Concilio e libertà
Sta emergendo, negli osservatori esterni, un sentimento di tenerezza e
compassione verso Benedetto
XVI a causa della sua profonda afflizione per “il peccato penetrato nella
Chiesa” ed esploso con i
preti pedofili e qualche incidente di percorso dei suoi maggiori prelati. Da ciò
a un giudizio
generale sullo stato della Chiesa il passo è breve, e lo ha compiuto da ultimo
Pietro Citati, che però
usa categorie di giudizio che dimostrano quanto poco il rinnovamento del
Concilio abbia modificato
il modo in cui la Chiesa viene percepita dal mondo.
Dice infatti Citati che il problema non è il peccato, perché
anzi senza l’angoscia del peccato il
cristianesimo nemmeno potrebbe esistere; il rischio è invece che la Chiesa cessi
di essere
quell’“arca” nella quale la coscienza del peccato è compensata dalla gioia della
grazia. Il rischio a
suo parere è che la Chiesa cessi di essere “un’eccezione” rispetto al mondo che
vive la sua
avventura moderna. La Chiesa, secondo la visione un po’ giansenista (Pascal)
espressa in questo
articolo, non deve affatto essere moderna, anzi deve restare un residuo dei
tempi antichi, il
paradosso che contraddice la ragione, qualcosa di originario e straordinario che
ignora le norme
della società e della politica; e di conseguenza i suoi preti non devono essere
“uomini come gli
altri”, quasi fossero pastori protestanti, ma anzi devono riprodurre lo spirito
degli antichi eremiti, e
fare della castità e del celibato un segno di elezione, il segno della distanza,
della differenza,
dell’eccezione rispetto “al resto della vita”; cose di cui per fortuna,
nonostante tutto, sussisterebbe
qualche retaggio anche oggi.
Ora la domanda è: perché il mondo insiste su questa figura di Chiesa?
Questa infatti è la figura
sublimata della Chiesa professata prima del Concilio, a cui non corrispondeva
affatto la Chiesa
reale; e proprio Citati altra volta ha dato di quella Chiesa preconciliare una
descrizione impietosa.
Quello che ha fatto il Concilio non è stato certo di spegnere il paradosso o di
togliere al Vangelo la
sua forza di scandalo rispetto alle pratiche del mondo. Quello che ha fatto il
Concilio è stato però di
rimettere la Chiesa nel mondo e di riconoscere che questo paradosso e questo
scandalo non
vogliono affatto essere “un’eccezione rispetto al resto della vita”, ma vogliono
essere precisamente
questa vita; non dunque da riservarsi alla Chiesa come a un’arca sottratta
alla rovina, ma da
destinarsi all’umanità tutta intera oggetto dell’elezione di Dio.
A ben vedere, al di là di tutto il riformismo ecclesiastico (ciò in cui il
Concilio non è riuscito),
l’aggiornamento (cioè la rivisitazione nelle forme del pensiero “moderno”)
promosso da Giovanni
XXIII, ha riguardato proprio la riproposizione della fede come
comprensione (o “ermeneutica”) del
mondo e come possibilità offerta a tutti, e dunque compatibile con la vita
reale.
E la prima cosa che ha fatto il Concilio è stata precisamente di liberare
l’uomo dall’idea del peccato
come destino, quale era percepito dentro le categorie del peccato originale;
e di fare invece della
scelta tra il bene e il male un connotato della libertà, identico per l’uomo
moderno come per il
primo uomo, in quanto la libertà è e resta un “segno privilegiato” dell’immagine
di Dio nell’uomo.
Il Concilio non fa alcun riferimento alle conseguenze devastanti che il primo
peccato avrebbe avuto
sull’intero genere umano, quasi attribuendo all’uomo una seconda e più inferma
natura, ma dice che
anche dopo la caduta Dio “non lo abbandonò”, non lo privò degli aiuti necessari
alla salvezza e per
conseguenza non lo scacciò da nessun giardino. E l’incarnazione non è
narrata come un’operazione
di riscatto per estrarre dall’umanità una porzione di eletti o di salvati intesi
come Chiesa, ma come
un dono di grazia e una vocazione per gli uomini tutti. Di conseguenza
non c’è questa
imparagonabilità della Chiesa col mondo, perché è proprio della totalità umana a
lui unita nel
Figlio, che Dio ha voluto fare il suo popolo. E qui, se vogliamo, sta il vero
fondamento della laicità,
non irreligiosa, del mondo.
Questo cerco di dire in un libro che uscirà il 16 settembre, intitolato
“Paradiso e libertà; l’uomo,
quel Dio peccatore”. Vi si racconta come una legge bolognese medioevale che
aveva restituito ai
servi la libertà fosse chiamata “Libro Paradiso”; il Paradiso è dunque il
luogo dove gli uomini
vengono a libertà. Ma guai se gli uomini fossero liberi solo in Paradiso, e se
il mondo della fede
fosse il “totalmente altro” dal resto del mondo. Se il Paradiso è
libertà, perché lì abita Dio la cui
immagine è la libertà, e se Dio è venuto in questo mondo, ogni volta che sono
liberati dei
prigionieri, che si chiudono le Inquisizioni, che sono sconfitti i mafiosi, che
acquistano diritti gli
operai, che escono le donne dalle mani di padri e padroni, e ogni volta che il
mondo è amato così, si
stabilisce un pezzo di paradiso in terra; e ogni volta che questo accade, si
accorciano le distanze tra i
due paradisi, e l’uomo, se è divino, può trovarsi a casa sua in ambedue le
città.
Raniero La Valle in “Rocca” n. 15 del 1
agosto 2010