L’anno orribile
dell'Italia raccontato da Bocca
"Sono anni che ci chiediamo se il fascismo tornerà Tranquilli... un po´ è già
qui tra noi"
Un finale quasi elegiaco che lascia senza fiato e che sembra riscattare tutte le
brutture
Nel suo nuovo libro un ritratto appassionato e amaro del nostro Paese e della
vita
Uno sguardo sconsolato sulla modernità fraudolenta e servile
Quanta passione, ma quanta amarezza nell´ultimo libro di Giorgio Bocca! Se non
fosse per i lampi di cattivo umore che di punto in bianco rischiarano la pagina,
se non fosse per le zampate affibbiate in modo da sorprendere anche il lettore
più scettico e smagato, o per quella specie di crudeltà colloquiale, «Sono
anni ormai che ci chiediamo se il fascismo ritornerà, ma tranquilli amici, un
po´ è già tornato...», si direbbe un libro sconsolatissimo, e niente
più. Sull´Italia, com´è diventata, sulla modernità, sulla stessa vita, in fondo.
E basti pensare a quei poveracci dell´Aquila, «sprovvisti di pass» nei giorni
della grande festa dei potenti del G8. Bocca ci chiude un capitolo, e l´immagine
resta lì sospesa.
E sì: Annus horribilis (Feltrinelli, pagg. 159, euro 15), ma il
guaio supplementare è che il 2010 appena iniziato non è che butti poi molto
meglio. Questo fascismo perenne e strisciante, tutto nostro, che oltrepassa le
categorie della storia e della politica. Il piacere di servire «stampato
addosso» ai portavoce dei potenti che si vedono all´ora del telegiornale, un
marchio che si riflette «nei gesti, nello sguardo, nella voce». Il gusto, pure
così italiano, di «accompagnare la fortuna» saltando sul carro del vincitore.
Antiche maledizioni: Franza o Spagna pur che se magna. Nuovi consigli: sposatevi
un miliardario. Seguono puntuali risatine.
Scrive Bocca, con misurato sgomento: «Abbiamo poco da stare allegri».
Autoritarismo anarcoide. Retorica populista. Frenesia del comando «faso tuto mi»
destinata a risolversi nell´inganno spettacolare, nella frode morale.
Italia «mignottificio», «generale esibizione di gaglioffaggine», il «gigantesco
swahili» che si parla sull´onda della televisione. Pure i nazisti
si rifanno vivi, con le teste pelate, e i coltelli nei vicoli di Roma, violenza
arcaica e tecnologia sfuggita di mano.
Berlusconi e Mussolini, per forza. I cinegiornali della bonifica delle paludi
pontine e la vittoria del Cavaliere sull´immondizia a Napoli. Il melodramma e il
Bagaglino. A un certo punto c´è una rivelazione piuttosto impegnativa dal punto
di vista autobiografico, se non esistenziale. È piazzata circa a metà testo,
dopo la descrizione di un quadretto vivente che in realtà dovrebbe essere la
«foto scolastica» di chiusura del congresso fondativo del Pdl, con Berlusconi
attorniato dai «nuovi gerarchi e gerarchetti», i ministri, e dalle ministre, «le
gallinelle del padrone», tutti «con la faccina protesa verso il capo». Tra
qualche istante – sembra di ricordare – intoneranno Fratelli d´Italia. E allora,
conclude Bocca, questi «sono i giorni peggiori della nostra vita, quelli per cui
possiamo mestamente pensare di averla vissuta invano».
E qui si
metterebbe punto. Perché se «uomo di lunga vita», come si definisce lui; se un
giornalista che ne ha viste tante arriva a tali apocalittiche conclusioni,
è addirittura la speranza che se ne va alla malora. Sennonché,
assegnato ai libri c´è anche il prezioso compito di commutare il male in bene, o
se si preferisce di trasfigurare le peggiori disgrazie di un paese in una utile
lettura, con il che accade che proprio da questo sconforto, da questa
desolazione, da questa orribile annata vengano fuori dei gioielli di
espressività giornalistica di cui, pur nel cupo combinarsi di sdegno e
pessimismo, si rende grazie all´autore.
Sono immagini che paiono generate da stati d´animo viscerali, bozzetti venuti
giù chiaramente di getto, considerazioni di varia natura per lo più atterrite o
infastidite su una società, ad esempio, come «uno sciame di calabroni avidi». Il
catalogo delle tristezze e delle idiosincrasie è ampio. I comici «da strapazzo
che non fanno ridere neppure per sbaglio, neppure i carcerati di San Vittore,
neppure i barboni del Giambellino». Il vuoto della piazza dopo il bagno di folla
del demagogo. L´elogio della paura, «ma non per capriccio, per delle buonissime
ragioni, a cominciare da quella fregatura delle fregature della creazione che è
la morte».
Ancora. La metamorfosi delle scarpette da fondo «a forma di sommergibili
atomici». Il «crampo» del lusso avvertito nella solitudine di una stanza
d´albergo sulla costiera amalfitana. Gli applausi ai funerali. La
rappresentazione dei covi dei camorristi, «arredati con gusto di adolescenti, il
frigorifero, la televisione, l´immagine di Padre Pio, il passaggio sotterraneo
di fuga». La tortura, infine, che tocca in sorte a chi scrive: «Al minimo errore
il foglio strappato, un senso d´impotenza, il gusto giallo della sigaretta in
bocca».
Racconta Bocca di un impiegato di banca, devoto ammiratore dei suoi libri, che
gli fece fare degli investimenti poi rivelatisi un bidone. Perché anche
l´economia infatti va a ramengo, i finanzieri rubano a man bassa, la pubblicità
si mangia tutto, gli operai invidiano Berlusconi, perfino «i fabbricanti di
pesto sostituiscono il basilico, che annerisce, con erbacce che conservano il
verde in cui spargono profumo sintetico». E tuttavia, immersi nella dittatura
morbida e nella democrazia autoritaria, posti di fronte a questo disfacimento
che suona quasi pasoliniano, ci sono colleghi giornalisti che a suo tempo
Giorgio Bocca hanno scelto come un ruvido maestro a distanza, che si portano
dentro tanti suoi articoli, che considerano Il provinciale un meraviglioso
romanzo e il Togliatti come un ineguagliabile modello di biografia politica,
ecco, per loro la diagnosi del maestro stavolta suona come al solito autentica
ed efficace, ma al tempo stesso è durissima da accettare.
Così alla fine ci si sorprende a cercare invano raggi di sole, ad
almanaccare uscite di sicurezza che non ci sono. Ci sono invece due
pagine e mezzo, le ultime, che tolgono il fiato per quanto sono belle, e si
leggono come un´elegia a qualcosa che è quasi impossibile da designare perché
troppe cose comprendono, in un unico capoverso. Gli estremi assoluti della vita,
«l´immortalità divina», «la fragilità senza scampo», il bosco, le favole, la
paura, il buio dei bambini, dei soldati, dei nemici. E allora sembra che la
grazia della scrittura riscatti tutto il resto, l´annus horribilis e
l´amarezza appassionata che lo alimenta.
Filippo Ceccarelli Repubblica 22.1.10