In chiesa sì ma per scapparne

Ogni anno, tra il giovedì santo e la fine del mese di maggio, in Italia si celebra un grande rito
collettivo, quello delle prime comunioni. Gli antropologi ne sono certi: questa è ancora la forma
generalizzata che gli italiani amano usare per significare il passaggio dall’infanzia all’adolescenza. I
riti di passaggio, nelle civiltà antiche, esorcizzavano le paure della crescita e dell’incontro con le
malattie, ma preparavano anche all’ingresso nella vita adulta.
Gli studi di sociologia religiosa
dimostrano tutti, in modo molto concorde, che quasi il 90 per cento dei bimbi che ricevono la prima
comunione abbandona subito, e quasi completamente, la pratica religiosa e la frequentazione della
Chiesa.

Se non fosse tragico, ci sarebbe da ridere: il rito della prima comunione è ormai diventato il
«segno» per annunciare l’abbandono della religione
. Molti di questi ragazzi, ma il numero decresce
rapidamente, si riaffaccerà in un luogo di culto per il matrimonio, non a caso un altro rito di
passaggio ritenuto ancora «formalmente serio» dalle famiglie. Le quali, successivamente saranno
capaci di ammettere e di giustificare la rottura delle promesse nuziali garantite religiosamente (e
questo avviene ormai, da decenni, nel 25% dei casi) entro cinque anni dalla celebrazione religiosa
grazie al ricorso alla giurisdizione civile. Nella traduzione antropologica, le pompose celebrazioni
matrimoniali che vediamo ancora officiare nelle chiese sono diventate, per un’alta percentuale di
casi, il rito religioso di passaggio verso la secolarizzazione.
«In Italia non si nasce più cristiani ma
lo si diventa», ammise tra i denti, alla fine del suo mandato di presidente della Conferenza
Episcopale, un cardinale che per quindici anni ha obbligato i cattolici di questo Paese a sentire
parlare più di politica che di religione.

Ed era come dire che anche lui, alla fine, si era accorto che
tutti possiamo abusare dei segni.
Tanto, prima o poi, la vita ci insegnerà ad essere realisti.
Mentre i bambini e i giovani vanno all’altare per dimenticare di essere cattolici, nella stessa
stagione trentacinque milioni di italiani si mettono in cammino per raggiungere uno o più dei tanti
santuari, monasteri ed eremi disseminati nel nostro paese. E si tratta di circa centomila chiese e oltre
millesettecento santuari. Se quattordici milioni sono i pellegrini poi, altri ventuno milioni
compongono il folto gruppo di coloro che viaggiano per motivi culturali, i cosiddetti «turisti della
fede» appunto, che scelgono per le loro vacanze di soggiornare in monasteri, eremi, case
d’accoglienza e di visitare musei, santuari, conventi.

Vi ricordate il Grande Giubileo dell’anno 2000? Dopo quell’anno, il trend dei pellegrini è
aumentato del 20%. E le previsioni di quest’anno, parlano di quaranta milioni (più o meno, a modo
loro, credenti) di cattolici in movimento per oltre venti milioni di pernottamenti nelle strutture
d’ospitalità vicine ai luoghi di culto visitati. Viene voglia di chiedersi se le stralunate notizie
attribuite ai «sacri palazzi» (come quella che vuole la Chiesa Italiana principalmente intimorita per
un’eventuale diminuzione dell’otto per mille; oppure quella che annunzia il prossimo arrivo del V
Cavalleria - sotto forma di nuovo dicastero vaticano per la rievangelizzazione dell’Europa – affidata
a un supervescovo super intelligente al quale delegare la salvezza della Chiesa dai malpensanti)
provengano dalla Terra oppure da Marte.

Anche perché, proprio negli stessi giorni, la Chiesa
italiana raccontava una rete di iniziative (e sono migliaia di migliaia) che nel nostro Paese stanno
costruendo i cammini della nuova evangelizzazione e della nuova vita sociale.
È il racconto che veniva dal convegno dedicato al continente multimediale, celebrato a Roma la
settimana scorsa. In tempi in cui, come ha scritto lo storico Nicola Tranfaglia, nessuno può più
permettersi il lusso di perdere la rivoluzione in corso, quello che i cattolici stanno sperimentando
nel mondo del web esula, e di molto, dagli spazi del mero racconto chiesastico. Perché, come ai
tempi di San Paolo, nell’agorà – anche in quella mediatica – non serve imporsi. Serve piuttosto
esporsi: offrire se stessi e la propria vita; offrire se stessi e la propria capacità di ascolto.
Serve
testimoniare il faticoso e apparentemente indecifrabile cammino in cui siamo impegnati.
Perciò
mentre in molti – dentro e fuori la Chiesa – chiedono democrazia e partecipazione agli uomini
dell’apparato clericale, sono proprio la democrazia e la partecipazione ad imporsi, grazie alla rete, a
tutti i livelli del vivere ecclesiale. Lontano dai preti e dagli altari che desacralizzano la vita, ci sono
ancora anime che cercano la libertà di credere a Cristo senza dover pagare dogana per i propri
pensieri.


Filippo Di Giacomo     l'Unità  28 aprile 2010