L'identità culturale italiana e la difesa delle sue radici laiche

Il dibattito sulle radici dell’Europa, che ha preceduto l’approvazione del nuovo Trattato
Costituzionale, ha indotto forse a trascurare la questione dell’identità culturale italiana. Riprenderla
oggi significa però mettere in rilievo il fitto intreccio che la collega alle altre, ma allo stesso tempo
spiegare come essa condizioni il nostro presente. Le radici nazionali sono antiche, varie, profonde, e
tra loro sovente conflittuali.
Sono radici, diciamo così, cresciute «storte». Per spiegarne la ragione è bene considerare che ogni
cultura è un accumulo globale di conoscenze e costumi trasmessi, attraverso generazioni, al proprio
gruppo sociale. Quella italiana, in particolare, ha maturato un carattere unitario nel pluralismo. Un
risultato originalissimo, frutto di bilanciamento e composizione dei conflitti che ha trovato
espressione nelle tre storiche rivoluzioni illustrate da Carlo Cipolla: quella comunal-cittadina dei
secoli XI-XIII, centrata sul mercato e sulla produzione di manufatti; quella scientifica del secolo
XVII, caratterizzata dall’incontro proficuo fra conoscenza teorica e tecnica artigianale; e quella
industriale dei secoli XVIII e XIX, capace di impiegare i progressi della ricerca a fini produttivi. Un
filo «ineluttabile» — come lo ha definito Cipolla — ha legato fra loro queste tre rivoluzioni,
contribuendo a definire la cornice della nostra identità storica.

All’interno di essa, un ruolo essenziale lo ha svolto la lingua. È giusto ricordarne alcune tappe fondamentali: la grande
letteratura e in particolare la lirica siciliana di Giacomo da Lentini, inventore del sonetto; il ruolo
della corte palermitana di Federico II; i toscani e i loro tre grandi trecentisti; l’unità politica e
letteraria teorizzata dal lombardo Manzoni. In parallelo, i progressi della stampa con il primo libro
italiano nella benedettina Subiaco; a Venezia i grandi editori, quali Aldo Manuzio e Ottaviano Petrucci, che introdusse la stampa musicale a caratteri mobili.

È facile qui rilevare la varietà di provenienza geografica delle eccellenze, e il carattere non conflittuale dei rispettivi dialetti,
espressioni della lingua popolare. Dopo di essa, l’arte, ove è marcata l’influenza storica della
Chiesa. La svolta viene da Giotto che introduce nella pittura i soggetti borghesi; poi sarà il
Rinascimento a inventare l’unità nella prospettiva; e in seguito la cultura italiana si imporrà ancora
all’attenzione del mondo concependo l’estetica del barocco (e assai più tardi quella del futurismo) e
riempiendo di opere i grandi musei del mondo. Un rilievo particolare lo merita poi la musica, anche
per un suo aspetto esemplare e poco noto. Vincenzo Galilei, padre del celebre scienziato, fu liutista,
compositore, teorico e ideatore della monodia come nuovo stile di canto. La famiglia Galilei
simboleggia dunque un collegamento diretto fra arte e scienza nello studio delle note e dei numeri
(del resto i pitagorici affascinavano Giordano Bruno)
. Una simile contaminazione si può ritrovare
anche nella teoria politica (la filosofia mazziniana della musica, con il relativo rapporto fra Dio e
popolo) e persino nella pratica diretta (la celebre identificazione patriottica nell’acronimo sabaudoverdiano,
W VERDI). Del resto, nella storia della musica si può riscontrare la stessa cifra di unità
pluralistica: l’Orfeo di Monteverdi, prima opera italiana, vede la luce a Mantova nel 1607, mentre brillano di luce propria Napoli e Venezia.

Ne segue un’osservazione generale. È erroneo individuare
una dicotomia tra umanesimo e scienza, come pure tra quest’ultima e la tecnica: vale per tutte l’immagine di Galileo impegnato a confrontarsi con gli artigiani nell’Arsenale.

È invece nella sofferta conquista della laicità, intesa come unione di scienza e libertà, aperta anche al
riconoscimento della funzione civile della religione, che si ritrovano le cause di quella «stortura»
cui accennavo all’inizio.
È nello scontro con la Chiesa di Roma che i nostri grandi intellettuali
sperimentano la durezza della repressione:
Giordano Bruno è bruciato nel 1600 al Campo dei Fiori;
Campanella subisce 27 anni di galera; Galileo è costretto all’abiura per salvare la pelle. La strada
della laicità e della sapienza civile, dall’Alberti a Machiavelli, da Vico a Sarpi, è segnata fin
dall’inizio dal conflitto, dalla durezza dello scontro con il potere religioso. Ancora nel 1764 sarà
questa esigenza di laicità ad accendere i lumi di Beccaria, e a spingere anche il Manzoni, nella
«Storia della colonna infame», a rifiutare la pena di morte. È toccato alla grande politica il compito
di comporre il conflitto: dal concetto cavouriano di «libera Chiesa in libero Stato» all’introduzione
dei Patti Lateranensi nella Costituzione, con l’articolo 7. La laicità coincide dunque storicamente
con la ricerca di unità nella democrazia costituzionale.

Ma due grandi questioni ancora ci condizionano: il rapporto con la Chiesa di Roma e le persistenti diversità fra Nord e Meridione. Il
primo, emerso con chiarezza durante il lungo dibattito sulle radici dell’Europa, deve fare i conti
oggi con la pericolosa identificazione, da parte di Joseph Ratzinger, della identità europea con la
cristianità.
Adottando il concetto di jus publicum europaeum di Carl Schmitt, che sfocia in una
contrapposizione totale fra Europa cristiana e ciò che le sta intorno, Benedetto XVI con l’enciclica
«Caritas in Veritate» si è allontanato dal sogno laico di Kant, inteso come jus publicum
cosmopoliticum. Dal discorso di Ratisbona del 2006, grecità e illuminismo vengono arruolati dal
Papa sotto la bandiera della ragione cristiana e cattolica. Ribadire invece le radici laiche
dell’identità culturale italiana, significa oggi non solo fare opera di verità storica, ma anche porre le
premesse per una ricomposizione unitaria nella democrazia costituzionale.
Quanto al problema delle
diversità culturali degli italiani, esso presenta una doppia faccia. Quella laica, modellata sul
federalismo del Cattaneo, attenta alle prerogative locali, composte nell’autorità di un parlamento
federale. E quella secessionista, nella storica variante meridionale e oggi, soprattutto, in quella
aggressivamente nordista, con sullo sfondo l’incognita del federalismo fiscale. Una risposta della
politica, al tempo della Costituente, è stata l’istituzione delle Regioni a statuto speciale. Andare
oltre, oggi, dovrebbe significare riscoprire il Salvemini del 1949, che assimilando gli attuali
«padani» ai «terroni» come un busto è attaccato alle gambe, concludeva: «I nordici devono
occuparsi dei sudici, se non vogliono ritrovarsi a mali passi». A volte si è tentati di credere che
davvero, da noi, tutto cambi restando uguale. Rileggere oggi il «Discorso sopra lo stato presente dei
costumi degl’italiani», scritto nel 1834 da Giacomo Leopardi, significa ritrovare, come fotografate
ieri, le debolezze della cultura nazionale, e in particolare quel diffusissimo cinismo pratico, unito
alla mancanza di una vera società civile in cui comporre i conflitti,
che induce i più a «mostrar colle
parole e coi modi ogni sorta di disprezzo verso altrui, l’offendere quanto più si possa il loro amor
proprio, il lasciarli più che sia possibile mal soddisfatti di se stessi e per conseguenza di voi
». Ma
non è il caso di rassegnarsi a simili costanti. La storia della cultura italiana, nella sua
incomprimibile varietà, ci ricorda che, proprio nei momenti difficili, più gravi essi sono, più gli
italiani reagiscono.


Guido Rossi    Corriere della Sera  9 febbraio 2010