Perché mi odiano?
Non
capisco perché mi odino, ha confessato a don Verzé in pieno trauma da giorno
dopo, quando al dolore fisico si accompagna sempre la prostrazione morale.
Berlusconi è l’opposto di Cyrano. Quello si disprezzava e, disprezzandosi,
odiava essere amato. Silvio si adora, e adorandosi, desidera l’amore
altrui, senza distinzioni. Non si rende conto che chi pretende l’amore attira
con la stessa intensità anche l’odio.
I veri politici non pretendono di essere amati e infatti la gente li apprezza.
Li ignora o li disprezza: sentimenti medi, razionali, gestibili. Solo un
terrorista può spingersi a odiare un politico, però inteso come simbolo. Non
colpisce Moro perché è Moro, ma perché rappresenta lo Stato. Invece
Berlusconi viene colpito proprio in quanto Berlusconi. Non un politico, ma
un’icona, una rockstar. Uno che suscita sentimenti estremi: nei fan
(l’inno della Dc tedesca non si intitola «meno male che Angela c’è») come nei
detrattori. Lui parla alle viscere prima che ai cervelli: e le viscere sono
incontrollabili, da esse può scaturire tutto il bene e tutto il male del mondo.
Questo, ovviamente, non significa giustificare il gesto di uno squilibrato e la
violenza verbale di chi lo esalta sul web. È solo il tentativo di dare una
risposta alla domanda drammatica che Berlusconi ha posto a don Verzé.
Sventurato il popolo che ha bisogno di eroi, scriveva Brecht. Ma sventurati
anche gli eroi che hanno bisogno del popolo.
Massimo Gramellini La Stampa 15/12/2009
Quell'immagine senza ritorno
È sempre il volto dell'altro, sostiene Emmanuel Lévinas, la misura e la prova
della nostra umanità,
perché è nel volto dell'altro che è inscritta la sua e la nostra vulnerabilità.
Il volto ferito di Silvio
Berlusconi, una lacerazione improvvisa e violenta nella costruzione senza tempo
e senza rughe della
sua immagine personale e politica, si presta poco all'uso strumentale cui è
stato subito piegato dai
suoi pasdaran e in cui, come sempre, sembrano irretiti gran parte dei
suoi oppositori. Quel volto
colpisce più a fondo, con l'impatto di un'istantanea senza ritorno.
Con il suo consueto istinto,
Berlusconi stesso è stato il primo a capirlo, offrendosi alla vista della
folla e delle telecamere senza nascondere la ferita e anzi impugnandola.
Un gesto che non sta solo
nello stile mediatico del personaggio, ma sembra piuttosto guidato dall'ansia
del dopo. Che ne sarà,
dopo, dell'immagine del premier? L'icona del sovrano non contempla ferite,
e tanto lo sapevano i
costruttori della sovranità moderna da inventare, con la geniale formula del
doppio corpo del re, il
modo di trascendere in un corpo sacro e immortale la vulnerabilità di quello
secolare e reale. Ma
Berlusconi, maschera postmoderna di una sovranità terminale, di corpi ne ha uno
solo, ed è sulla
sua integrità, durata, potenza e padronanza che ha sempre puntato le sue
chance. Neanche
l'ostensione quasi sacrale del suo sangue al suo popolo lo garantisce, oggi,
dall'effetto di
vulnerabilità che quell'immagine senza ritorno del suo volto oltraggiato
produce.
Lo sanno anche i suoi, ed è per questo
che, loro sì con poca umanità, si sono affannati all'istante non
tanto a chiedere solidarietà per il premier e condanna per l'attentatore, due
cose evidentemente
dovute e sentite, quanto a pretendere genuflessioni, retromarce, confessioni di
colpa, ammissioni di
responsabilità, impegni di autosilenziamento dall'opposizione in tutte le sue
frantumate espressioni,
d'un tratto accomunate nel ruolo del «mandante» del dissennato Tartaglia. Una
marea montante di
insulti e attacchi che la dice lunga sulla quantità di rancore di cui la
cerchia ristretta degli amici e
delle amiche del premier, i Cicchitto e le Carfagna, è affetta e infetta:
dal rancore verso Veronica
Lario, indirettamente citata ritorcendo contro la sinistra la denuncia del
«ciarpame» che fu sua
contro il marito, a quello verso Rosi Bindi, che fu rea di «indisponibilità»
verso il premier e oggi è
rea di dire una verità impronunciabile (anche per i suoi compagni di campo),
cioè che se clima di
violenza c'è, fra i suoi artefici va annoverato anche Berlusconi che pertanto
non ne è solo vittima. E
ancora, dal rancore ribadito verso la magistratura al rancore riciclato per gli
anni Settanta,
improvvisamente riportati al centro della scena come un deposito fantasmatico di
violenza di piazza
e «giustificazionismo» della sinistra, in un crescendo - violento - di
semplificazioni e falsificazioni
che smentiscono, se ce ne fosse bisogno, qualsiasi pretesa di buone intenzioni
nell'appello ipocrita
all'abbassamento dei toni, alla collaborazione istituzionale e al dialogo
democratico.
In politica però i fantasmi sono
pessimi consiglieri. E il fantasma degli anni di piombo, evocato con
strumentale leggerezza, rischia di portare fuori strada non solo gli amici ma
altresì gli avversari del
premier ferito. C'è un doppio salto mortale alla base del teorema che i
cortigiani del principe stanno
allestendo da quarantotto ore in qua: l'aggressione a Berlusconi è opera di uno
squilibrato, dunque
non c'entrerebbe nulla con la violenza politica organizzata degli anni di
piombo, se non fosse per la
faccenda dei mandanti, che invece le accomuna: cattivi maestri allora, cattivi
maestri oggi, con la
differenza che allora i cattivi maestri erano gli estremisti di sinistra e oggi
sono i giudici della Corte
costituzionale. Oggi come allora però, al fondo il ritornello è lo stesso:
parlare significa instigare ad
agire, criticare equivale ad armare le mani, riempire le piazze significa
fiancheggiare i violenti.
Morale, non si disturba il manovratore. E' un ritornello
irricevibile, che se rischia di fiaccare
ulteriormente un'opposizione istituzionale allo sbando, e se ha buone
probabilità di ricompattare le
fratture che cominciavano a palesarsi nella maggioranza, non ha molte speranze
di essere ascoltato
dove comunque monta la stanchezza sociale per il ventennio berlusconiano e le
sue promesse
mancate.
Tuttavia non è solo questo il punto. Marcare la differenza, per poi accorciare
le distanze, fra «il
pazzo isolato» di oggi e la violenza organizzata di ieri rischia di appannare lo
sguardo di fronte alle
vere, abissali differenze fra il clima di trent'anni fa e quello di oggi. Se
oggi l'instabile Tartaglia
aggredisce indisturbato il presidente del consiglio durante un bagno di folla,
il perché non va
cercato nella differenza fra la miniatura del duomo di Milano e i sampietrini
del '77. Va cercata in
una deriva della politica che nutre il potere di seduzione e identificazione ma
perciò stesso lo rende
vulnerabile dall'antipatia e dalla disidentificazione, blandisce i leader nei
bagni di folla e nei bagni
di folla li tradisce, riduce la rappresentanza e l'azione collettiva
all'impotenza. Il gesto di un folle è il
gesto di un folle, ma nella follia, lo sappiamo, ci sono più verità di quanto i
sani di mente vogliano o
possano talvolta ammettere.
Ida Dominijanni
il manifesto 15 dicembre 2009