Il baratto sulla
legalità
È opinione diffusa che legalità e morale pubblica non siano, per gli italiani,
imperativi essenziali.
In parte perché la loro memoria sarebbe corta oltre che selettiva:
i misfatti dei politici evaporano
presto, l’esempio che viene dall’alto manca, e di rado le sentenze giudiziarie
sfuggono al destino
d’esser subito degradate a pareri, opinabili come ogni parere.
Non solo: esponendo la «sua verità», ieri in un video, Fini ha denunciato la
confusione tra affari
piccoli come la casa di Monaco e affari ben più criminosi, condannando la stampa
usata dai politici
«come manganello» per liquidare l’avversario. L’esempio, lui vuole darlo: «Se
dovesse emergere che mio cognato è proprietario, non esiterei a
lasciare la Presidenza della Camera. Non per personali responsabilità, ma perché
la mia etica pubblica me lo imporrebbe».
È il venir meno di tale etica che crea nei cittadini
cinico disorientamento.
L’operazione Mani Pulite suscitò grandi speranze, ma anch’essa fu breve e,
soprattutto, non aiutò a
restaurare la cultura della legalità. Sfociò anzi in un’accentuazione della
corruzione.
Al punto che ci furono magistrati, come Gherardo Colombo, che abbandonarono il
mestiere e
ricominciarono da zero, insegnando ai giovani quel che era stato sradicato dai
cervelli: il senso della
legge, la Costituzione. Il magistrato che aveva indagato sulla P2 e
sull’assassinio di Ambrosoli
constatò due cose. Primo: «Tra prescrizioni, leggi modificate, abrogate,
si è arrivati a una
riabilitazione complessiva dei corrotti». Secondo: «Lo strumento del
processo penale è inadeguato a
riaffermare la legalità quando l’illegalità sia particolarmente diffusa e non
esistano interventi che in
altri campi vadano nella stessa direzione. Diventa una spirale, crea sfiducia e
disillusione».
Le intuizioni che Colombo confidava il 17 marzo 2007 a Luigi
Ferrarella, sul Corriere, s’inverano
più che mai in questi giorni. Lo scandalo della casa di Montecarlo sommerge più
pesanti misfatti,
come la corruzione di magistrati, testimoni, parlamentari, e a nulla servono gli
strumenti di giustizia
visto che la politica non intende far pulizia da sola in casa propria, senza
attendere l’ultimo grado
dei processi. Non si dà per vinta neanche quando le inchieste sono fondate: il
22 settembre una
maggioranza di deputati è giunta a usurpare il potere giudiziario, definendo
«non decisive ai fini
della colpevolezza di Cosentino» le intercettazioni che confermano la sua
complicità con i
camorristi casalesi. La stessa rottura dentro la destra tende a farsi opaca,
equivoca: sembrava che la legalità fosse il
punto dirimente ma forse non era vero, forse non era che parvenza: fame di
vento, come nel Qohelet
biblico. Sembrava che Fini avesse puntato il dito sull’anomia che caratterizza
l’odierno regime, e
invece c’è il rischio che anche quest’intuito («Il garantismo non può essere
impunità», ha detto ieri)
sia involucro senza sostanza.
Quando fu cacciato dal Pdl, il 29 luglio, si ebbe
l’impressione che qualcosa di nuovo nascesse: una
destra la cui bussola è il rispetto della legge, la costituzione, la separazione
dei poteri. Sembrò
addirittura che Fini fosse più ardito della sinistra, mai entusiasta su questi
fronti. Sul periodico
online della Fondazione FareFuturo, da lui presieduta, Filippo Rossi
parlò perfino di vergogna, il 19
agosto: «Il pensiero corre ai sensi di colpa per non aver capito prima. Per non
aver saputo e voluto
alzare la testa». Da quel giorno sono passate poche settimane, e la vergogna
quasi è svanita. Oppure era vergogna,
sì, ma di che? non del conflitto d’interessi per anni accettato, non delle 40
leggi ad personam, non
della foga calunniatrice esibita dal finiano Bocchino contro Prodi durante
l’affare Telekom-Serbia,
non dell’abitudine all’illegalità che ha spinto Berlusconi a disfarsi di Fini.
Se la rieducazione alla legalità stesse davvero a cuore alla
destra finiana o a Casini, non assisteremmo allo spettacolo
singolare che si sta recitando: non una battaglia che restituisce maestà alla
legge, ma un negoziato-
scambio attorno allo scudo costituzionale che proteggerebbe Berlusconi dalla
giustizia: un lodo che
comunque infrangerebbe quell’articolo 3 della Costituzione che prescrive la
legge eguale per tutti. Il
negoziato tra Pdl e la finiana Giulia Bongiorno è completamente surreale.
Ciascuno sa che
Berlusconi, prima di far politica e dopo, ha ignorato la legge: arricchendosi
con soldi non puliti,
ospitando il mafioso Mangano a Arcore e chiamandolo eroe, sfuggendo più volte
alla giustizia.
Quel che i finiani dicono da settimane è che la battaglia legalitaria
cesserebbe, se solo finissero le
calunnie contro il Presidente della Camera diffuse da giornali tributari di
Palazzo Grazioli
(Giornale, Libero). In queste ore le calunnie si sono moltiplicate, con la
pubblicazione di un
documento pescato nei Caraibi che rivela come la casa di Monaco sia stata
acquistata dal cognato di
Fini, ed è per questo che i finiani hanno smesso le trattative sullo scudo. Più
che una trattativa è un
baratto - io ti do il lodo, tu cessi il linciaggio - ma in politica e nei Tg gli
eufemismi abbondano: è
tregua sulla giustizia, quella di cui si parla.
In realtà il baratto non avrebbe dovuto neppure cominciare.
Così accade quando la democrazia
funziona, e l’eccezione italiana conferma l’anestesia delle sue classi
dirigenti, rese insensibili
all’infrazione etica e ai suoi camuffamenti verbali. Ma in fondo, la
minaccia di rompere è ancora
più assurda. Perché avviare trattative, se basta un giornale per stroncarle?
Perché interromperle,
dando a credere che i metodi di Berlusconi sono una deludentissima sorpresa? Se
tutto è
scambiabile, perché perorare la morale («La legge è eguale per tutti. Non si
deroga solo perché si
appartiene al ceto politico», ha detto venerdì Fini)? Perché promettere un sì al
governo, mercoledì,
se - così ancora Fini - «questo è un momento buio della democrazia»? Come
fidarsi di chi imputò a
Prodi i rifiuti napoletani, e oggi che i rifiuti tornano dichiara con Bertolaso:
«C’è qualcosa che non
mi torna»? Può darsi che il divario fra parole e azioni sia prudenza: meglio
aspettare l’ora in cui il premier
sbaglierà i conti, perderà la maggioranza. Resta il disagio procurato da
una verità subordinata alle
convenienze. Resta il dubbio che l’obiettivo non sia restaurare il senso della
legge, ma proteggere
l’uno e/o l’altro contendente.
Difficile in queste condizioni che gli italiani
riscoprano la legalità. Quel che scorgono è una lotta tra
boss che si minacciano, si ricattano. Le parole di Rossi nell’editoriale di
FareFuturo sulla vergogna
perdono peso: la testa s’alza o s’abbassa, a seconda. Si vota per le
intercettazioni a Cosentino, e
intanto si preparano scudi immunitari. Si celebrano i veri eroi Borsellino e
Falcone, e non si protesta
per l’indegno silenzio del premier sull’assassinio camorristico del
sindaco Vassallo a Pollica.
Gli italiani sono meno colpevoli di quanto si creda. Nei sondaggi non vengono
mai rivolte giuste
domande (per esempio: approvate il politico tutelato se delinque?). Mal
informati, mal interrogati,
mal trattati, per forza hanno idee torbide sulla legge. Oggi non vedono
battaglie per una democrazia
pulita. Vedono, per tornare alle parole di Colombo, che la «società del ricatto»
dilaga. Che «la
giustizia è l’unica sede nella quale si pensa che debbano essere accertate le
responsabilità. Oggi,
chiunque dica al mattino una cosa e la sera il contrario, è irresponsabile di
entrambe le
dichiarazioni». Molti stanno firmando una lettera di Giuseppe D’Avanzo al
premier, in cui gli si chiede di
rinunciare esemplarmente allo scudo. Non stupisce che i firmatari siano oltre
105.000. Stupisce che
non siano di più: vuol dire che sono ancora tanti, i legalitari che si nutrono
di vento.
Barbara Spinelli La Stampa 26 settembre 2010