due diciamo “va’
a da’ via ‘l cul!”»,
tuonò allegro l’allora sindaco leghista di Milano Marco Formentini in «visita
ufficiale» ai «cugini».
Cugini? Dipende. E lo dimostra l’infame campagna contro i «ratti» italiani
lanciata contro i nostri frontalieri.
È da un pezzo che la Lega ticinese, per bocca del suo leader
Giuliano Bignasca
(dimentico di essere stato condannato nel ’93 dalla Corte di Lugano per aver
impiegato una dozzina
di operai jugoslavi senza permesso di lavoro) insiste nella stessa accusa: i
lavoratori comaschi,
varesini, verbanesi «rubano il lavoro agli svizzeri». Un’ossessione. Che ha
spinto La Provincia di
Como, che pure sinistrorsa non è, a titolare: «C’è sempre un leghista più a
nord di noi».
Un’accusa vecchia. Basti ricordare quanto scriveva James Schwarzenbach, che
scatenò tre
referendum (e nel primo sfiorò la vittoria) contro i nostri immigrati e in
particolare le loro mogli e i
loro bambini: «Sono braccia morte che pesano sulle nostre spalle. (...)
Dobbiamo liberarci del
fardello. Dobbiamo, soprattutto, respingere dalla nostra comunità quegli
immigrati che abbiamo
chiamato per i lavori più umili e che nel giro di pochi anni, o di una
generazione, dopo il primo
smarrimento, si guardano attorno e migliorano la loro posizione sociale. Scalano
i posti più comodi,
studiano, s’ingegnano: mettono addirittura in crisi la tranquillità dell’operaio
svizzero medio, che
resta inchiodato al suo sgabello con davanti, magari in poltrona, l’ex guitto
italiano».
Per questo sono più indecenti, quei ratti usati contro i
frontalieri. Perché arrivano nella scia di una
via crucis segnata da tappe di indicibile dolore. La spedizione punitiva
di squadracce armate che a
Goeschenen nel 1875 spararono uccidendo sugli operai che costruivano il tunnel
del San Gottardo e
si erano ribellati alla morte dell’ultimo di 144 compagni ammazzati dalle
esplosioni di dinamite, dai
crolli, dalle fughe di gas... E poi giorni di caccia all’italiano nel 1896 a
Zurigo, quando le autorità
dovettero organizzare treni speciali per rimpatriare i nostri, terrorizzati. E
la chiusura della sala
d’aspetto di III classe della stazione di Basilea agli «zingari d’Italia»
in transito, in larga parte
piemontesi, lombardi, veneti. E la scandalosa sentenza d’assoluzione per la
strage di Mattmark. E
l’uccisione per motivi razziali di poveretti come Vincenzo Rossi (buttato dal
padrone in un
altoforno), Attilio Tonola o Alfredo Zardini, ammazzato a pugni e calci da un
razzista che fu
condannato nel 1974 a 18 mesi.
Certo, la nostra storia in Svizzera non può essere ridotta
solo a questo. Tantissimi italiani, sia pure
spesso dopo grandi sofferenze, sono riusciti a integrarsi benissimo. A
guadagnarsi la stima,
l’amicizia, l’amore dei nostri vicini. E sarebbe ingiusto non ricordare, con le
cose che ci hanno dato
dolore (ad esempio il rifiuto della cittadinanza ancora nel 2004 ad Armando e
Giuseppina
Colatrella, che arrivarono nella zona di Lucerna nel 1960 e da mezzo secolo lì
lavorano e pagano le
tasse) anche tutte le cose positive, molto positive, che hanno segnato i nostri
rapporti.
Ma proprio perché accanto alle luci ci sono state ombre, è inaccettabile la
campagna partita su
Internet (ma già pronta a finire sui muri di tutto il Ticino) con tre
topastri presentati ciascuno con
una piccola scheda. Il primo chiamato Fabrizio, piastrellista, di Verbania. Il
secondo Bogdan,
rumeno, sfaccendato. Il terzo Giulio, italiano, avvocato, e per non lasciare
dubbi sul cognome,
dotato di uno scudo con tre monti. Eccoli, i nuovi nemici del benessere
svizzero: il frontaliero
italiano, il vagabondo rumeno, il ministro delle finanze di Berlusconi, reo di
aver varato lo scudo
fiscale che avrebbe danneggiato le banche elvetiche. Titolo della campagna: «Bala
i ratt...». Cioè:
ballano i topi...
Sono mesi che La Provincia di Como pubblica paginate
sui timori dei circa 50mila italiani che ogni
giorno attraversano la frontiera per lavorare in Svizzera, dove certo non
avrebbero potuto inserirsi
in questi anni se non ci fosse stato bisogno di loro. Un titolo? «Lega contro
frontalieri: "Ci rubano il
lavoro"». Un altro? «Stretta in Ticino: "basta infermieri dal Comasco"». La
campagna coi topi sul
sito www.balairatt.ch va però oltre. E supera perfino i manifesti con le
pecore bianche che scalciano
fuori dalla Svizzera una pecorella nera presentati dalla Svp (Udc nei cantoni
francese e italiano) di
Christoph Blocher, noto per aver detto che l’articolo 261 bis del Codice penale
svizzero che punisce
la discriminazione razziale e chi nega l’Olocausto gli fa «venire il mal di
pancia».
E se i leghisti ticinesi, per ora, si chiamano fuori da questa forzatura, ci
sono deputati cantonali
come Pierre Rusconi che non solo sono d’accordo ma si augurano che sia questo il
tema della
prossima campagna elettorale. Marco Zacchera, deputato del Pdl e sindaco di
Verbania, ha già
presentato un’interrogazione parlamentare: non ritiene il governo «che questa
campagna abbia
schietta impronta demagogica e anche razzista e sia in netto contrasto con gli
accordi vigenti italosvizzeri
»?
Ultima annotazione: Michel Ferrise, l’ideatore della campagna,
ha detto che l’anonimo committente
gli aveva «chiesto di trovare un’idea originale che portasse i ticinesi ad
aprire gli occhi su
determinate questioni» e che aveva scelto i ratti perché «il ratto è qualcosa di
spregevole» e
contiene «il concetto di "derattizzazione"». Che sia razzista, non c’è dubbio.
Originale no. Lo dice
una vignetta pubblicata un secolo fa dalla rivista americana Judge in cui il
vecchio zio Sam assiste
corrucciato allo sbarco, da una nave proveniente «direttamente dalle topaie
dell’Europa», di
migliaia di topi di fogna coi baffi alla figaro che hanno scritto sui cappelli o
sul coltello che reggono
tra i denti: «Mafia», «Anarchia», «Assassinio»...
È passato un secolo, e noi italiani, grazie a quelli come il signor Ferrise e i
suoi committenti, siamo
alle prese ancora con le stesse porcherie...
Gian Antonio Stella Corriere della Sera 29
settembre 2010