La regola è
libertà, anche se non piace
Una mia parente, da bambina, aveva appiccicato sulla porta della sua stanza un
foglio di carta con la
scritta: «Rispettare le regole». Era una bambina tutt’altro che docile e
riguardosa, bensì avventurosa
e vivace. Forse proprio per questo aveva istintivamente capito, senza aver letto
alcun libro di diritto,
che delle regole non si può fare a meno, se si vuole star bene insieme. La
regola non ha mai goduto
di buona stampa.
È una delle prime vittime della retorica sentimentale che falsifica il profondo
sentimento della vita e
delle sue contraddizioni. Non c’è poetastro che non vanti la propria sofferta e
appassionata fantasia
insofferente di norme stilistiche, anche se il suo collega Dante Alighieri ha
dimostrato che rispettare
la metrica, l’ordine della terzina e della rima e il numero di sillabe del verso
può essere efficace per
rappresentare il caos delle passioni, il mistero del mondo e di ciò che sta
oltre. La vita è un continuo
confronto con la regola, che essa si dà per non dissolversi nell’indistinto e
che essa creativamente
muta, per renderla più adeguata ad affrontare la realtà sempre nuova, costruendo
incessantemente
nuove regole.
Le creative rivoluzioni artistiche infrangono alcune leggi dei
loro linguaggi,
scoprendo così nuove forme del mondo e della sua rappresentazione, che a loro
volta obbediscono a
criteri rigorosi. Faulkner o Kafka, che sconvolgono l’ordine tradizionale del
romanzo, ne creano un
altro, non meno inesorabilmente cogente e proprio perciò creativo. Nessuna
regola è un idolo,
nemmeno la regola per eccellenza, la legge. Le leggi possono e talora devono
cambiare, come
avviene. Ma il cambiamento, anche sostanziale e radicale, deve avvenire secondo
modalità e regole
precise. Ciò che oggi è impressionante nel nostro Paese e
contribuisce a degradare Stato e società ad
accozzaglia confusa, non è la violazione delle leggi, che è sempre esistita,
bensì la crescente
indifferenza nei loro confronti.
Più che barare al gioco — il che presuppone comunque tener
conto,
sia pure con intenti truffaldini, delle regole — si mescolano le carte da
poker con quelle dello
scopone, se un avversario tira già una scala reale si risponde facendo briscola.
Nella vicenda delle
liste presentate dal Pdl in vista delle prossime elezioni nessuno ha barato,
perché non si bara con
l’intenzione di perdere. Si è trattato di una goffaggine, poco importa se dovuta
a risse interne o a
inettitudine, fondata sulla consapevole o inconsapevole convinzione che regole e
leggi possano
venire tranquillamente disattese. Questa disinvoltura alla fine autolesionista è
offensiva in primo
luogo nei confronti dei potenziali elettori del Pdl (e sono molti) che rischiano
di perdere, per colpa
del Pdl, il loro diritto di votare per esso. L’indecoroso ruzzolone ha creato,
come è noto, un
problema: la necessità di conciliare il rispetto della legge con la possibilità
di molti cittadini di
votare, come è loro diritto, per il Pdl, partito maggioritario che
masochisticamente si toglie di
mezzo. Per i maldestri autori dell’autogol, comprensibilmente desiderosi di
porvi rimedio, sembra
che quella violazione delle regole non conti nulla. Si sente gridare al cavillo,
al giochetto; si accusa
di arido e astratto formalismo chi cerca di risolvere il dilemma senza violare
la legge. Sembra non ci
si renda conto che ogni violazione ne tira dietro un’altra e che considerare uno
sfizio l’esigenza di
rispettare la legge significa minare alla radice i fondamenti della vita civile.
Una società che si
abitua a disattendere le norme non è più una società; non è nemmeno il branco di
lupi di Kipling,
che si fonda su una legge. L’unica via era e rimane, come ha detto fra gli altri
il Presidente emerito
Scalfaro, il rinvio delle elezioni, sola soluzione atta a consentire il voto di
tutti i cittadini a tutte le
liste senza calpestare il diritto.
Ma l’insensibilità all’osservanza delle leggi sembra
diffondersi come
un liquame gelatinoso; la sua sorgente è la classe politica, ma non so se a
quest’ultima si
contrapponga un Paese reale più sano e meno inquinato. In questo caos
è sempre più difficile
distinguere guardie, ladri e derubati. Certo, siamo tutti insofferenti di
leggi e di regole, sempre
impari, nella loro inevitabile convenzione, al fluire della vita. La maturità di
un individuo e di una
società consiste nell’armonia con cui si sanno conciliare giustizia ed equità,
rispetto delle leggi e
capacità di risolvere umanamente i conflitti che in certi casi la loro rigidezza
può provocare, senza
passare disinvoltamente al di sopra di esse, ma trovando una modalità anche
formale di risolvere
quel conflitto. Talvolta il summum ius può diventare summa iniuria,
massima ingiustizia, e allora si
pone un conflitto che va risolto. Ma se non c’è nessun ius, c’è sempre e
soltanto la massima iniuria,
il trionfo dell’ingiustizia ovvero dei più forti privi di freni nella loro
oppressione dei deboli.
Nessuno può amare la legge, perché essa esiste in quanto
esistono i conflitti e ognuno di noi
vorrebbe vivere in un mondo in cui non ci fossero conflitti né contraddizioni,
in una beata innocente
età dell’oro in cui ogni pulsione e desiderio potessero essere appagati senza
ledere nessuno.
L’amicizia, l’amore, la contemplazione del cielo stellato non richiedono codici,
giudici, avvocati o
prigioni e nemmeno regole precise come quelle del golf o del calcio. Ma
codici, giudici, avvocati e
prigioni diventano necessari quando qualcuno impedisce con la forza a un altro
di amare o di
contemplare il cielo stellato. «Il dominio del diritto — scriveva il
grande poeta romantico tedesco
Novalis — cesserà insieme con la barbarie». I meandri della legge possono
incutere angoscia e
paura, come testimonia tanta letteratura. Ma la barbarie non cessa e c’è
bisogno di diritto. E anche
di regole nei rapporti umani; regole, in questo caso, non certo codificate o
imposte né rigide, ma
tacitamente presenti nel tono, nella modalità, nella musica ossia nella sostanza
umana di ogni
relazione, anche di amicizia e di amore. Pure il quotidiano vivere civile
ha bisogno di regole non
scritte, ma fondanti, che esprimano il rispetto dell’altro; un senso
immediato e spontaneo che nasce
dall’osservanza di regole intimamente accettate e divenute naturale modo di
essere. Non è questo lo
stile di chi oggi ci governa.
Mi auguro che chi lo desidera possa votare per il partito che
ha rischiato
di impedirglielo con quell’improvvida sciatteria, purché ciò avvenga senza
violare le leggi. Quel
partito usurpa il nome di liberale; sarebbe paradossalmente più coerente se
usurpasse il nome di
democratico, perché ha assai poco di quell’illuminato sistema di leggi, pesi e
contrappesi, poteri e
contropoteri che il liberalismo ha elaborato per tutelare umanamente le libertà.
Il Pdl appare
piuttosto talvolta una versione scivolosa della democrazia: l’appello al Popolo,
l’investitura
plenaria, la concezione della politica quale rapporto privilegiato, unico e
permanente del leader con
una specie di assemblea generale degli italiani ricordano — in forme abnormi —
piuttosto Rousseau
che Stuart Mill; si richiamano al mareggiare della folla in piazza più che alla
divisione dei poteri.
Anche quello che è avvenuto con le liste elettorali sembra fatto più in nome del
«Popolo»
(disinvoltamente identificato col proprio partito o con la propria fazione) che
in nome delle
garanzie, delle distinzioni e della legalità liberale. Che i due maggiori
partiti italiani, reciprocamente
avversi, debbano scambiarsi il nome?
Claudio Magris Corriere della Sera
15 marzo 2010