Laicità. Essere
padroni della nostra esistenza
Pubblichiamo parte della lezione su "Laicità e governo sulla vita" che terrà
oggi all'Università di
Torino dove riceverà il premio "Laico dell'anno".
Laicità rinvia ad autonomia, e questa si declina come autodeterminazione.
Sì che, parlando di
laicità, non possiamo più ritenere che l'orizzonte sia individuato soltanto dal
rapporto tra due poteri,
lo Stato e la Chiesa, «ciascuno nel loro ordine, indipendenti e sovrani», o
dallo stesso confronto tra secolarizzazione e religiosità.
È avvenuta una più complessa distribuzione dei poteri, che
individua
la persona come protagonista istituzionale. La laicità, oltre che come
principio di organizzazione
istituzionale e sociale, si manifesta così anche come principio di governo della
vita, che inquieta a
tal punto da suscitare la tentazione di mimare un incipit famoso, e annotare che
«uno spettro
s'aggira per l'Italia – lo spettro dell'autodeterminazione».
«La circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli articoli
2, 13 e 32 della
Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti
fondamentali della persona:
quello all'autodeterminazione e quello alla salute». Queste parole della Corte
costituzionale
individuano una distribuzione di poteri, la cui portata può essere colta
attraverso due rapidi esercizi
di riflessione storica. Partiamo dal 1215, dalla Magna Charta e dal suo
habeas corpus, con la
promessa del re a ogni "uomo libero": «non metteremo né faremo mettere la mano
su di lui, se non
in virtù di un giudizio legale dei suoi pari e secondo la legge del paese».
Siamo di fronte
all'abbandono di una prerogativa regia, a un autolimitazione, a un atto che
laicizza il potere del re,
che non riposa più sulla sovranità/sacralità, ma si cala nel mondo, si presenta
come l'esito di una
negoziazione complessa, che porterà poi alla "autolimitazione" dello Stato
sovrano come atto di
fondazione dei diritti pubblici subiettivi.
Sette secoli dopo, nel 1947, l'Assemblea costituente approva
l'articolo 32 della Costituzione, che
riconosce la salute come diritto fondamentale e prevede che i trattamenti
obbligatori possano essere
imposti solo per legge. Ma si aggiunge: «la legge non può in nessun caso violare
il limite imposto dal rispetto della persona umana».
È una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione,
pone
al legislatore un limite invalicabile. Quando si giunge al nucleo duro
dell'esistenza, siamo di fronte
all'indecidibile. Nessuna volontà esterna, fosse pure espressa da tutti i
cittadini o da un Parlamento
unanime, può prendere il posto di quella dell'interessato. Siamo di fronte ad
una sorta di nuova
dichiarazione di habeas corpus. Il sovrano democratico, una assemblea
costituente, rinnova a tutti i
cittadini la promessa di intoccabilità: «non metteremo la mano su di voi»,
neppure con una legge.
La rottura è netta. Non vi è più una autolimitazione, ma un vero trasferimento
di potere, anzi di
sovranità. Sovrana nel decidere della propria salute, e dunque della propria
vita, diviene la persona.
Passiamo al secondo esercizio storico, al quarto secolo prima
di Cristo quando Ippocrate formula il
giuramento che accompagnerà la professione medica. «Sceglierò il regime per il
bene dei malati
secondo le mie forze e il mio giudizio, e mi asterrò dal recar danno e offesa».
Di nuovo una
autolimitazione del potere, di cui scopriremo la radicale inadeguatezza ventitre
secoli dopo, nel
1946, quando a Norimberga vengono processati i medici nazisti. L'abuso del
potere medico
attraverso la sperimentazione sugli esseri umani provoca una reazione, affidata
al Codice di
Norimberga, che si apre con le parole «il consenso volontario del soggetto umano
è assolutamente
necessario». Dall'autolimitazione del potere del medico, definita
unilateralmente dal giuramento, si
passa ad un integrale trasferimento del potere alla persona che, sottratta a
quel potere, rinasce come
"soggetto morale".
L'autodeterminazione si identifica così con il progetto di vita della persona.
Qui vita è davvero
quella di cui ci parla Montaigne, «un movimento ineguale, irregolare,
multiforme», governato da un
esercizio ininterrotto di sovranità che permette quella libera costruzione della
personalità iscritta in
testa alla nostra e ad altre costituzioni. E sovranità e proprietà sono
parole che, non da oggi,
accompagnano la definizione del nostro rapporto con il corpo, dunque con la vita
tutta intera.
Respinto sullo sfondo il riferimento alla proprietà, si creava la condizione
propizia all'incontro con
la sovranità. Certo tra "sovrani" sono sempre possibili tensioni o conflitti.
Ma, proprio per evitare
che la vita divenga un campo di battaglia, vengono definiti confini che potere
politico e medico non
possono varcare, escludendo che lo Stato abbia giurisdizione sulla vita, possa
considerare il corpo
come un luogo pubblico, che è cosa diversa da limiti coerenti con la natura
dell'autodeterminazione.
Ma le controversie rimangono. L'iconografia tradizionale e gli antichi scritti
sono fitti di descrizioni
nelle quali figure diverse si contendono corpo e vita di una persona. La
virtù e il diavolo, il
sacerdote e il principe, il medico e il soldato, le donne tentatrici e i
mercanti avidi sono tutti lì
intorno ad una spoglia, privata di libertà e autonomia. Un grumo di
quelle rappresentazioni è ancora
presente. Il pane e le bottiglie d'acqua sul sagrato d'una chiesa o davanti ad
una clinica, le scritte che
rivendicano la proprietà d'un corpo e d'una vita, la presentazione del diritto
come un'arma che
uccide ripropongono con deliberata violenza la negazione
dell'autodeterminazione. E il Presidente
del consiglio manda una lettera alle suore che avevano ospitato Eluana Englaro,
addolorato «per
non aver potuto evitare la sua morte».
Non è il rammarico di un Re Taumaturgo al quale è stato
impedito di imporre le sue mani per una guarigione altrimenti impossibile.
È la rivendicazione di un
potere sulla vita, di cui il politico vuole tornare a essere l'unico
depositario.
Intorno a noi è tutto un cercar di chiudere i varchi aperti perché
l'autodeterminazione potesse essere
esercitata. In un'ansia di rivincita, l'alleanza tra libertà e tecnologie viene
rovesciata. Le tecniche
contraccettive avevano reso possibile una sessualità liberata e una maternità
consapevole. Ma le
tecnologie della riproduzione o la pillola Ru 486 diventano l'occasione per
riprendere il controllo
del corpo delle donne. Le tecnologie della sopravvivenza vengono trasformate
nell'obbligo di
sopravvivere attraverso manipolazioni sconosciute alle leggi di altri paesi. Si
dovrà rinunciare ai
loro benefici per il timore di divenirne, poi, prigionieri?
Via via che si entra nel mondo nuovo della scienza e
della tecnologia l'autodeterminazione
guadagna nuovi spazi e, proprio per questo, richiede un ambiente pienamente
laicizzato, dove tutte
le opportunità possano essere valutate senza pregiudizi. Ma scienza e
tecnologia avviano anche
processi di riduzione drammatica della libertà di scelta che possono essere
contrastati solo esaltando
al massimo le potenzialità dell'autodeterminazione. Segnalo quella che chiamerei
la consegna della
persona alla società dell'algoritmo. Scopriamo sempre più spesso un mondo
governato
dall'algoritmo, quello di Google o quello al quale la finanza aveva affidato le
scelte di investimento.
E scorgiamo pure una costruzione dell'identità sempre più sottratta alla
consapevolezza degli
interessati, affidata invece a processi variamente automatici.
Tornando alle parole iniziali, e senza la pretesa di chiudere un cerchio,
la laicità si rivela un presidio
contro la pretesa di qualsiasi potere di impadronirsi della vita, fino alla sua
totale
spersonalizzazione. Non dirò che la laicità sia il più umano dei principi, ma
pure ad esso è affidata
la nostra problematica umanità.
Stefano Rodotà la Repubblica 10 marzo 2010