Sete di verità

Non credo che gli studenti dell’Aquila chiedano menzogne e illusioni, quando gridano a Bertolaso e alla politica, ai magistrati e ai giornali: «Diteci che non è vero!». In realtà aspirano a quel che nella giustizia è essenziale. Esigono verdetti, ma ricordano che i processi si fanno innanzitutto per tutelare l’innocente. Chi non s’è macchiato di reati vuol sapere che non pagherà per altri in tribunale, che la colpa di alcuni non si farà collettiva. Solo se esistono responsabilità individuali anziché collettive la politica non perde senso, il bene cui si tiene non è cenere interrata. Quel che viene rifiutato è una cosa pubblica ridotta ­ lo dicono gli indagati nell’affare Bertolaso ­ a sistema gelatinoso, a una cosca che non tollera intrusioni, controlli. L’allarme è grande perché quel che vacilla è la ragion d’essere più antica della politica: la protezione dei cittadini inermi dai disastri.

Per questo lo scandalo della Protezione civile, colmo di simboli primordiali, scotta tanto. Per questo urge sapere presto chi ha colpe, chi no. Il potere dello Stato, in fondo, esiste per difendere i cittadini dalla paura, dai pericoli della natura, dalle aggressioni belliche. È chiamato Leviatano perché ha questo potere di vita e di morte, ma se protegge male non è Leviatano. Con le proprie mani porterà la propria testa alla ghigliottina. Quando decapitarono i monarchi Goethe, che non amava le agitazioni rivoluzionarie, scrisse: «Fossero stati veri re, non sarebbero stati spazzati via come con una scopa».
Ma soprattutto vogliono sapere, gli studenti, che non è vero quel che gli studiosi dicono da anni e che i giudici per le indagini preliminari a Firenze ripetono quasi testualmente.

Che «viviamo una disarmante esperienza del peggio», scriveva il rapporto del Censis del 2007, aggiungendo che la nostra non era una società «ma una poltiglia cui si potrebbe sostituire il termine di mucillagine»: un «insieme inconcludente di elementi individuali e di ritagli personali tenuti insieme da un sociale di bassa lega».

Nell’ordinanza del gip, il servizio pubblico e la Protezione civile sono descritti dagli stessi indagati con vocaboli simili: un sistema gelatinoso, fatto di gente che «ruba tutto il rubabile», che confonde pubblico e privato, che in nome dell’efficienza cerca soldi e favori per sé. Un indagato dice, accennando ai lavori per il G8 della Maddalena: «C’abbiamo la patente per uccidere, cioè possiamo piglià tutto quello che ci pare». Due imprenditori sprofondano nella sguaiataggine, nei minuti stessi in cui la terra abruzzese trema. Esordisce al telefono tale Gagliardi: «Qui bisogna partire in quarta subito, non è che c’è un terremoto al giorno». Il collega Piscitelli dice che lo sa. E ride. Al che Gagliardi: «... (lo dico ) così per dire per carità... poveracci». Piscitelli: «Va buò ciao». Gagliardi: «O no?». Piscitelli: «Eh certo... io ridevo stamattina alle tre e mezzo dentro al letto». Gagliardi: «Io pure...». Diteci che non è vero è domanda di verità, è non rassegnazione al salmo 14: «Tutti sono corrotti; più nessuno fa il bene, neppure uno».

Bertolaso e gli uomini del suo dipartimento avranno modo di difendersi, distinguendo tra vero e falso. Comunque sono già ora chiamati a condotte probe: in particolare Bertolaso, perché chi presiede un’istituzione è responsabile dei propri uomini, non può degradarli a mele marce tirandosi fuori. È solo indagato, ma l’opacità estrema della Protezione civile fa tutt’uno con l’opacità del modo berlusconiano di governare. Egli ha il peso, decisivo, che Carl Schmitt attribuisce a chi ha accesso al Leviatano. È il potere dell’anticamera del potente, «del corridoio che conduce alla sua anima. Non esiste nessun potere senza questa anticamera e senza questo corridoio» (Schmitt, Dialogo sul Potere, Il Melangolo 1990).

Il corridoio non è di per sé malefico, ma in Italia è oggi colmo di insidie: tanta è la gelatina che regna indisturbata ai vertici. Nel caso specifico, il potere indiretto di chi sta in anticamera diventa speculare a quello diretto, tende a farsi anch’esso assoluto, a non rispondere a autorità superiori, a considerare i magistrati come «dipendenti pubblici» da irreggimentare perché non eletti (l’espressione è del presidente del Consiglio). Chi oggi è in simili corridoi rischia di diventare parte di un preciso disegno: disegno che distrugge la politica, tramutando la cosa pubblica in privata. Che ostentatamente governa a partire dal proprio domicilio, trasformando Palazzo Grazioli in succedaneo di Palazzo Chigi. Che estende i territori italiani sottratti alla legge. Alle regioni ampiamente controllate dalla mafia, s’aggiungono ambiti sempre più vasti, legalmente svincolati dall’imperio della legge. È inevitabile, quando l’emergenza si eternizza e si espande smisuratamente, comprendendo settori per nulla emergenziali. L’immensa Protezione civile si accentra a Palazzo Grazioli ed è messa in condizione (soprattutto se diverrà società per azioni) di eludere la rule of law. Si politicizza e si privatizza al massimo, simultaneamente.

Bertolaso è a un bivio. Avendo dimostrato non comuni capacità di proteggere i cittadini, può prendere le distanze e salvare un’opera. Nei giorni scorsi ha detto, veemente: «Sono pronto a dare la vita per convincere gli italiani che non li ho ingannati». Non gli si chiede tanto. Si spera però che non si lasci contaminare. Proprio perché possiede un’aura di Medico-senza-frontiere, Bertolaso ha molto da perdere, dalla contiguità con la gelatina di cui è fatto Palazzo Grazioli. Se ha errato, il suo errore sarà giudicato immorale, e l’immorale distingue perfettamente il bene dal male. Solo dimettendosi Bertolaso eviterà che il corridoio verso il potente diventi, come nelle parole di Schmitt, una letale «scala di servizio».

Possono essere due, i motivi di una dimissione. O si perde la fiducia dei vertici, o la richiesta nasce nella coscienza. È difficilmente pensabile che Bertolaso non abbia orecchie per questa seconda voce, vedendo la degenerazione dell’opera che dirige da anni.
Un aiuto autentico dall’alto non gli verrà, perché Berlusconi non gli somiglia: più che un immorale, lui è un a-morale. Non è Nixon pienamente conscio del male commesso che si confessa, nel 1977, al giornalista David Frost. Il film di Ron Howard lo descrive bene: la colpa lo corrode. Non così Berlusconi, ignaro di corrosioni. Egli non sa cosa sia la morale, e neppure cosa sia l’ideologia. Sventolerà l’una o l’altra, se servirà per deturpare istituzioni e contropoteri. Se non fosse a-morale non avrebbe osannato agli inizi di Mani Pulite, scatenando contro gli indagati il fuoco delle sue televisioni (lo ricordò prima di morire il tesoriere indagato della Dc, Severino Citaristi).

L’argomento che usano sia Berlusconi che Bertolaso è l’efficienza.
Dice il primo: «Se un’opera è fatta bene al cento per cento e poi c’è l’1 per cento discutibile, quell’1 va messo da parte». Non è chiaro chi decida le percentuali, tuttavia. E come possa ben operare, alla lunga, una poltiglia dove si mescolano Grandi Eventi e disastri; spasso e dolore; show, morte e risate. La sindrome di impunità che regna nell’anticamera del potere, i costi maggiorati senza controllo, le imprese che si sbrigano male pur di lucrare sulla fretta: questo non è efficienza. Dalla corruzione non scaturisce efficienza.

In un editoriale sul Corriere del 30 gennaio, Sergio Romano dice una cosa assai giusta, su Blair, Sarkozy e Schröder. Denuncia la propensione a mescolare pubblico e privato, a edificare carriere «sull’immagine e sulla comunicazione piuttosto che sulla buona gestione della Cosa pubblica», e conclude: «Il giudizio politico non ha bisogno di scranni, parrucche e banco degli imputati, secondo le liturgie della giustizia (...). La vera punizione, molto più grave di una semplice sentenza, è la fine di una brillante carriera». Se giornalisti prestigiosi come lui dicessero le stesse cose sull’Italia di oggi, e l’avessero detta molti anni fa, forse gli studenti dell’Aquila si sentirebbero meno soli, meno scoraggiati, meno impotenti.
Poveri magari, ma non poveracci.

 

Barbara Spinelli    La Stampa  14/2/2010