Un'icona per
sancire l'egemonia moderata
In questo clima di unità nazionale in soccorso della presenza del crocefisso
nelle aule scolastiche
riemerge una mentalità che accomuna appartenenze politiche e religiose distanti.
Nulla di
«naturale», e quindi di «antropologico», come vuole il corrente sentimento del
politicamente
corretto. Le «radici cristiane» dell'Europa nei cui «valori» sarebbe stata
forgiata anche l'«identità»
italiana non è il terreno sul quale tale unità si afferma ancora oggi. È
piuttosto uno degli effetti di un
dispositivo plasmato, rimosso e tramandato che ha una lunga storia.
Seconda parte di una ricerca iniziata nel 2007 con la pubblicazione del volume
Croce e delizia
(Bollati Boringhieri), ne Il ritorno delle croci l'antropologa romana
allieva di Ernesto De Martino
dimostra che questa icona sacra è il risultato di un discorso che influisce sui
pronunciamenti del
Consiglio di stato, dei più diversi ministri dell'istruzione, dei tribunali e
delle Commissioni
parlamentari. Il crocefisso esprimerebbe in chiave simbolica l'origine religiosa
dei valori di
tolleranza, di rispetto reciproco e di valorizzazione della persona. Affiggere
un crocefisso sulle
pareti degli edifici pubblici significa ribadire una verità al tempo stesso
relativa e assoluta: tutti
coloro che crescono e muoiono nella «cultura italiana» hanno lo statuto di
cristiano.
Così facendo si aggira un tabù, quello di affermare che
il cristianesimo è una religione universale e
superiore a tutte le altre, ma si occulta il fatto che in Italia la religione
cristiana è una religione
cattolica, con tutta la complessità delle sue espressioni che spingono
ad interpretare questo simbolo
in modi molto diversi. Individualista ai limiti della discrezionalità e
dell'opportunismo morale,
spesso connivente con la secolarizzazione, altre volte insoddisfatta dei limiti
che essa impone, la
questione cattolica in Italia trova nella storia simbolica e politica del
crocefisso l'alba di un giorno
nuovo. Elevato a simbolo di potere, e non solo di martirio per l'umanità,
il crocefisso traduce
l'incombenza di una Chiesa che tende a proporsi come guida etica e politica di
una società in crisi
non di valori, ma di futuro e di autonomia individuale.
La vocazione mondana di questa istituzione incombente sulla società italiana ha
trovato molto
spesso una sponda nella politica. Accadde ad esempio tra il 1920 e il 1926,
quando un'accorta
campagna di stampa riaprì il problema della «restituzione delle croci». Queste
croci erano state tolte
dai luoghi laici più significativi della città di Roma quali il Campidoglio e il
Colosseo, come di una
contrada del vercellese, Stroppiana, dove tutto iniziò. Queste restituzioni
vennero accompagnate da
grandi manifestazioni di folla, veicolate dall'alleanza tra gerarchie
vaticane, movimenti cattolici di
base e il fascismo, che segnarono la conclusione di una storia che
aveva visto togliere il simbolo dai
luoghi pubblici subito dopo l'unità d'Italia quando si parlava di «Roma
capitale».
Protagonista di questa battaglia fu il maestro e capo
socialista Felice Angelo Fietti che guidò per
una quindicina d'anni le lotte della Lega dei contadini per le otto ore che
culminarono nello sciopero
più lungo della storia del proletariato vercellese durato cinquantaquattro
giorni. Fietti diventò un
rappresentante politico importante dopo le elezioni locali del 1920. Senza
consultare la propria base
impose con una circolare la rimozione dei crocefissi dalle scuole dell'intero
circondario. La reazione
non tardò a farsi sentire. La «Domenica del Corriere» del 16 gennaio 1921
rappresenta in copertina
l'assalto di una folla di donne di ogni età che, crocefissi alla mano, cerca di
riappenderli alle pareti
del municipio di Stroppiana.
L'immagine riprodotta nel libro di Clara Gallini, insieme a molte altre, viene
commentata con una
sapienza degna di Aby Warburg. La lotta di Fietti in nome della laicità e del
pluralismo ignorava la
potenza di un immaginario politico alimentato dalla letteratura dannunziana e da
una vasta
iconografia che Gallini ripercorre sin dai tempi di Piranesi e dei pittori del
Grand Tour in Italia. Ci
furono anche poeti come Carducci o Gozzano che videro nel crocefisso il simbolo
della sofferenza e
della rassegnazione cristiana, ma ciò non bastò ad arrestare la costruzione del
discorso dominante.
Sin da inizio Novecento, infatti, archeologi e filologi rielaborarono il
mito fondativo della Roma
culla della cristianità. La grande croce di legno alta 7,8 metri e
pesante 5 quintali che un tempo si
dice fosse piantata nella cavea del Colosseo venne ricollocata in Campidoglio
nel novembre 1926.
Fu il trionfo dell'«identità italiana» che preparò l'atto finale della
stipula tra il fascismo e la Chiesa
cattolica dei «patti lateranensi» l'11 febbraio 1929.
Fietti terminò la sua vita in mendicità, tollerato dai fascisti e dimenticato da
tutti. L'eco della sua
solitaria, ed incompresa, battaglia giunge anche nelle pagine dei Quaderni del
carcere di Gramsci. Il
crocefisso è uno dei frammenti della raffinata composizione dell'egemonia
moderata in Italia. Da
etnologa, Gallini ripercorre il lato chiaroscurale di questa storia, popolato di
memorie scomparse e
di «relitti» culturali oggi sommersi. In essi rispuntano bagliori di lotte
che, se costruirono il
cristianesimo ai suoi inizi, si sono sviluppati sia dentro che contro di esso.
Nella storia del
socialismo italiano e in quella dei tanti «saperi minori» che alimentano le
lotte per la libertà e
l'uguaglianza.
Roberto Ciccarelli il manifesto
27 dicembre 2009