L’Italia si è fermata ad Adro

La rappresentazione che giovedì sera è andata in onda su Anno Zero, la trasmissione di Rai2
condotta da Michele Santoro, è lo spaccato di un Paese desolante.
La civiltà costituzionale è implosa nel becerume qualunquista grazie all’opera di una destra
populista e padronale, mentre gran parte dell’opposizione belava flebilmente o stava alla finestra.

La vicenda di Adro, paese del bresciano in cui ha avuto luogo la squallida storia della mensa
scolastica negata per ragioni di morosità, è indicatore di un clima rabbioso, ammorbato da
xenofobia e razzismo travestiti da buon senso,
in cui perfino la solidarietà critica di un imprenditore
elettore della destra è indicata come pericolosa sovversione di uno che non sta al suo posto. Tutto
accade mentre si consuma la prima ribellione al monolitismo berlusconiano da parte del presidente
della Camera Gianfranco Fini. I rappresentanti della destra presenti nello studio di Santoro, la
puntigliosa ministra alle Pari opportunità Mara Carfagna e il civile parlamentare Benedetto della
Vedova sono commoventi nell’interpretazione della destra “per bene” mentre il governo di cui
fanno parte, in solido con la Lega, devasta il tessuto sociale e umano del Bel Paese e fa a pezzi
quello straccio di buon nome che l’Italia conservava come eredità, per altro equivoca, di un posto di
brava gente.
L’humus tossico di intolleranza che proveniva da Adro tracimava nello studio e nelle
nostre case disarmate interrotto dalla voce civile di qualche persona degna di quel paese e da voci
intelligenti in studio. E anche i trentenni del Pd Serracchiani, Civati e Renzi hanno fatto percepire il
respiro di un’altra Italia, l’Italia umana. Forse non tutto è perduto.

Moni Ovadia     l'Unità  24 aprile 2010
 



Aldo e gli altri. Troppi morti di carcere

Il carcere è duro per tutti, detenuti e uomini della polizia penitenziaria, medici, assistenti, operatori,
volontari. Nell’episodio di Luigi Acquaviva, l’ergastolano deceduto per impiccamento - ma dopo
essere stato picchiato selvaggiamente - «è difficile trovare sulla sua pelle un quadrato di superficie
superiore a dieci centimetri quadrati che non comprenda un’ecchimosi o un’escoriazione», è scritto
nelle motivazioni di una sentenza. Ai tre agenti condannati per lesioni sono state concesse le
attenuanti - anche - «perché per anni hanno prestato servizio negli istituti penitenziari con tutte le
difficoltà e i disagi collegati a tale status».

Un supplemento di clemenza, insomma, per aver svolto il proprio lavoro e per essere in qualche
modo sopravvissuti al carcere. Questa sì che è un’ammissione forte, che la dice lunga su cos’è,
oggi, il sistema carcerario italiano.
Per Stefano Cucchi parlano le foto, certo, crudeli e decisive. Non
fossero state scattate un minuto prima di chiudere la bara, l’opinione pubblica avrebbe ignorato il
«caso» e anche questa sarebbe stata una morte come tante altre, silenziosa e dimenticata, degna al
massimo di una breve in cronaca. Eppure, nemmeno quelle terribili foto dicono tutto. Le evidenti
lesioni, ancora più vergognose e dolorose se davvero causate mentre Stefano si trovava sotto la
tutela dello Stato - e stabilire a chi appartengano le eventuali «mele marce», è da questo punto di
vista davvero irrilevante -, quelle lesioni sono, forse, il fatto meno grave. Leggete l’intervista con il
signor Giovanni Cucchi, il padre di Stefano, e vi sarà difficile non provare rabbia mista a
compassione per il calvario che a lui e alla sua famiglia è stato riservato, oltre l’orrenda morte – e
che morte - del figlio. Una collana di manchevolezze, sciatterie e ottusità che lo stesso Dipartimento
amministrazione penitenziaria ammette senza riserve, fino «all’incredibile epilogo della mancata
comunicazione del decesso».

Già, perché nessuna istituzione ha mai comunicato ufficialmente alla famiglia Cucchi che Stefano
era deceduto. Solo un foglio messo davanti alla madre, e la richiesta di una firma: «Servirebbe per
la nomina del perito che parteciperà all’autopsia». La vicenda di Stefano è emblematica e forse
irripetibile, almeno per lo svolgimento conosciuto dei fatti.
A ogni bivio tra male e peggio, la sceneggiatura ha imboccato decisa sempre la seconda strada,
rinnovando ogni volta lo strazio che sembra non avere fine
. Poco prima di andare in stampa con
questo libro i giornali hanno riportato la notizia della fine dei lavori della commissione di inchiesta
del Senato sull’accertamento delle cause della morte di Stefano Cucchi: disidratazione. Morto per
sete, dunque, non in mezzo al deserto ma in ospedale, dove era ricoverato - prima e oltre che
recluso - da cinque giorni. Fosse vero, sarebbe ancora più dura da accettare. Una flebo è, dovrebbe
essere, il minimo terapeutico garantito. Meno, c’è l’abbandono più totale.
La storia richiama alla mente quella di Sami Mbarka Ben Gargi, tunisino, morto dopo quasi
cinquanta giorni di sciopero della fame, iniziato per protestare contro una sentenza che considerava
ingiusta. Più che morto, lasciato morire. In questo caso le istituzioni penitenziarie e sanitarie hanno
alzato le braccia davanti «alla volontà di non alimentarsi», non disponendo un Trattamento sanitario
obbligatorio se non quando era troppo tardi. Per Sami, fuori dal carcere non c’è stata nessuna
fiaccolata o manifestazione a tutela del diritto alla vita, non si sono sentiti slogan contro il diritto a
morire, nessun parlamentare si è preoccupato di predisporre e votare in fretta un decreto legge che
ne garantisse l’alimentazione forzata. Strana questa interpretazione del diritto alla vita, che vale per
una ragazza in coma da anni, vale addirittura per i non nati, ma evapora quando di mezzo c’è un
extracomunitario, spacciatore, detenuto e malato.

Spesso non è nemmeno il carcere a uccidere, o a spingere a uccidersi, semplicemente perché manca
il tempo anche di acclimatarsi. Sono le storie di incensurati che non hanno retto alla sola idea della
prigione, e un’ora,o due giorni o tre dopo l’arresto hanno deciso di farla finita per sempre. Si
sarebbe impiccato Niki Aprile Gatti, appena tornato dai «passeggi», senza che i compagni di cella
abbiano sentito nulla e, stranamente, con il pigiama addosso. Si è soffocato con un sacchetto di
plastica Camillo Valentini, sindaco di Roccaraso, finito dentro per una megainchiesta su corruzione
e concussione, con l’aggravante dell’associazione a delinquere di stampo mafioso per la gestione
degli appalti pubblici, salvo che - morto il reo - i processi degli altri coimputati si sono conclusi tutti
con archiviazioni. E poi la storia incredibile di Stefano Frapporti, muratore, incensurato - una sola
multa nel suo mezzo secolo di vita -, fermato alle 7.00 della sera perché viaggiava in bicicletta
contromano sul marciapiede, a Rovereto, mentre andava a cena a casa di amici, sospettato di essere
un «potenziale possessore di stupefacente», morto suicida in carcere a mezzanotte.

Forse non ce l’avrebbe mai fatta, nemmeno fuori, Diana Blefari Melazzi, che fece parte del
commando che uccise Marco Biagi. La malattia mentale che l’ha accompagnata nella sua
detenzione era anche un’eredità dolorosa di un dramma famigliare che l’aveva segnata nel profondo
e fatta deragliare, fino all’emulazione dell’ultimo tragico gesto, «anticonservativo», nel grigio
linguaggio burocratico.
E per finire, la storia di Aldo Bianzino, il falegname morto con una profonda lesione al fegato,
ufficialmente frutto di una manovra errata durante il massaggio cardiaco tentato per rianimarlo.
Incensurato, la sua «colpa» era quella di coltivare delle piantine di cannabis vicino al casolare
ristrutturato, lontano da tutto e da tutti, dove viveva con la famiglia. Arrestato insieme alla
compagna Roberta, venne ritrovato morto - per emorragia cerebrale – alle 8.00 della mattina.
Un’ora dopo, e poi due ore dopo, dirigenti del carcere si presentarono nella cella di Roberta,
chiedendole di confessare se Aldo avesse ingerito qualcosa o se soffrisse di malattie particolari. Nel
casolare in mezzo ai boschi erano rimasti la madre novantenne di Roberta e il figlio quindicenne
della coppia, Rudra. Dopo la morte di Aldo, nel giro di un anno se ne sono andati anche mamma e
nonna. Rudra è rimasto solo al mondo. La Giustizia, o il suo simulacro, è arrivata come un uragano
in quel paradiso terrestre, frantumando esistenze e una famiglia unita e felice. La società – intesa
come io e voi, noi, la nostra comunità - ci ha guadagnato o ci ha perso?

A fronte dei molti che muoiono in carcere, la maggioranza sopravvive. E forse, viste le condizioni
di vita, bisognerebbe fermarsi un pò di più a riflettere su questa straordinaria resistenza al dolore e
all’abbrutimento. Nelle storie del libro non sono raccontati, volutamente, i commenti a queste morti,
alcuni incomprensibilmente ignobili e sprezzanti. Tanto più in un paese che non perde occasione di
definirsi cattolico e che delle sue «radici cristiane» ha fatto addirittura un vessillo politico.

«Non giudicate e non sarete giudicati» è una delle massime evangeliche più belle e più dimenticate. È
successo in molte di queste storie dove, oltre a rimanere inascoltate le ultime implorazioni di aiuto,
le grida di dolore e le richieste di perdono, si è continuato a infierire anche sui loro cadaveri
martoriati, ironizzando sul fatto che «non fossero degli stinchi di santo», che «si sarebbero meritati
la fine che hanno fatto», addirittura che «hanno fatto da soli quello che uno Stato serio avrebbe
provveduto a fare lui». Cioè impiccarsi. La pietà, oltre che il diritto, sembra morta da tempo e con
lei anche la capacità di perdonare. Ha scritto Ermanno Olmi: «Un uomo in ginocchio è più grande
di un uomo in piedi».

 

Luca Cardinalini     l'Unità  24 aprile 2010