La buona politica e
la società civile
Pubblichiamo ampi stralci della "Lezione sulla democrazia" che Gustavo
Zagrebelsky ha tenuto
sabato alla Festa del Partito Democratico a Torino.
"Politica" è una parola bastarda. Ha molti padri e madri. Non è sempre la stessa
cosa. Dipende da
chi la genera e per che cosa.
Per chiarire, mi avvalgo d'una citazione di George Orwell. Nel 1948, scriveva
(in Writers and
Leviathan): «Questa è un'epoca politica. La guerra, il fascismo, i campi di
concentramento, i
manganelli, le bombe atomiche sono quello a cui pensare». Se non si parlava di
campi di sterminio
e di genocidio, era per la diffusa ignoranza di ciò che era effettivamente
accaduto nel cuore
dell'Europa. Auschwitz sarebbe in seguito assurto a simbolo di una certa
concezione della politica.
Il che è certo molto imbarazzante per la politica stessa.
Questa visione della politica è terrificante. Ha come
madre la potenza sopraffattrice, nelle relazioni
tra i popoli e tra parte e parte, tra i dominatori e gli oppressi, all'interno
dei popoli. L'uso di
categorie primordiali come, ad esempio, quelle di amore e odio, per dividere il
campo dell'agone
politico, sono il riflesso di questa concezione della politica basata sulla
malevolenza tra gli esseri
umani. La concezione opposta della politica è espressa in una frase di
Aristotele. Se là la politica è violenza
e prepotenza, qui «compito della politica pare essere soprattutto il
creare amicizia» tra cittadini, cioè
legame sociale (Etica Eudemia, 1234 b).
Con le parole di Hannah Arendt (Was ist Politik? - inediti
del 1950, pubblicati nel 1993, trad. it.
Che cosa è la politica? Torino, Comunità 2001, pp. 5 ss.), ciò che è proprio
di questa concezione
della politica è l'essere collocata infra, in mezzo, tra le persone.
La virtù politica è propria di coloro
che amano stare "con" le altre persone, non "sopra", nemmeno "accanto" o,
peggio, "altrove"; di
coloro che conducono la loro vita insieme a quella degli uomini e delle donne
comuni, stando
dentro le relazioni personali e di gruppo, quelle relazioni che, nel loro
insieme, fanno, di una
semplice somma d'individui, una società. Chi disdegna stare con le
persone comuni, credendosi
diverso, e il suo cuore batte piuttosto per i salotti, le accademie, le
fondazioni culturali, le tavole
rotonde, gli studi televisivi, potrà certo essere un'ottima persona. Ma non è
adatto alla politica in
questo senso. Ciò è così vero che, proprio gli uomini politici più distanti
dalla vita della gente
comune, che disprezzano, fanno a gara nel dar prova di atteggiamenti populistici
e volgari, per far
mostra d'essere uguali agli altri, "uno di loro"; in realtà offendendoli e
insultandoli, nel momento in
cui le trattano non come cittadini ma come plebe.
Forse non abbiamo mai pensato che tra tutti i regimi politici,
la democrazia è l'unico che
presuppone amicizia tra governanti e governati. I regimi autocratici o
oligarchici, comportano
separazione che, nel caso migliore, si traduce in indifferenza, in quello
peggiore, in inimicizia e
avversione. Solo la democrazia vive e si alimenta di un circuito di reciproca
fiducia che può esistere
solo a condizione che i governanti non si costituiscano in classe separata, solo
a condizione che i
cittadini comuni non li vedano come cosa diversa da sé.
Che significa classe separata? Innanzitutto che, una volta entrati in uno dei
luoghi della politica, si
sia acquisito il diritto di non uscirne mai più, fino a quando provveda la
natura. I ceti o le caste delle
società premoderne erano stratificazioni sociali alle quali si apparteneva dalla
nascita alla morte.
Oggi, al ceto politico di regola non si appartiene per diritto di nascita,
anche se non manca, anzi si
moltiplicano i casi di nepotismo, di familismo e di trasmissione ereditaria
delle cariche politiche.
In politica oggi, di norma, "si entra", o, come si dice
autorevolmente, "si scende" (una volta si sarebbe
detto "si sale" o si "ascende"), ma, una volta entrati non se ne vuole più
uscire. Se proprio occorre
lasciare un posto, ce n'è sempre un altro cui aspirare e che ci attende.
Oggi quello che importa è
entrare in un giro di potere. A che "giro" appartiene? ci chiediamo,
vedendo qualcuno che "gira",
per l'appunto, da un posto all'altro. Quando entri in un giro, non ne esci più,
a meno che tu abbia
tradito le aspettative di chi ti ci ha messo.
Questa è la separazione: tra chi, in un giro del potere, c'è e chi non c'è. E
volete che chi non c'è non
si senta mille miglia lontano da chi vi è dentro? Che non si consideri
appartenere a un altro mondo?
E, all'opposto, possiamo credere che chi è dentro non consideri chi è fuori un
potenziale pericolo,
un'insidia per la propria posizione acquisita, e non faccia di tutto per
restarci aggrappato,
impedendo accessi non graditi al proprio giro chiuso o, almeno, per gestirli
secondo propri criteri, in
modo che gli equilibri acquisiti non siano scossi? Ma questa è la sclerosi
della politica.
Quando si sente dire che occorre promuovere il rinnovamento
della classe dirigente e, per questo, bisogna
"allevare" nuove leve politiche, il linguaggio – l'allevamento - tradisce
perfettamente l'orizzonte
culturale in cui si pensa debba avvenire il cosiddetto "ricambio", quel ricambio
che tutti a parole
dicono necessario ma che, secondo l'idea dell'allevamento, è perpetuazione dello
status quo che
produce cloni. Di quest'atteggiamento di separatezza e, in definitiva, di
inimicizia, testimonianza eloquente è
l'atteggiamento del mondo politico nei confronti della cosiddetta "società
civile", un'espressione e
un concetto che non ha mai goduto di buona fama, soprattutto a sinistra.
Questa è una lunga storia
che sarebbe da ricostruire interamente, a partire da quando, dopo la
Liberazione, effettivamente la
pretesa dei partiti di rappresentare tutto ciò che di "politico" vi era da
rappresentare, era giustificata.
Ma oggi? Oggi, una società civile è difficile negare che esista.
Dobbiamo capirci. Assai spesso – per squalificarne il concetto
stesso – la si intende come "i salotti" dove s'incontrano persone disparate
che presumono d'essere élite del Paese e si auto-investono di chissà quale
compito salvifico, o come
lobby più o meno segrete o gruppi d'interesse settoriale che curano i
propri affari, legalmente e
talora anche illegalmente tramite corruzione o collusione. Da tutto ciò, che ha
niente a che fare con
la democrazia, la politica dovrebbe guardarsi. Da questa "società civile",
piuttosto "incivile", chi si
occupa di politica dovrebbe cercare di stare lontano, il più possibile.
Ora, chi vuole difendere il circolo chiuso della politica e i suoi sistemi
di cooptazione demonizza la
società civile identificandola con questi ambienti. Ma è un'operazione
che sa di diversivo, cioè di
tentativo di spostare l'attenzione su un falso obiettivo, effettivamente
indifendibile.
La società civile esiste, ma è un'altra cosa: è
l'insieme delle persone, delle associazioni, dei gruppi
di coloro che dedicano o sarebbero disposti, se solo ne intravedessero l'utilità
e la possibilità, se i
canali di partecipazione politica non fossero secchi o inospitali, a dedicare
spontaneamente e
gratuitamente passione, competenze e risorse a ciò che chiamiamo il bene comune.
Quante sono le
persone, singole e insieme ad altre, che a partire dalle tante e diverse
esperienze, in tutti gli ambiti
della vita sociale, a iniziare dai più umili e a diretto contatto con i suoi
drammi e le sue tragedie,
sarebbero disposte a dare qualcosa di sé, non per un proprio utile immediato, ma
per opere di più
ampio impegno che riguardano la qualità, per l'appunto civile, della società in
cui noi, i nostri figli e
nipoti si trovano e troveranno a vivere? Da quel che mi par di vedere,
tantissime.
Quando si parla di politica e di sua crisi, perché
l'attenzione non si rivolge a questo potenziale serbatoio di energie?
Non per colonizzarle, ma per trarne, rispettandone la libertà, gli impulsi
vitali. In fin dei conti, sono
questi "servitori civili", quelli che più di altri conoscono i problemi e le
difficoltà reali della vita
nella nostra società. C'è più sapienza pratica lì che in tanti studi accademici,
libri, dossier che spesso
si pagano fior di quattrini per rimanere a giacere impilati. Perché c'è così
poca attenzione e apertura,
anzi spesso disprezzo, verso questo mondo?
La risposta alla domanda formulata sopra è semplice: la scarsa attenzione,
se non l'ostilità, dipende
dalla difesa di rendite di posizione politica che sarebbero insidiate
dall'apertura. Non c'è da fare
tanti giri di parole: è la sempiterna tendenza oligarchica del potere
costituito. Viene in mente la frase
dell'abate Siéyès con la quale inizia il celebre libello "Che cos'è il terzo
stato", un testo che
contribuì a creare autocoscienza in chi allora – la Francia pre-rivoluzionaria –
chiedeva riforme:
"Che cos'è il terzo stato? Tutto. Che cos'è stato finora nell'ordinamento
politico? Niente. Che cosa
domanda? Diventare qualcosa". Noi potremmo tradurre: "Che cos'è la società
civile? Molto. Che
cosa è nell'ordine politico? Quasi nulla. Che cosa occorre che diventi?
Qualcosa".
Sotto questo punto di vista, c'è oggi in Italia una specifica situazione
d'emergenza politica e
democratica, rappresentata dalla legge elettorale vigente, con la
quale rischiamo di essere chiamati
alle urne, nel momento in cui – col favore dei sondaggi – piacerà a chi di
dovere. Questa legge
sembra, anzi è, fatta apposta per garantire l'impermeabilità del ceto politico,
la sua autoreferenzialità,
per munire la sua separatezza. È una legge, nella sua essenza, dello stesso tipo
di
quelle vigenti nelle dittature di partito. Il fatto che non vi sia "il" partito,
ma vi siano "i" partiti, non
cambia il giudizio. La sua ratio, come direbbero i giuristi, può
esprimersi così: dall'alto discende il
potere e dal basso sale, o si fa salire, il consenso. Ma questa non è
democrazia. E', se si vuole,
" democratura ", secondo la felice e, al tempo stesso orrenda,
espressione dell'esule bosniaco Predrag
Matvejevic. Col sistema elettorale attuale, i vertici dei partiti – tutti quanti
– dispongono dell'intero
potere di definire chi formerà la rispettiva corte in Parlamento. Non è poca
cosa per loro e questo
spiega il fatto che, a suo tempo, quando fu approvato, non ci sia stata una
reazione adeguata. Il
potere si è capovolto e cominciamo ad accorgercene. E ci accorgiamo di quanto
ciò finisca per
alimentare sentimenti, risentimenti e atteggiamenti anti-politici, da cui tutti,
meno i demagoghi,
hanno molto da perdere.
La ragione per non andare più a votare con questa legge
elettorale non si riduce alla pur
rilevantissima stortura ch'essa comporta: il fatto cioè che deputati e senatori
siano nominati dall'alto,
senza alcuna possibilità d'influenza degli elettori, altro che nel distribuire
il numero di "posti" che
spettano all'uno e all'altro partito, assegnati poi a questo o quello per
beneplacito altrui. La posta è
assai più grande: per i partiti è il dilemma tra l'apertura alla società o la
chiusura; per i cittadini tra
la politica e l'antipolitica, tra la partecipazione e l'esclusione politica, tra
la fiducia nella democrazia
e il risentimento contro la democrazia.
Quando parliamo di democrazia, però, non pensiamo solo a partiti, elezioni,
parlamenti, governi, e
cose di questo genere. In una parola, non pensiamo solo a forme e istituzioni
politiche, cioè a
tecniche di governo. Pensiamo anche a una sostanza della società.
Ora, la domanda da porre è se ci può essere democrazia
come forma in una società non
democratica. La risposta è sì. Ci può essere. Ma che genere di
democrazia? La democrazia come
tecnica di governo, innestata su una realtà sociale non democratica, non fa che
amplificarne e
moltiplicarne i caratteri non democratici o antidemocratici, rappresentandoli,
generalizzandoli e, per
così dire, rendendoli obbligatori per tutti. Per esempio, noi non diremmo certo
che una società a
maggioranza razzista e xenofoba è democratica. Questa società può
senz'altro governarsi in forme
democratiche, cioè la maggioranza può imporre per legge la sua visione del mondo
razzista e
xenofoba. Questo ci dice che la democrazia, intesa solo come forma di reggimento
politico, non è
affatto più tranquillizzante di altre. Sotto certi aspetti, anzi, fa più
paura, perché ha dalla sua la forza
del numero. Questo spiega il fatto che la democrazia può essere, o diventare,
odiosa al pari e forse
più di altre forme politiche. Ciò accade quando alla forma (democratica) del
potere corrisponde una
sostanza non democratica della società.
Ma che cosa è una società non democratica? In breve: una
società in cui esistono discriminazioni e
disuguaglianze, tali che una parte, per così dire, viva bene sopra un'altra che
vive male e questa
differenza alimenta odio e violenza. Usciamo dal generico: è una società
dove qualcuno possa dire:
"questa è casa mia" e tu sei un intruso ch'io posso escludere e respingere a mio
piacimento; dove, se
non ti "integri", cioè non ti rendi irriconoscibile nella tua identità, non hai
diritto di cittadinanza;
dove la povertà e il disagio sociale sono abbandonati a se stessi, nella
solitudine; dove il lavoro non
è considerato un diritto, ma solo un fattore dell'impresa subordinato alla sua
logica e dove i
disoccupati e i precari sono solo un accidente fastidioso di un "sistema" e non
un problema per tutti;
dove l'istruzione e la cultura sono riservati ai figli di coloro che possono;
dove la salute è il
privilegio di chi può permettersi d'affrontare le spese che la sua cura
comporta. Noi avvertiamo
queste discriminazioni in modo sempre più acuto. La povertà,
l'insicurezza e la solitudine
aumentano, anche se spesso hanno vergogna di mostrarsi, come bene sanno coloro
che operano nei
servizi sociali, pubblici e privati.
Il divario tra chi può curare la propria formazione culturale
e chi
non può aumenta, e spesso si manifesta in questa forma odiosa e umiliante per il
nostro Paese: chi
può manda i suoi figli fuori dell'Italia. La disuguaglianza giunge a segnare i
corpi, divide quelli
bene curati e quelli degradati: addirittura lo stato dei denti è diventato, anzi
ri-diventato qual era un
tempo, segno di condizione sociale.
E noi vorremmo che tutto ciò non ingeneri inimicizia sociale? Sarebbe
ingenuo sperarlo. E
vorremmo che chi sta dall'altra parte della società, quella che dal basso guarda
a quella che sta in
alto, non nutra diffidenza, per non dire di più, verso una democrazia che
accetta questa loro
condizione? Una condizione che non giustifica certo, ma spiega il carattere
violento dei rapporti
anche quotidiani tra le persone, di chi si sente più forte sul più debole e del
debole come reazione al
forte, nelle infinte situazioni in cui quel divario può essere fatto valere,
nelle famiglie, nella strada,
nelle scuole, nelle fabbriche, nei rapporti tra uomo e donna, tra "normale" e
"diverso", eccetera.
È all'opera l'incultura della sopraffazione che è
l'esatto opposto dell'ethos necessario alla democrazia.
Qui, nella denuncia della mentalità dilagante, nella difesa e promozione di una
cultura della
convivenza e nell'azione per contrastare l'incultura della violenza, c'è un
compito che ci riguarda
tutti, in quanto questa società non ci piaccia affatto. Ci riguarda come
cittadini cui la democrazia sta
a cuore come un bene cui non vogliamo rinunciare. Ma riguarda anche i cittadini
che militano in
partiti politici che hanno la parola democrazia nelle proprie ragioni fondative
o addirittura nel
proprio simbolo. Ecco un'altra buona ragione per abbandonare l'idea che la
politica si faccia
principalmente nelle stanze dei palazzi del potere o negli uffici delle
burocrazie di partito, che il
buon politico sia quello esperto di "scenari", alchimie, tattiche e strategie.
Tutto questo è
importante, ma non basta. Siccome non basta, abbiamo il dovere di chiederci:
dove siamo quando
nel nostro Paese si avvelenano i rapporti tra le persone, nelle tragedie
dell'immigrazione come in
quelle delle famiglie di senza-lavoro e nei drammi del lavoro senza sicurezza;
nelle proteste per una
scuola che affonda come nella tragedia di chi è colpito dalla forza scatenata
della natura: nei nostri
uffici o tra chi ha bisogno di solidarietà? Ecco perché è necessario stringere i
rapporti tra partiti e
società, abbandonare l'idea e le pratiche che fanno pensare che gli uni possano
fare a meno
dell'altra, e viceversa.
Gustavo Zagrebelsky la
Repubblica 13 settembre 2010