L'arte del veleno
un'invenzione italiana
Una vaga somiglianza: come riconoscere i tratti di una persona conosciuta molti
anni fa nel volto del figlio o del nipote. Ecco quello che accade al lettore di
libri e documenti del passato quando cerca di capire qualcosa di questo affare
che riempie le nostre cronache e che per tutti si chiama «casa di Montecarlo».
La verità, ecco la domanda dell´opinione pubblica: verità sulla casa, verità su
chi muove le fila dell´affaire. La aspettiamo dalle parole dei protagonisti,
dalle laboriose certificazioni di uno Stato da burla, l´abbiamo attesa invano
dalla pubblica dichiarazione del secondo e malcapitato protagonista. Intuiamo
confusamente che chi la possiede è il principale e finora silenzioso
protagonista: ma abbiamo ragione di credere che non ce la dirà. Eppure la verità
è sotto i nostri occhi. Il suo nome è una parola antica, suggerita dalla memoria
involontaria a moltissimi commentatori e cronisti, che hanno avuto però il torto
di usarla come metafora.
Veleno, ecco la parola. Proviamo a prendere sul serio il senso
letterale. Vale la pena di leggere sull´argomento un bel libro recente dello
storico Alessandro Pastore (Veleno, Il Mulino, Bologna settembre 2010). Vi si
raccontano storie lontane, casi criminali, perizie di tossicologi e di
criminalisti. Non vi troverete né il caffè di Pisciotta né quello di Sindona.
Ma scoprirete che da secoli l´Italia si è conquistata nel mondo una grande fama
come patria dei veleni.
Chiedere per conoscenza all´inventore del Rinascimento italiano, lo storico
Jacob Burckhardt, o a Stendahl, quell´Arrigo Beyle milanese appassionato lettore
delle antiche cronache italiane. Nell´Italia del Rinascimento, secondo Thomas De
Quincey, il veneficio conferì all´assassinio la raffinatezza di un´opera d´arte:
da allora in poi chi ricorre al pugnale o alle armi da fuoco è come chi
preferisce una rozza riproduzione al capolavoro originale.
È un fatto che da noi, in Italia, le lotte per il potere, per l´amore, per
la gloria, hanno mostrato una decisa predilezione per le vie sottili e tortuose
degli intrighi e dei venefici evitando la prova di forza a viso aperto, la
violenza semplice e brutale. È noto che il veleno come opera d´arte
conobbe la sua massima raffinatezza e il più intenso uso nella corte papale:
celebri fra tutti i casi dei Borgia, che fecero sistematicamente uso di quei
mezzi e lasciarono a Lucrezia, che fu in tutti i sensi la donna di famiglia, la
discutibile eredità di una fama sinistra, non cancellata dalle tardive pratiche
devote.
L´arte del veleno fu dunque una invenzione tutta italiana, una «abominable
innovation from Italy», scrisse De Quincey. Strumento prediletto delle
congiure, i principi rinascimentali italiani le dedicarono la stessa cura che
altri sovrani europei investivano allora nell´organizzazione di eserciti e
flotte. E se lo zio di Amleto non era un italiano, William Shakespeare apprese
molto dall´Italia, come si conveniva al supremo artista del teatro del potere.
L´arte poi declinò ai tempi dell´incipiente borghesia, involgarendosi a
strumento di gelosie d´amore e di inferni domestici. Ma una volta identificati e
classificati i preparati mortali nei laboratori di polizia cominciò a languire
il fascino sinistro del veleno: quello di una morte che arriva a
destinazione, spedita da mano lontana, strisciando come il serpente nascosto nel
giardino dell´Eden. La possibilità di sbarazzarsi dell´avversario senza
lasciare tracce ha sempre aguzzato gli ingegni. È per questo che, nel declino
della morte per veleno (che tuttavia esiste), ne è rimasta immortale l´idea e si
è ripresa la ricerca.
C´era bisogno di qualcosa di nuovo. E ancora una volta è stata l´arte italiana a
trovare la risposta, rinverdendo la sua antica perizia nelle invenzioni
abominevoli, il suo gusto impareggiabile per la scelta di astuzie coperte al
posto della violenza palese e dello scontro sul campo. Oggi il veleno che uccide
non è un artificio segreto: è una cosa che sta sotto gli occhi di noi tutti,
come la lettera smarrita di un celebre racconto di Edgar Allan Poe. Basta
una carticella, un documento adeguatamente ritoccato e cucinato, non importa se
falso o autentico, meglio se misto di verità e di invenzione: lo si tiene in
serbo per usarlo al momento opportuno. Lo si inocula nella forma
più pubblica e clamorosa possibile, via Internet, sulla stampa quotidiana, in
televisione.
Più si domina il campo dell´informazione meglio è. L´opinione pubblica diventerà il portatore sano del veleno spedito alla vittima designata. Da quel momento in poi basterà aspettare. Il destinatario potrà avere reazioni diverse: accasciarsi e sparire in silenzio, come ha fatto Dino Boffo, reagire con ira e con clamore, come ha fatto Gianfranco Fini. Non importa. L´effetto è sicuro. La vittima designata assorbirà il veleno e subirà gli effetti letali della gogna mediatica rilasciata a dosi quotidiane tanto più rapidamente quanto più rigido sarà il suo senso dell´onore, più forte la sua sensibilità all´esposizione della propria immagine pubblica. Ma prima o poi si leverà di mezzo o altri lo convinceranno a farlo. Questa almeno è ciò che spera il mandante, che intanto si manterrà lontano, silenzioso e apparentemente estraneo alla vicenda.
Adriano Prosperi Repubblica 28.9.10