Io condivido l'idea, da molti affermata, che l'occidente abbia tre
grandi radici e non una sola: c'è il logos, che ci viene dal mondo
greco, c'è il dabar - la parola divina di amore e di compassione -
che ci viene da Gerusalemme e lo ius che ci viene da Roma. Il
teologo tedesco Metz dice che sono le tre grandi radici
dell'occidente coniugate insieme, anche se quasi sempre in tensione
e spesso - soprattutto dalla modernità in poi - in modo
conflittuale; sono i tre fili che intrecciandosi costituiscono la
grandezza e l'unicità della cultura occidentale. Da questo punto di
vista la Bibbia è un testo fondamentale che andrebbe sicuramente
riscoperto.
Effettivamente la bibbia non sembra un testo molto letto, o
comunque
lo è solo in modo parziale e superficiale. Perché secondo lei?
Generalmente si pensa alla bibbia come ad un testo religioso che
riguardi solo i credenti. In Italia, poi, la situazione è ancora
più preoccupante perché si pensa che essa interessi soltanto preti
e suore.
La realtà culturale italiana ha veramente una visione così
miope
del testo biblico?
Si può cogliere il segno di questa schizofrenia, di una concezione
così miope, nella collocazione dell'ora di religione nella scuola.
Lo stato laico ritiene che la bibbia non sia un grande testo
letterario da insegnare agli studenti come Omero, Sofocle,
Eschilo, Euripide, Dante, Shakespeare o i Veda, ecc. e lascia
alla chiesa l'onere del suo studio e della sua divulgazione. La
chiesa, da parte sua, in quanto custode del sapere religioso,
ritiene di essere l'unica deputata a questo insegnamento.
Quindi c'è una doppia responsabilità in questo?
Esattamente. E' una situazione che squalifica entrambe le
intelligenze: sia quella laica che quella credente cristiana. E qui
vorrei anche sfatare un altro mito presente nei due ambienti, laici
e cristiani, ovvero pensare che se uno non ha la fede, non può
capire la bibbia. Questo è un modo di pensare pregiudiziale. Per
capire un testo si richiede un minimo di curiositas, di apertura;
poi, di fronte al testo uno può dire `sì', `no', `ci devo
pensare' `non ci avevo mai pensato'. Per capire la bibbia ci vuole
solo questo. La fede è assenso incondizionato al testo ma non il
presupposto per comprenderlo.
Persiste, allora, un pregiudizio culturale stratificatosi nel
tempo
che impedisce alla bibbia di essere letta e riletta, magari perché
abbiamo la convinzione di averla già conosciuta attraverso il
catechismo e un giovanile ascolto liturgico la domenica?
La mia impressione è che non ci sia neppure la presunzione di
conoscerla. C'è proprio l'ignoranza, la `nescienza', per dirla con
un termine benevolo. Anche se negli ultimi trent'anni, devo dire,
sta avvenendo in Italia un fatto nuovo che agevola il superamento di
questo pregiudizio. Oggi per esempio c'è in Italia un movimento
come `Biblia' (Associazione Laica di Cultura Biblica) che tenta di
far riscoprire la bibbia come testo culturale e classico
dell'umanità. E ci sono intellettuali particolarmente attenti, come
ad esempio Umberto Eco, i quali dicono che si dovrebbe inserire
l'insegnamento della bibbia nelle scuole come ora curriculare, con
esami, perché l'occidente non si può comprendere senza la conoscenza
di questo testo. Frye Northrop, il grande critico letterario
canadese, dice che la bibbia è "il grande codice" della cultura
occidentale. E come pensare diversamente? Basti pensare a tutta
l'arte dell'Europa fino all'ottocento a partire dal quarto secolo
dopo Cristo: anzi già da prima, se si seguono le tracce pittoriche
lasciate nelle catacombe. E poi la scultura, la musica di Beethoven,
di Bach, per non parlare della presenza del bibbia nella
letteratura, nelle chiese, ecc.
Ma al di là di una colpevole ignoranza, c'è da dire che la
bibbia
non appare proprio un testo di facile e immediata comprensione?
Certo, per accostarsi alla bibbia si richiede, come per ogni testo,
preparazione e conoscenza. Per questo è necessario insegnarla nelle
scuole. E' vero che essa produce inizialmente una sensazione di
estraneità - la percezione di essere in un altro mondo - non
soltanto per il suo linguaggio, per le sue metafore, per la sua
simbolica, ma soprattutto per la sua logica narrativa inversa a
quella tipicamente occidentale. Ma in questo è anche il suo grande
fascino.
Ovvero?
La letteratura occidentale mira a sedurre il lettore, deve co-
involgerlo e renderlo connivente. E'questa connivenza che si crea
tra il lettore e l'autore che è alla base di ogni lettura. Nella
bibbia, invece, accade un procedimento contrario, una forma di
estraniamento o estraneità, come dicevo prima. La bibbia ebraica è
il racconto di un popolo in esodo alla ricerca di una terra promessa
attraverso il deserto e la salita su un monte. Ora, il lettore che
si accinge a leggerla è come se lui stesso si trovasse
metaforicamente ad attraversare un deserto o a scalare una montagna,
un paesaggio mai conosciuto: inizialmente si sente spaesato,
sperduto, senza riferimenti, in un deserto, appunto, e sulle vie
impervie di un monte. Però, insieme con questi sentimenti di
estraniamento, dopo le prime diffidenze e i primi ostacoli ecco che
ne avverte la fascinazione, la sorpresa e la gioia per la scoperta
di paesaggi nuovi, di un mondo altro.
Quindi lei ci sta dicendo che la bibbia, prima ancora di
parlarci
dello straniero, è già essa stessa estranea alla nostra cultura, già
straniera al nostro senso comune, e affrontarla e leggerla è già
esperienza di quello che poi arriverà a farci conoscere?
Esattamente, il testo biblico è il racconto di una esperienza nuova,
sconvolgente e in-quietante, la scoperta di un altrove simbolico, a
noi per lo più sconosciuto; un altrove che ci costituisce e ci
trasforma, che ci induce a spostare lo sguardo e a pensar
diversamente.
A proposito di questo `altrove', nel suo libro su "Lo straniero
nella bibbia" lei però scrive che non bisogna confondere il
significato dell' `altrove' biblico con l'aldilà': "non si colloca
nello spazio metafisico e metastorico da raggiungere dopo la morte,
seconda la lettura divenuta corrente per l'influsso platonico sulla
tradizione cristiana. Nelle pagine di questo saggio tale
ermeneutica è stata denunciata come indebita e il senso dell'altrove
è stato ricollocato nel cuore del tempo e della storia di cui
rivendica di essere il senso e il giudizio di assoluzione o di
condanna"[2]. Qui mi sembra riecheggiare l'invito di Rosenzweig a
tradurre nell'oggi, nel `qui e ora' i comandamenti etici e divini
che la bibbia ci ha tramandato.
Proprio così. Per riprendere ancora un'espressione celebre di
Rosenzweig - il Das neue Denken di cui egli parlava - direi che il
racconto biblico, incentrato intorno alla categoria dello straniero,
istituisce, con questa categoria, un nuovo modo di pensare, un nuovo
pensiero, una nuova conoscenza, una meta-noia - il passaggio da un
pensare ad un altro pensare - che mai come oggi è così necessario
per superare la crisi in atto.
Fatte queste dovute premesse, veniamo ora letteralmente
allo "straniero nella bibbia": quando lo si incontra per la prima
volta?
Da un punto di vista linguistico, il primo personaggio biblico
appellato come straniero nella bibbia è Abramo perché egli è colui
che non ha una terra, e non l'avrà mai. Per capire la radicalità di
questo personaggio basti pensare a ciò che lo distingue da Ulisse,
figura centrale nell'epica greca. Ulisse è colui che parte per un
lungo viaggio, che durerà quasi un'intera vita, per poi tornare allo
stesso punto di partenza: la sua isola, la sua terra. Ha quindi un
radicamento. Abramo, invece, parte e si dirige verso una terra che
non sarà mai sua e che avrà sempre e solo lo statuto di terra data,
nel senso di donata.
Quindi straniero è identificabile nella bibbia in relazione
alla
terra che non si ha o a cui non si torna?
Sul piano fenomenologico è colui che non può pronunciare "il mio".
Straniero è colui che non può dire "questa lingua è mia, questa
terra è mia, questa casa è mia". E' colui che non ha un luogo in cui
insediarsi. Straniero è extra. Non a caso l'autodefinizione che
Abramo dà di sé o la definizione che la bibbia dà di Abramo,
capostipite di Israele, è gher ve-toshav. Gher vuol dire straniero;
toshav vuol dire inquilino. E' un vero e proprio ossimoro di
difficilissima traduzione, perché straniero vuol dire colui che non
ha una terra dove radicarsi ma che allo stesso tempo rimane toshav,
cioè residente, ma nella modalità dell'ospite.
Allora è Abramo la figura che meglio rappresenta lo straniero
nella
bibbia?
Direi che Abramo è sicuramente il paradigma dello straniero ospitato
e ospitante. Ci sono molti midrashim (storie interpretative della
Torah nella tradizione ebraica), tra cui uno in cui si dice che
Abramo ha una tenda nel deserto non con uno ma con quattro ingressi
perché voleva che chiunque si trovasse a passare da quelle parti
potesse subito entrare ed essere accolto come ospite. Però va
precisato che il tema dell'accoglienza in quanto tale non esaurisce
il significato dello straniero nella bibbia. Certamente questo
aspetto è presente. Ma l'unicità della bibbia non consiste in
questo. Tutte le culture del mediterraneo e tutte le culture umane
hanno intuito che si diventa umani quando ci si apre all'accoglienza
dell'altro e del diverso. J. Daniélou ha scritto: "si può dire che
la civiltà ha compiuto un passo decisivo, e forse il passo decisivo,
il giorno in cui lo straniero da nemico (hostis) è divenuto ospite
(hospes), cioè il giorno in cui la comunità umana è stata
creata»[3]. Il fatto nuovo della bibbia però è altrove. Consiste in
questo: che essa ha messo lo `straniero' al centro del suo racconto
di fondazione.
Ma dove si trova esattamente questo racconto?
Il mito di fondazione che narra la storia di Israele schiavo in
Egitto è racchiuso nei cinque libri attribuiti a Mosè che
costituiscono il Pentateuco: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e
Deuteronomio. Questi libri venivano custoditi sempre insieme in
un'unica `teca' (custodia) e per questo sono stati considerati
sempre un unico e solo libro: il racconto fondativo di Israele.
Questi libri sono, in altri termini, la costituzione del popolo
ebraico?
Precisamente. Torah - il termine ebraico per eccellenza con cui
vengono nominati questi cinque piccoli libri - vuol dire legge:
legge perché costituisce Israele come popolo e, per questo, ne è la
costituzione. Per la stessa ragione i primi cinque libri della
bibbia sono in assoluto i più importanti, più dei "Profeti",
contrariamente a quanto si pensi spesso, perché i "Profeti" non
sostituiscono la Torah o il racconto di fondazione ma ne sono la
coscienza critica e la denuncia quando essa perde la sua spinta
propulsiva o di essa il potere politico e religioso si serve invece
di servirla.
Quindi per riassumere il suo discorso, che appare come un chiaro
sillogismo aristotelico, se la costituzione della bibbia è la Torah
e il fulcro della Torah è lo straniero, la norma fondante, il cuore
dell'intera bibbia sarebbe lo straniero?
Lo straniero è parte essenziale del racconto di fondazione. In
questo consiste l'unicità della bibbia. Lo specifico del racconto
biblico non è da individuare nel fatto che esso parli di ospitare
gli stranieri - affermazione questa quasi universale che si
ritrova, come si è detto, in tutte le culture - ma nel fatto che
esso collochi lo straniero al centro del suo racconto fondatore.
Perché lo straniero si trova al centro del racconto di
fondazione?
Il mito fondativo di Israele si può riassumere con le parole
ripetute dagli ebrei in ogni seder di pesach (la celebrazione
annuale della pasqua ebraica): "schiavi noi fummo in Egitto, di là
Dio ci trasse con mano forte e mano potente per farci entrare in
una terra dove scorre latte e miele": questo è il nucleo del
racconto fondatore. Bisogna però aggiungere che nella bibbia
(ebraica e cristiana) Israele ha una funzione rappresentativa, non
esclusiva. Israele straniero rappresenta la condizione umana, è una
metonimia, cioè la pars pro toto. Lo straniero nella bibbia è quella
parte dell'umanità che rappresenta l'umanità intera.
Può dare un' immagine immediata di questa `metonimia'?
Ricordo che alcuni anni fa il sindaco di Treviso fece un'ordinanza
in cui si espellevano gli stranieri senza tetto e i barboni. A
quell'episodio reagì un noto giornalista italiano sul Corriere della
sera, scrivendo: "ridateci, lo straniero, il mendicante". Perché il
mendicante è la fotografia di ognuno di noi, della nostra precarietà
che può essere superata non individualisticamente - ognuno si salvi
da solo e come può - ma nella sola prospettiva possibile che è
quella della solidarietà reciproca.
Ma dobbiamo quindi identificare lo straniero con il mendicante?
Questo è certamente il primo significato, ma direi che nella bibbia
se ne danno almeno altri due. C'è innanzitutto quello dello
straniero come alterità, metafora dell'alterità dell'altro in quanto
altro. Anche mio figlio è straniero a me, anche mia moglie è
straniera a me, anche il mio vicino è straniero a me. L'alterità -
di cui lo straniero è il paradigma - per la bibbia è il tratto
costitutivo dell'umano, al di là della sua desiderabilità.
E il terzo significato?
E' quello più profondo, su cui si incentra il mio saggio: lo
straniero come paradigma dell'umano ospitale. Non a caso il mio
libro porta come sottotitolo "saggio sull'ospitalità"
Se questi sono i significati dello straniero in che modo nel
racconto fondatore si riconoscono come unici?
Nel racconto fondatore Israele fa memoria del suo essere stato
straniero, della sua `stranieritudine'. Ora questo è sorprendente,
perché nessuno - individuo o popolo - ama ricordare le sue
negatività o oppressioni. Israele invece non solo non occulta il suo
passato di straniero e di oppresso ma ne fa memoria
annualmente: "schiavi noi fummo in Egitto.". Questa memoria
rappresenta nella storia umana una vera rivoluzione culturale perché
con essa viene decostruita l'idea della forza o potenza come
principio dell'umano, come invece emerge nei racconti fondatori
della maggior parte delle altre culture umane. Qui va colta la
novità assoluta di Israele: nell'aver collocato al centro del suo
racconto fondativo non sé come eroe ma sé come straniero. L'eroe chi
è? Chi si afferma con un di più di forza e di potenza e così
istituisce un ordine che, per definizione, è sempre l'ordine della
forza e della potenza (si pensi ad esempio al racconto fondatore di
Roma con Romolo e Remo)
Quindi lei è d'accordo con l' analisi di René Girard[4] che
pone
alla base di ogni cultura un atto cruento: il sacrificio? Visione in
qualche modo confermata anche da quel bel testo di Guido Rossi Il
ratto delle sabine[5], che descrive molto bene l'atto di fondazione
di Roma con l'uccisione di Remo da parte di Romolo.
Condivido di Girard l'analisi secondo cui l'ordine, nelle culture
umane, ad eccezione che nell'ebraismo e nel cristianesimo, è stato
istituito sulla vittima che viene prima sacrificata (in quanto fonte
di minaccia) e poi divinizzata (in quanto fonte di salvezza). Non
condivido però la sua lettura del fenomeno religioso in quanto tale
che, a mio modo di vedere, non è riconducibile - in quanto fenomeno
religioso - esclusivamente al sacrificio cruento e vittimario. La
sua a me sembra una lettura del sacro riduttiva.
Mentre invece nella bibbia, diceva, la figura centrale non è
l'eroe,
ma....
lo schiavo, l'oppresso.
Certo, visto in questi termini, il significato del racconto
fondativo di Israele stravolge la scienza politica fino ai giorni
nostri, che vede l'ordine basato prevalentemente sulla forza e sulla
potenza?
Credo che il nesso tra politica e potenza sia da ripensare a fondo e
radicalmente. Per Eraclito polemos (la guerra) è padre di tutte le
cose. Recentemente ho trovato citato in Vittorio Mancuso Per amore.
Rifondazione della fede, questo testo: "L'uomo non deve mai cadere
nell'errore di credersi signore e padrone della natura. Sentirà
allora che in un mondo dove i pianeti e i soli seguono traiettorie
circolari, dove le lune girano attorno ai pianeti, dove la forza
regna ovunque ed è la sola dominatrice della debolezza
costringendola a servire docilmente o a spezzarsi, l'uomo non può
richiamarsi a leggi speciali". Sa chi ha scritto questo?
Francamente, no!
Hitler nel Mein Kampf, che S. Weil così commenta "queste righe
esprimono in un modo perfetto l'unica conclusione che si possa
ragionevolmente trarre dalla concezione del mondo quale la si deduce
dalla nostra scienza. Tutta la vita di Hitler non è altro che la
traduzione pratica di questa conclusione". Commentando questo testo
Mancuso scrive: "L'errore di Weil sta nell'uso dell'aggettivo
possessivo nostra, quasi che di scienza se ne possa dare un'altra.
In realtà la scienza nella sua spietata onestà non fa che dire le
cose come stanno, e questo è il suo servizio alla verità che la fa
assolutamente meritoria e indispensabile. Le cose del mondo stanno
così: che la forza regna ovunque". Come riconosce del resto la
stessa Weil: "Su questa terra non c'è altra forza che la forza.
Questo potrebbe essere un assioma". Weil ha ragione nell'affermare
che "su questa terra non c'è altra forza che la forza" e Mancuso è
nel giusto nel sostenere che non solo la nostra scienza ma la
scienza tout court - qualsiasi scienza e modo di concepire la
scienza - è sempre e solo affermazione del principio della forza. Il
miracolo della bibbia è nella messa in crisi di questo principio o,
per riprendere il termine della Weil, di questo "assioma".
La grandezza della Bibbia sarebbe dunque quella di aver
capovolto
questa logica, rappresentando così un unicum nella storia delle idee
politiche?
Questo è il punto e qui è tutta la grandezza della bibbia: nel non
fare della forza o potenza il principio dell'umano. E non è un caso
che la politica oggi si stia accorgendo che è proprio il paradigma
della forza che va messa in discussione se si vuole salvare
l'umanità e il mondo. Marco Revelli ha scritto di recente nel suo La
politica perduta[6]: "La politica riproduce ormai senza controllo il
male da cui dovrebbe proteggerci, disordine, violenza, paura. La
politica nasce dal bisogno di proteggere il cittadino da questo.
Per un nuovo modello di vita pubblica occorre una rigorosa critica
della potenza, se si vuole recuperare una vera iniziativa politica".
Io aggiungo che la bibbia, non soltanto introduce una critica
radicale alla categoria della potenza o forza, ma rende impossibile
il costituirsi stesso dell'idea della potenza o forza. Vorrei
riprendere ancora Revelli che osserva: "Per un nuovo modello di vita
pubblica occorre una rinuncia consapevole del mito della forza, è
necessaria, cioè, la messa in crisi del paradigma della politica
moderna la quale pensa che dall'uso monopolistico del male possa
derivare un bene collettivo, quali la sicurezza, la pace, l'ordine
sociale".
Ma se il mito fondatore del popolo ebraico è quello dello
straniero
in quanto schiavo che capovolge la logica di potenza da cui è
animata la politica sin dai tempi di Eraclito, perché oggi la
nazione israeliana che si ispira a quel racconto sembra tutt'altro
che benevolente nei confronti dello straniero?
Ovviamente lei si riferisce al conflitto israeliano-palestinese in
Medio Oriente. Ma qui allora si entra in una situazione storicamente
determinata - la ricostituzione dello Stato di Israele nel 1948 dopo
la shoah - e per comprenderla in tutta la sua complessità
inestricabile e drammatica si richiede capacità di analisi storica e
politica che è altra cosa dal significato del racconto fondatore di
Israele di cui stiamo parlando.
Certo, l'ebreo non si identifica né si risolve nell'israeliano
moderno, come il popolo ebraico non si identifica nello stato
d'Israele, questo giova chiarirlo e ricordarlo sempre. Ma la sua
analisi presenta un Dio dell'antico Testamento come benevolente,
accogliente e misericordioso, quando invece la vulgata lo denota
come il Dio vendicativo della violenza.
Sono contento che mi dia l'occasione di chiarire l'equivoco
terribile che affonda le sue radici nel marcionismo, l'eresia del
secondo secolo dopo Cristo, e che consiste nell'aver pensato e
tramandato fino ai nostri giorni che il Dio ebraico è il dio
cattivo, della legge e della severità. Invece no, il Dio di Israele
è il Dio che asciuga le lacrime (cfr Esodo 2 e 3!) e ascolta il
gemito del suo popolo.
Ma allora qual è la differenza, se c'è, tra il Dio ebraico e
quello
cristiano?
Il Dio degli ebrei, benevolente e accogliente, si è "visibilizzato"
definitivamente - con il linguaggio cristiano: "si è incarnato" -
nell'ebreo Gesù di Nazareth, attraverso il suo `sì' al Padre e
all'uomo sulla croce. Questa è la specificità del cristianesimo. Ma
il Dio di Gesù è il Dio dell'esodo, sia chiaro! Basti pensare al
salmo 56, dove si dice che Dio raccoglie nel suo otre tutte le
lacrime e poi temendo che se ne dimentichi le iscrive tutte nel suo
libro! E' quanto ha fatto Gesù con le sue opere taumaturgiche,
guarendo malati, ciechi e storpi, e con la sua morte in croce, amore
estremo donato a chi lo uccideva!
Quindi la differenza è nella limpidezza del messaggio, in un
dirsi e
incarnarsi di Dio definitivamente attraverso un ebreo di nome Gesù?
Esattamente, Gesù è l' espressione, la radicalizzazione e la
rifondazione del Dio dell'Esodo, del Dio d'Israele.
Torniamo un momento del passaggio dall'essere stranieri,
all'amare
lo straniero.
Questo è importante. Lo straniero che è stato liberato deve a sua
volta farsi liberatore amando lo straniero. Generalmente chi ha
patito, chi è stato oggetto di violenza diventa egli stesso soggetto
di violenza.
Viceversa, chi ha ricevuto amore, lo ridà?
Sì, ma non è automatico. Mentre nella violenza questo automatismo è
più frequente.
Siamo di fronte alla logica della vendetta?
Alla logica del determinismo, al rapporto tra causa effetto. La
grandezza del racconto fondatore è di aver spezzato e capovolto
questo determinismo. Dio, infatti, secondo il racconto fondatore,
dice ad Israele: "Tu che hai sperimentato la schiavitù in Egitto,
tu che sai che cosa vuol dire essere stato oppresso e aver patito,
tu allora quando ti troverai di fronte allo straniero, ricordati di
essere stato tu stesso straniero e di non fare allo straniero quello
che tu hai patito da straniero ma di comportarti con lui come io mi
sono comportato con te, cioè con la mia stessa compassione". Qui si
attinge alla profondità ultima della la bibbia: imitare o riprodurre
il gesto fondatore di Dio, liberando gli stranieri come lui,
asciugando le lacrime come lui e amando gratuitamente come lui. Nel
Pentateuco il comandamento di amare lo straniero ricorre più di 30
volte e ha ragione il teologo Armido Rizzi nell'osservare che il
vero comandamento nella bibbia non è "ama il prossimo tuo come te
stesso", ma "ama lo straniero come te stesso!"[7]. E anche quando la
bibbia dice di amare il prossimo, il prossimo di cui essa parla è il
prossimo - ogni prossimo - in quanto straniero e altro da te. Per
questo l'amore biblico è comandato. Se l'amore fosse l'amore di
desiderio non potrebbe essere comandato. Comandarlo sarebbe
tautologico o assurdo. Lo stesso Ricoeur si domanda.: "si può
comandare l'amore?". La risposta è che, se l'amore è amore di
desiderio o eros, non lo si potrebbe comandare; perché eros è spinta
attrattiva e irresistibile. Ma se l'amore invece è amore di
alterità, gratuità, misericordia. allora può essere solo comandato.
Sarebbe d'accordo con Kierkegaard quando dice che l'unico amore
possibile è quello deciso contro la spontaneità e la naturalezza,
perché altrimenti non avrebbe durata.
Esattamente
Dato il significato di straniero, nella sua pluralità di
accezione,
come si declina questa figura all'interno del testo biblico?
Credo che questo avvenga in tre modi. Il primo è lo straniero in
quanto oggetto di compassione, cioè di relazione gratuita, da parte
di Dio, l'Altro che si china su Israele straniero e lo
libera. "Straniero in Egitto, di là Dio mi ha liberato": così canta
Israele dalla prima all'ultima delle pagine del suo racconto.
Straniero, non è stato abbandonato a se stesso, ma ha sperimentato
la benevolenza dell'alterità divina o Adonai. Questa benevolenza o
amore è celebrata nella bibbia attraverso una pluralità di linguaggi
metaforici che nel Cantico dei Cantici ha trovato la sua traduzione
poetica più straordinaria e commovente.
E la seconda declinazione?
E' lo straniero in quanto soggetto della relazione gratuita. E'
questo il passaggio più importante del racconto biblico: nel dire
che quello che lo straniero ha sperimentato - la compassione o
gratuità divina - deve diventare principio del suo stesso agire.
Non deve rimanere oggetto di contemplazione ma diventare metron del
suo agire. Se per i greci il metron dell'agire è l'uomo, per il
racconto fondatore ebraico, il metron dell'agire dell'uomo è l'agire
gratuito e compassionevole di Dio. Nella bibbia questo aspetto è
ribadito continuamente dai profeti, la voce critica del potere
monarchico e sacerdotale. Oltre allo straniero, la bibbia richiama
spesso tre altre categorie che sono: il povero, la vedova e
l'orfano, categorie interne alla comunità d'Israele. Lo straniero
non è solo chi viene da un altro paese o terra ma anche chi, come
l'orfano, la vedova e il povero, dentro lo stesso paese, casa o
condominio, è in situazione di necessità e di bisogno.
Vedere lo straniero come una figura interna alla propria polis
vuol
dire che Israele vive questa figura come un trascendentale, come
un'idea regolativa e costitutiva dell'agire?
Queste figure vanno assunte come esemplari e paradigmatiche. C'è
anche una quinta categoria da ricordare, quella del nemico, che
diventerà centrale soprattutto nel Nuovo Testamento. La croce
infatti è l'esplosione dell'amore paradossale e impensabile di Gesù
che, a chi l'uccide, dice: "ti voglio bene, per me tu resti sempre
un amico". L'inimicizia dell'altro non è una causa per sottrargli la
relazione di amore ma l'occasione estrema per istituirla e
ridonarla. Per questo Giovanni e Paolo, i due grandi teologi del
Nuovo Testamento, diranno che in Gesù sulla croce Dio si è rivelato
come agape, come amore estremo e incondizionato.
E questa nuova categoria è solo del Nuovo Testamento?
Direi sostanzialmente di sì. Non è che nella bibbia ebraica non ci
sia il perdono. Ma è sicuramente il Nuovo Testamento a fare del
perdono per il nemico l'asse centrale del suo racconto rifondatore.
A questo punto urge un chiarimento. Schmitt ha sostenuto che il
nemico del vangelo è l'inimicus e non l'hostis, cioè il nemico
privato e non quello pubblico. Da qui la nota categoria individuata
di Schmitt dell'amico-nemico, la cui distinzione è discrimine
fondativo della politica: un popolo si struttura e si mantiene in
essere se esercita costantemente questa distinzione, tra fuori e
dentro. Guai a quel popolo che non eserciti più questa distinzione,
rischierebbe di scomparire.
Io non conosco questo autore per darle una risposta puntuale, ma
quello che è certo è che il modo di pensare di Schimtt è del tutto
estraneo alla bibbia. Il racconto biblico rende impossibile lo
stesso costituirsi dell'immagine del nemico. Questo non vuol dire
che, per la bibbia, non ci sia distinzione tra il piano
intersoggettivo dell'amicizia e quello politico. Ma qui allora
interviene l'articolazione di Lévinas tra la responsabilità
intersoggettiva, sempre incondizionata e assoluta, e la
responsabilità politica dove la responsabilità è sempre
responsabilità per il terzo e quindi necessariamente da coniugare
con la legge, con il diritto e con la stessa forza. Sul piano
intersoggettivo, l'altro mi è sempre amico, anche se mi uccide. Ma
quando ne va di mezzo il terzo, il principio dell' amicizia o perdono
va mediato - e non può non essere mediato - con la razionalità e con
la forza: laddove la forza, non più solo nuda forza, diviene essa
stessa mediazione della giustizia, della benevolenza e del perdono.
La sospensione della misericordia diretta è solo in funzione di
un'esigenza superiore che solo il diritto può garantire?
Qui si entra nel cuore della bibbia per la quale etica e diritto
sono inscindibili e per la quale il diritto è - e può essere solo -
mediazione della giustizia. Un diritto che non fosse mediazione
dell'attenzione al debole e all'ultimo - allo straniero, al povero e
alla vedova - sarebbe solo l'espressione della forza dei più forti e
delle classi di volta in volta dominanti. Per questa centralità
dell'altro in quanto povero ed essere di bisogno, la bibbia, come
vogliono i maestri e i sapienti d'Israele, è da sempre un'etica più
che una religione.
E la terza declinazione?
E' quella più importante che spiega il sottotitolo del libro. Di
fatto non esiste uno straniero che è oggetto della gratuità e uno
straniero soggetto, siamo di fronte ad una pluralità di stranieri.
Ma come può coesistere insieme una pluralità di stranieri dove
ognuno è contemporaneamente oggetto e soggetto della gratuità se non
co-ospitandosi nella reciprocità dell'accoglienza?
Nel suo testo lei sostiene che lo straniero è una figura
paradigmatica per i nostri tempi. Perché?
Credo che il tema dello straniero stia emergendo per un motivo, più
che teologico, politico e culturale. Che cos'è la globalizzazione in
atto se non lo spazio, mentale prima che geografico, dove ognuno si
scopre straniero all'altro?
Anche se apparentemente, più che stranieri ci scopriamo molto
più
simili, con le stesse mode, manie e fobie.
Sembra, ma il cinese che arriva con i suoi prodotti a basso costo,
insieme con i prodotti, porta il suo modo di pensare, di parlare, di
mangiare, di relazionarsi, ecc., mi porta cioè la sua estraneità o
stranieritudine. Ma lo stesso vale per l'occidentale che va in Cina
o in Giappone. Ci si scopre così sempre più estranei chiamati a co-
ospitarsi. Appunto perché diventiamo sempre più stranieri gli uni
agli altri, il tema dell'alterità è diventato così centrale
nell'attuale dibattito culturale. La grandezza di Lèvinas, il
filosofo dell'alterità per eccellenza, è di avere colto questo
aspetto facendone il fulcro della sua riflessione filosofica.
Quindi ci invita a considerare lo straniero come espressione
prototipica della alterità?
Sì, ma vorrei chiarire che l'alterità di cui parla la bibbia non è
quella della semplice differenza culturale. Questo tipo di alterità,
per quanto importante, riconosce ed esige soltanto il riconoscimento
mentale, teorico: riconosco e accetto la tua diversità (la tua
lingua, i tuoi odori, i tuoi sapori.. ecc). Ma qui tutto si
esaurisce nella sfera del riconoscimento. Nella bibbia, invece, centrale è l'alterità del povero. Che tipo di alterità è questa? Quella del bisogno che invoca la solidarietà concreta e non il
semplice riconoscimento astratto. Lévinas direbbe che invoca la
condivisione di cose, di soldi e di case. L'altro biblico cioè è
l'altro che esige pane e giustizia. Per questo l'alterità biblica è
istitutrice più che del soggetto tollerante e riconoscente, del
soggetto etico: giusto e responsabile.
Per questo nell'introduzione al suo testo sottolineava come
all'ingresso del terzo millennio il termine straniero abbia
acquisito un significato nuovo, ovvero quello dell'e-migrante, del
profugo e del rifugiato: figure che spinte dal bisogno lasciano la
loro terra? Ma è anche vero che il migrante di oggi, a differenza
del passato, anche grazie ad un'informazione più diffusa parte con
la consapevolezza e la certezza di nuove terre più ricche in cui
approdare?
Credo che un po' tutta la nostra cultura stia in qualche modo
migrando altrove, che si stia deterritorializzando, come dice
Galimberti, perché si stanno sfaldando quei modelli concettuali
millenari sorti nel passaggio dell'umanità dal nomadismo alla
coltivazione della terra. Questa è stata una delle più grandi
rivoluzioni dell'umanità in cui si è affermato il diritto di
proprietà con l'uso della forza e il ricorso alla guerra - forza
istituzionalizzata e armata - per la sua difesa e salvaguardia. Ma
Galimberti afferma anche che la globalizzazione costringe a rimettere in discussione questo paradigma del possesso. Io lo credo
fermamente. La bibbia è il grande codice che rende possibile pensare
il rapporto tra gli umani al di là del modello della conquista e
del possesso perché, secondo il grande principio fissato dal
Levitico, "la terra è mia" - dice Adonai, il Dio di Israele - e,
se "la terra è mia", in essa l'uomo può starci solo da "straniero e
inquilino", cioè da ospite nel duplice senso di ospitato e ospitante.
Ma anche l'ospitalità greca riserva la stessa sacrale attenzione
all'ospite[8]. Nel Teeteto Socrate invita a rispettar l'ospite
perché sotto le sue spoglie si può nascondere un dio.
Certo. Il racconto fondativo di Israele istituisce un modello
antropologico dove l'uomo, ospitato da Dio, è chiamato a sua volta a farsi ospitante come Dio, per cui l'ospite, nella sua duplice
dimensione di ospitato e ospitante, è sempre traccia o luogo del
divino. La bibbia è un immenso trattato di ospitalità. E' il più
grande trattato sull'ospitalità. Per questo non è un caso che
Lévinas nell'introduzione all'edizione francese del suo celebre
Totalità e infinito abbia scritto: "tutto il mio sforzo teoretico è
consistito nel tentativo di pensare la soggettività ospitale."
D'altra parte, però, come nota puntualmente Umberto Curi[9], il
campo semantico attivato dai termini hostis-hospes (nemico-ospite)
rivela anche una forte attrazione esercitata da primo termine nei
confronti del secondo (si pensi oltre alla nostra lingua, anche il
francese `etranger' e l'inglese `stranger') al punto che anche ciò
che appare semplicemente `strano' diventa senza soluzione di
continuità ostile, ciò che una `qualità' diversa e insolita si
sostantivizza drammaticamente in `nemico'.
Sul piano fenomenologico indubbiamente lo straniero suscita
sentimenti o di indifferenza, in quanto estraneo al proprio gruppo
di appartenenza, o di ostilità, in quanto minaccia alla propria
sicurezza personale o di gruppo. Ma per il racconto biblico, più che
giustificazione e legittimazione della indifferenza o
dell'inimicizia, lo straniero, con il suo carico di povertà e di
bisogni, è - deve essere - appello e istituzione della
responsabilità assoluta e indeclinabile. E' questa la sfida dello
straniero biblico oggi, in un epoca segnata da immensi processi di
spostamenti e migrazioni. Nel suo discorso di addio a Emanuel
Lévinas, Derrida ha affermato che il più grande merito del filosofo
ebreo è stato quello di avere sollevato per primo la questione
dell'immenso processo migratorio di esiliati, di apolidi e di
stranieri che, iniziato dal '45 in poi, sarebbe poi esploso nei
nostri giorni e che, per essere risolta, prima che una nuova
politica internazionale e prima che un nuovo diritto internazionale,
avrebbe esigito soprattutto una nuova etica: "ovunque rifugiati di
ogni specie, immigrati con o senza cittadinanza, esiliati o espulsi,
con o senza documenti, dal cuore dell'Europa nazista alla ex-
Jugoslavia, dal Medio Oriente al Ruanda, dallo Zaire alla
California, dalla Chiesa di St. Bernard al XIII arrondissement di
Parigini, Cambogiani, Armeni, Palestinesi, Algerini e tanti, tanti
altri - tutti questi rifugiati esigono un cambiamento dello spazio
socio e geo-politico, cambiamento giuridico-politico, ma
innanzitutto - se tale espressione conserva ancora una sua
pertinenza - essi fanno appello ad una conversione etica"[10]. La
bibbia, trattato inedito sull'ospitalità, è annuncio che l'unica
possibile sopravvivenza per l'umanità è nella sua conversione alla
giustizia e alla fraternità.
[3] J. Daniélou, Pour une
théologie de l'hospitalité, in VS 85/1951,
p. 340
[4] René Girard Il sacrificio, Raffaello Cortina, Milano, 2004
[5] Guido Rossi Il ratto delle sabine, Adelphi, Milano, 2000
[6] Marco Revelli La politica perduta, Einaudi, Torino, 2003
[7] Armido Rizzi, L'Europa e l'altro, Paoline, Cinisello Balsamo
1991; dello stesso autore si veda L'Esodo: da paradigma teologico-
politico a riserva inesauribile di senso, in questa rivista, anno I,
n. 3, p. 35
[8] Si vedano gli articoli di Cinzia Bearzot "Tra identità e
integrazione: aspetti della posizione dello straniero nel mondo
greco"e di Umberto Curi "La filosofia dello straniero", in questo
numero.
[9] Ibid.
[10] J: Derrida, Addio a Emmanuel Lévinas, Jaca Book, Milano 1998,