Identità negate

Nel deserto della città terremotata scavalcando le transenne e invadendo le strade segnate dalle
macerie, gli aquilani hanno “ripreso” le loro case. O meglio: ciò che ne resta. Come il fondale di un
teatro o come le facciate di legno sul set di un film western, l’improvvisa animazione di una folla di
abitanti ha dato vita a un’assenza e ha riempito i vuoti di un centro storico che ricorda un paesaggio
post-bellico. Gli assenti, gli aquilani dispersi nelle “casette” e negli alberghi, o in alloggi di fortuna
sono tornati sulla scena con la “manifestazione delle carriole”. Manifestazione, cioè l’atto del
manifestare. Quando si manifesta, in genere, è una buona cosa. Significa, farsi vedere e far vedere,
rendere pubblico, dare visibilità a ciò che è occultato o negato.
Oggi manifesteranno altri assenti: finora occultati o negati. Lo sciopero degli immigrati è
propriamente questo: è la manifestazione – fatta di molte manifestazioni – di un popolo che
semplicemente non si vede.
O che, peggio, si vede (viene visto) solo come un fattore di allarme
sociale, e di angoscia collettiva.
E che richiama immagini di invasione o – in chi ha “un cuore
grande così” – un sentimento di rimorso, che può avere effetti negativi non minori di quelli prodotti
dalla paura sociale. Perciò è così importante, al di là del numero di quanti oggi vi parteciperanno,
che il “primo marzo degli immigrati” abbia successo e dia vita ad altre giornate come questa. Ed è
assai significativo che, a promuoverlo, siano state, tra gli altri, le comunità straniere: perché qui sta
la sfida più ardua, che non si esaurisce certo in ventiquattro ore ma che, al contrario, da questo
primo marzo può prendere le mosse.
In gioco c’è, infatti, ciò che chiamiamo soggettività: l’identità individuale e collettiva, le biografie e
le memorie, le culture e i vissuti e le aspettative.
Gli immigrati sono da tempo nella società italiana,
profondamente inseriti nelle sue sfere di vita e nei suoi gangli economici: accudiscono i nostri
bambini e i nostri vecchi e reggono settori come l’agroalimentare e l’allevamento, l’edilizia, la
ristorazione, la siderurgia, la pesca e altri ancora. Sostengono in misura rilevante il nostro sistema di
welfare, surrogandolo attraverso il “lavoro di cura” e incrementandolo attraverso la contribuzione
previdenziale. Sono lì, nelle case e negli uffici, nei mezzi di trasporto e nelle pizzerie, ma
semplicemente non li vediamo. Ovvero non li “pensiamo”.
Non è questione di buoni sentimenti e
nemmeno di buone intenzioni. Fino a quando gli immigrati rimarranno una folla anonima e
indistinta, senza nome e senza volto, senza personalità e senza passato, ci appariranno molesti e
minacciosi e la loro distanza da noi tenderà a crescere: e a renderci ancora più insicuri.
Sapete
perché in Italia non si è mai sviluppato un movimento come SoS Racisme in Francia? Molti i
motivi, ma uno in particolare va considerato oggi. Lo slogan del movimento francese era: non
toccare il mio amico. Ma in Italia quanti possono dire di avere - e non in senso ideologico o
solidaristico - un amico immigrato?


Luigi Manconi    l'Unità  1 marzo 2010