Un'altra laicità per l'Europa

Durante la scrittura della Costituzione europea, naufragata poi sui capricci dei referendum, la
questione delle «radici cristiane» (o giudeo-cristiane) dell’Europa ha tenuto banco per mesi. Chi
non le voleva menzionare sosteneva che quella espressione ambigua (il Nuovo Testamento usa
«radice» o per parlare dell’interiorità o per descrivere l’ebraismo) minacciava le libertà laiche del
continente. Chi la difendeva non s’accorgeva che, arroccandosi su un sintagma innocuo (che Pio
XII ad esempio non chiese mai ai costituenti italiani), la Santa Sede rinunciava alle pregiudiziali che
avrebbero potuto strozzare, con un non expedit bioetico, la nascita della Costituzione.

Alla fine tutti sanno come andò: da allora il paesaggio religioso dell’Europa è mutato. Mentre le
Chiese rimpiazzano l’ecumenismo con un galateo scortese, i nuovi cristianesimi evangelicali si
insediano. La minoranza islamica è un imamato, spesso fatto di apprendisti, galleggia sugli strepiti
di chi insegue ad urla la distinzione fra il velo di chi va in moschea e quello di chi entra al Carmelo.
Il vicinato fra fedi vissute per secoli lontanissime è affidato al fai da te delle maestre.
L’antisemitismo — patologia mai sopita, come s’è visto in questi giorni quando, non un ministro o
un governo, ma un Paese e un popolo sono stati accusati di un esecrabile eccidio — continua a
correre con nuove parole d’ordine. E il mantra «lai-ci-té/lai-ci-tà» viene ripetuto con la nostalgia di
chi ricorda una Europa, semplice, divisa fra cristiani ed ex cristiani e decorata da una puntina
superstite d’ebraismo.

Per decifrare le sfide di questo paesaggio plurale ci vuole un pensiero. E la Polonia sta preparando il
suo turno di presidenza Ue producendo pensiero con seminari finalizzati al Congresso sulla cultura
europea che si terrà a Breslavia dall’8 all’11 settembre 2011. Tramite il prestigioso Istituto viennese
di scienze umane, diretto da un intellettuale a tutto tondo come Krzysztof Michalski, il ministero
della Cultura polacco ha fatto un programma che inizia oggi a Milano con la collaborazione della
Fondazione Corriere della Sera, presieduta da Piergaetano Marchetti. Un giurista come Giuliano
Amato (a suo tempo vicepresidente della Convenzione europea), uno storico della filosofia antica
come Giovanni Reale (cattolicissimo, ma detestato da qualche frangia del fondamentalismo per il
rigore teoretico con cui discute d’embrione), un direttore di giornale come Adam Michnik (che non
ha appreso la militanza antitotalitaria in saldo), e il canadese Charles Taylor (il maggior studioso del
comunitarismo e della secolarizzazione, nonché Templeton Prize 2007), si confronteranno su «La
religione nella sfera pubblica».

Tema da discutere (religione o religioni? Sfera o sfere?), ma cruciale: perché, nella caduta di
riferimenti ideologici collettivi e nella crisi della capacità «trasmittente» della famiglia, cresce la
tendenza ad usare l’appartenenza religiosa per riempire lo smarrimento delle maggioranze e la
solitudine delle minoranze.
Col rischio che convivenze storiche (pensate alla Bosnia o alla Turchia)
si logorino e che il nocciolo dell’esperienza di fede — che è la fede — si perda nell’ossessione di
agitare differenze che i fondamentalisti americani definirono «non negoziabili» cent’anni fa, senza
gran frutto per nessuno.
La politica d’una Unione che ingloba re capi di Chiese, Stati costituzionalmente ortodossi e leggi di
laicità che vietano di indossare un crocifisso, non può snobbare la voce delle autorità religiose, ma
non può nemmeno non chiedersi come la democrazia risponde a queste sfide.
Il vecchio continente,
infatti, ha da insegnare a tutti non una formula ma una storia: la storia che dice che nella
coabitazione plurale le fedi stesse possono riapprendere cose che avevano dimenticato — basti
pensare all’atteggiamento della Chiesa cattolica verso i diritti della donna, ad esempio — e che nel
dimenticatoio sarebbero rimaste.


Alberto Melloni      Corriere della Sera 8 giugno 2010