E’ venuta l’ora di analizzare la morte di quella che è stata chiamata, in
gran fretta e proditoriamente, Seconda Repubblica. Doveva essere qualcosa
che somigliava alla quinta repubblica di De Gaulle, inaugurata alla fine
degli Anni 50: un sistema che restituisse alla politica la nobiltà, lo
sguardo lungo, l’efficacia che il predominio di fazioni e partiti le aveva
tolto. Doveva, partendo dalla simultanea svolta avvenuta a Nord con Mani
Pulite e a Sud con l’offensiva contro la mafia di Falcone e Borsellino,
rigenerare un ceto politico corrotto da anni di democrazia senza
alternanza, di poteri paralleli e illegali. Le forze che dopo il ’45
avevano ricostruito il Paese gli avevano dato una Costituzione vigile
sulla democrazia, ma antichi mali, non curati, si erano incancreniti: il
rapporto degli italiani e dei politici con lo Stato in primo luogo, e la
maleducazione civile, lo sprezzo della legalità, del bene comune. Tutti
questi mali sopravvissero alla Prima Repubblica, e per questo anche la
seconda sta morendo.
Quel che mancò, nei primi Anni ’90, fu la rigenerazione delle classi
dirigenti. La politica abdicò, accettò di farsi screditare, e
forze estranee ad essa se ne appropriarono. Furono queste ultime ad
annunciare l’avvento del Nuovo: nuovi uomini, non prigionieri dei vecchi
partiti; nuova attitudine manageriale al comando; nuova fermezza nel
decidere. La Seconda Repubblica è stata innanzitutto un sistema di
dominio il cui scopo era di radicare quest’immagine del potere nelle menti
di italiani stanchi di lungaggini, assetati di efficacia. Altri
obiettivi non esistevano, se non la libertà del leader da ogni
vincolo. Il conflitto d’interessi non era un ostacolo: sanciva tale
libertà. Ovvio che la rigenerazione dello Stato e della legalità divenne
non solo impossibile ma esecrata. Mani Pulite e Falcone-Borsellino erano
escrescenze di una Prima Repubblica caduta per motivi che restando arcani
non insegnavano nulla se non più furbizia e più menzogne.
I dati lo confermarono presto, dopo Tangentopoli: la corruzione non
solo era ripresa, ma s’era inasprita fino ad assumere, oggi, proporzioni
enormi. L’impunità dei dirigenti s’estese. L’informazione
televisiva, ieri lottizzata, è ora monopolizzata da una persona. La
Seconda Repubblica era nata, ma affatto diversa dal racconto che se ne
faceva. Ha dato vita al bipolarismo, ma un bipolarismo tra due
concezioni dello Stato e della legge, non fra due politiche. In sedici
anni ha creato un sistema che salvaguarda i difetti del regime precedente,
distruggendo le forze e gli anticorpi che nonostante tutto esso ancora
possedeva. Non c’è dunque una sola Seconda Repubblica. Ce n’è una
cui tendevano i veri riformatori. E ce n’è un’altra, effettiva, che
usurpando il linguaggio dei riformatori ha installato un regime che
confonde la crisi della politica con l’inutilità della politica, e mette
il potere esecutivo al riparo da ogni controllo. Che non ha corretto nulla
se non l’immagine del leader, e l’uso democratico di frenare il potere
eccessivo con altri poteri.
Questa Seconda Repubblica non è falsa a causa del predominio di una
persona (Berlusconi). È falsa perché ha dato agli italiani,
contemporaneamente, un uomo forte e uno Stato disarticolato, con poteri di
controllo indeboliti se non neutralizzati. Per poteri di controllo
s’intende la magistratura, la stampa indipendente, il Capo dello Stato che
incarna il legame con la Costituzione, la Costituzione stessa. Quando si
parla di regime non si parla di un uomo, ma di questa ben organizzata
disarticolazione.
Gli italiani hanno avuto quel che non chiedevano. Non la politica
rinobilitata, ma il suo discredito. Non una giustizia più rapida, ma una
giustizia celere con i deboli, impotente e interminabile con i forti: una
giustizia giudicata usurpatrice se giudica i potenti, come usurpatrice è
giudicata la stampa indipendente. La Prima Repubblica aveva anticorpi che
l’affossarono; la Seconda forse ne ha ma di meno, sicché neppure ricorre
all’ipocrisia: Berlusconi non esita a rompere con Fini che chiede il
rispetto della legalità, non esita a definire golpista il potere del
Quirinale di sciogliere il Parlamento. L’interiorizzazione
dell’illegalità non potrebbe essere più esplicita e impudente.
Tuttavia anche la Seconda Repubblica sta morendo. Perché non c’è leader
che alla lunga possa vivere d’immagine, senza esserlo. Perché non
basta inoculare nelle menti lo sprezzo della politica, per aggiustarla.
Quando Berlusconi incolpa il «teatrino della politica», sa di che parla
perché tutto in lui è teatrale. Hannah Arendt spiega bene come simili
teatranti si adoperino a «defattualizzare la realtà» (memorabile il saggio
sulla guerra in Vietnam, New York Review of Books 18-11-’71). Un
«enorme sforzo fu dispiegato», scrisse quando i Pentagon Papers rivelarono
l’inutile disastro della guerra, per «dimostrare l’impotenza della
grandezza». Egualmente impotente è la grandezza del Premier
italiano: proprio come leader ha fallito, incapace di tener unite
la ampie maggioranze di cui disponeva.
Se si vuole analizzare la fine della Seconda Repubblica, bisogna fare quel
che non si è fatto: capire perché la Prima cadde, e come. Riconoscere i
mali che sopravvissero nella Seconda, e anche certe virtù che nella
distruzione vennero spazzate via. La Prima Repubblica infatti non fu solo
storia criminale. Fu anche partecipazione all’Unione europea. Fu la
tendenza ad aggirare magari la Costituzione, non a demolirla. Fu Mani
Pulite e l’opera di Falcone e Borsellino. Fu l’incorruttibile lealtà
istituzionale di Vincenzo Bianchi, il generale della Guardia di Finanza
morto l’altro ieri a Civitavecchia: nell’81, su incarico dei magistrati
Turone e Colombo, l’allora colonnello scoprì a Castiglion Fibocchi, una
fabbrica di Gelli, la lista dei 972 affiliati alla P-2. Fu, infine, la
capacità di resistere alla grave sfida delle Br. Basti pensare al ruolo
decisivo che i pentiti svolsero nell’anti-terrorismo, al colpo mortale
inferto dalle prime deposizioni di Patrizio Peci nell’80. Il giudice
Giancarlo Caselli ricorda, nel libro scritto con il figlio Stefano (Le Due
Guerre, 2009), gli esordi della Seconda Repubblica, quella raccontata come
nuova: come prima cosa, nella lotta alla mafia e ai suoi legami con la
politica, vengono mozzati l’uso e la protezione dei pentiti. Meritevole
non è più chi parla ma chi omertosamente tace, come Mangano.
Rimeditare la fine della Prima Repubblica significa svelare la vera natura
della Seconda. Non è detto che si riesca, tanto vasta è la manipolazione,
lo spin di chi guida il regime. Tutti ne sono prigionieri: anche la
stampa, quando accetta di mettere sullo stesso piano le vicende monegasche
di Fini e quelle di Berlusconi e dei suoi. Quando denuncia la politica
fatta a colpi di dossier sui mali altrui. Il risultato, lo spiega
Michele Brambilla su La Stampa, è di «attribuire a ciascuna vicenda
un valore equivalente a tutte le altre». È una trappola in cui Fini, che
ha rotto sulla legalità, rischia di cadere. Da giorni, i suoi uomini
invocano una tregua, e tanti reclamano la fine di «contrapposizioni
dannose»: se Berlusconi con i suoi giornali smette gli attacchi al
presidente della Camera, anche i finiani smetteranno l’offensiva su
illegalità e corruzione. La rottura non servirebbe ad altro che a
rendere gli scandali tutti eguali: la vendita di una casa di An e la
corruzione di magistrati, l’uso privato del denaro pubblico, il monopolio
televisivo. La tregua, presentata come progresso, sarebbe il
fallimento del Presidente della Camera, non di Berlusconi. Non la casa a
Montecarlo rischia di squalificare Fini, ma la rinuncia alla battaglia
sulla legalità, e a una Repubblica che cessi di definirsi nuova solo
perché viene «defattualizzata» e abusivamente chiamata Seconda.